Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

martedì 2 giugno 2015

La sofferenza unisce cielo e terra (Contributi 1000)

Una bella testimonianza di Gerard McCarthy datata 27 maggio 2015 dal sito della Fraternità Sacerdotale San Carlo


Alcune settimane fa, ad un matrimonio, una bambina molto vivace mi prende per mano e mi dice: «Hai una bella pancia, don Gerry!». La mamma stava già pensando a come scusarsi ma la bimba, tenendomi la mano, continua: «Perché tremi?». Le rispondo: «Perché non sto tanto bene». «Perché?». «Perché Gesù vuole così». E lei: «Allora va bene».
Allora va bene. Questa è la verità: accettare la malattia diventa una liberazione, e la scelta è nostra. La prima volta che mi è stato diagnosticato un tumore maligno è stata una cosa strana. Avevo appena visto Giovanni Paolo II. Con lui c’era un’amicizia. Ogni volta che lo incontravo, mi chiamava per nome: «Don Gerry!». Si ricordava sempre di me. Quella volta era venuto in parrocchia ed era molto sofferente a causa del Parkinson. Era davvero giù e sembrava che non potesse respirare. Durante l’incontro ho pensato: «Come potrei essere vicino al Papa?». Mi si spezzava il cuore a vederlo così e mi sono detto che l’unico modo era quello di mandargli il mio angelo custode perché lo aiutasse. Ho detto, dentro di me, al mio angelo: «Ti mando da Sua Santità. Aiutalo, dagli un bacio e fallo stare bene». Finito l’incontro, siamo passati a baciargli la mano, e quando sono arrivato io si è alzato, mi ha messo la mano destra sulla testa e mi ha detto: «Eccoti!». Poi mi ha fatto un segno di croce. Ero davvero commosso.
L’aiuto più grande
Dopo pochi giorni vado a fare una visita medica perché stavo ingrassando troppo. Sapevo che certamente il problema era, come dicono i romani, che mi piace magnà. Però era veramente troppo. In ospedale mi hanno detto: «Facciamo un esame e vediamo cos’è». Quando sono tornato per ritirare l’esito, mi hanno dato un foglio: «Portalo al tuo medico». Al semaforo, come avrebbero fatto tutti, l’ho aperto: «Carcinoma maligno. Da operare subito». Quando il dottore l’ha visto si è alzato, mi ha abbracciato e mi ha detto: «Ma tu sei forte, e ce la fai». In quel momento sono entrato un po’ in crisi.
La cosa più difficile della malattia non è accettarla, ma è dirlo alle persone che ami, perché sai che il tuo male farà soffrire anche loro. Per questo, l’aiuto più grande che possiamo offrire ad una persona cara, nel momento in cui si ammala, è farle capire che la sofferenza ha la stessa origine dell’amore: soffriamo per quella persona perché la amiamo, come lei soffre perché ci ama. Non dobbiamo mai perdere di vista questa grande positività.
Il giorno della Domenica delle Palme, ho detto a tutta la mia parrocchia durante la messa: «Ho un tumore maligno, ma per favore non crediate mai, mai, che Dio punisce. Dio non punisce attraverso la malattia. Non è una punizione, è una benedizione». Volevo che tutti vivessero con me questo momento. All’uscita, un ragazzo giovane mi è venuto incontro e mi ha detto: «Anch’io ho un tumore e pensavo che Dio mi odiasse. Oggi ho capito che mi vuole bene».
Un’offerta che porta frutto
Dopo l’operazione sono tornato dai dottori e mi hanno detto che dovevo fare le radiazioni, in una stanza chiusa, perché non potevo stare vicino alle persone. Sono entrati coperti, hanno aperto una scatola con il segno delle radiazioni sopra e mi hanno detto di prendere in mano la pasticca e mandarla giù. Era una cosa enorme e io ho chiesto: «Posso masticarla?». «Assolutamente no!». Guardando la scatola, ho detto: «Io ho paura, io ho paura». Non ho mai avuto problemi a dire che ho paura. Quando uno dice che ha paura lo dice a qualcuno e facendo così dà la possibilità a Dio di entrare nella sua vita. Se Gesù nel Getsemani lo ha detto, perché noi non possiamo dirlo? In quel momento mi è venuta un’intuizione e ho pensato: «Questa non è la medicina, questo è l’amore di Dio per me. Accetto questo Tuo amore». Sono rimasto lì per più di sette giorni, ho vissuto tutto con tranquillità, pur avendo tante domande: «Peggiorerò? Morirò? Che cosa dovrò fare?».
Tornato in parrocchia, incontro di nuovo quel ragazzo che mi aveva parlato. Mi dice: «Don Gerry, sono peggiorato, non mi lasciare solo». Da quel giorno, quando aveva momenti di panico io partivo di notte, a qualsiasi ora: avevo detto ai suoi genitori di chiamarmi. Non devi mai trattare una persona malata come se fosse vittima di una maledizione, come una cosa difficile: devi amarla. La persona non è la malattia, la persona è sempre la stessa persona, c’è qualcosa di diverso e avrà bisogno di qualcosa di diverso. Quando andavo da lui e mi diceva di avere paura, io gli rispondevo: «Ci sono io, e se ci sono io c’è Gesù. Non avere paura, ti tengo per mano». Lo tenevo per mano, e ho fatto il cammino con lui, tutte le ore, tutti i giorni, finché ci ha lasciato. Aveva ventidue anni. Io sono crollato perché non sono solo un prete, sono un uomo, un uomo di Dio – questo vuol dire essere prete. Suo padre, che non era credente, mi ha detto: «Vedo che sei un uomo. Hai voluto bene a mio figlio». E io: «Tuo figlio è stato un dono di Dio per la mia vita e per quella di tante altre persone». Dopo quel fatto, il gruppo giovanile in parrocchia ha iniziato a guardare alla malattia con una nuova positività. Era l’anno 2001.
Una nuova prova
Gli anni passano, finché arriva il giorno in cui scopro di avere il morbo di Parkinson. Durante la messa la mano tremava, ballava troppo, poi avevo dei momenti in cui pensavo ad una parola e stavo per dirla, ma passava un certo tempo prima di poter fare il collegamento con il cervello. Sono andato dal dottore, che mi ha sottoposto ad una Tac e ad altri esami, fino alla diagnosi del morbo.
Quasi due anni fa, ho cominciato a camminare con difficoltà. Allora ho avuto una crisi fortissima. Sono andato dal mio superiore, don Massimo Camisasca, e gli ho detto: «Ormai per il Parkinson non riesco quasi più a camminare, non riesco a ragionare bene, ho bisogno di un aiuto».
Mi ha commosso in quel momento che don Massimo mi ha preso la mano, l’ha baciata e mi ha detto: «Gerry, in questo momento la tua sofferenza collega il cielo con la terra: soffri per tanti tuoi fratelli, offri tutto». Poi ha chiamato un medico che poteva aiutarmi e ha aggiunto: «Vai a Milano, al Niguarda, ti curiamo là per un periodo».
La prima sera in ospedale è stata tremenda, ho cominciato a piangere pensando che non ce l’avrei fatta a so-stenere questa nuova prova. Percorrendo il corridoio della Fondazione Moscati, dove ero ospite, sulla parete ho visto un quadro con la foto di don Giussani in ginocchio davanti a san Giovanni Paolo II. Davanti a loro ho pregato: «Don Giussani, tu hai avuto il Parkinson; papa Giovanni Paolo II, tu hai avuto il Parkinson; io ho il Parkinson: non chiedo di guarirmi, ma fatemi vivere come voi avete vissuto la malattia». Guardando a loro, mi sono sentito in pace e ho capito che il Signore mi è sempre vicino, sta facendo Lui il cammino.
Non mi abbandona mai
A Milano dovevo prendere la metropolitana, la linea gial­la dalla clinica Moscati fino a Niguarda, dovevo andare da solo e non camminavo bene, sembravo ubriaco e avevo tanta paura. Ho detto: «Signore, non farmi mai stare solo. Io credo che tu sia sempre vicino». E Lui mi ha risposto. Durante tutto l’anno che ho trascorso a Milano, ogni giorno, quando andavo a prendere la metropolitana, incontravo sempre qualcuno che mi conosceva. Una mattina una signora mi ha chiesto dove si trovava la stazione e io le stavo dando indicazioni, quando sento: «Don Gerry! Io sono stato tuo studente in Irlanda venti anni fa. Cosa fai qui?». Ecco, tutti incontri di questo genere. Un giorno non ho incontrato nessuno, ma c’era un posto libero vicino a me. Entra una mamma con un bambino il quale subito corre a sedersi vicino a me. Mi guarda e mi fa un sorriso. Per fede, ho detto: «Questo è Dio».
Io credo fermamente, infatti, che Dio è presente in tutto: Cristo è venuto a salvarci, a farci compagnia. Se non crediamo alla sua presenza nelle cose piccole della vita, allora non crediamo più in niente. Sono arrivato a dire e a credere che non sia don Gerry ad avere il Parkinson; Gesù ha il Parkinson e lo porta nel mio corpo. La malattia non è mai una condanna, ma è l’inizio di una novità. Ho pianto tanto, ho avuto momenti di grande desolazione. Se a un certo punto, però, non ti sei spogliato di tutto, non puoi riconoscere che tutto quello che hai è dato dal Signore. Quando sei ammalato e non ti alzi più, qualunque gesto semplice tu voglia fare, deve compierlo un altro per te. Allora capisci che cosa significhi quel «Io sono Tu che mi fai» che ci ha insegnato don Giussani. Quel “Tu” è la persona che nel cammino ti è vicina e ti fa andare avanti.
Il segreto della grazia è che Cristo stesso soffre in noi perché è venuto a redimere il mondo. Questa è la storia della nostra vita ed io come sacerdote lo comprendo ancora di più quando alzo il Santissimo, guardo Gesù che ha sofferto e capisco che tutto ciò che sto portando è pochissimo rispetto a quanto Lui mi ha dato.
Dio parla con i silenzi, con le parole e con i fatti. A volte, il silenzio è più efficace. Nel film Francesco di Liliana Cavani, verso la fine, il poverello di Assisi entra in una crisi profonda e grida: «Chi sono io? Chi sei Tu?». Nella malattia facciamo lo stesso cammino: chi sono io? Chi sei Tu, Cristo? Imparo che io sono più della malattia, più del mio corpo, e riconosco Colui che viene, l’Amore, Colui che mi ama, che mi crea in ogni momento. Colui che mi crea nell'Infinito.


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