Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

sabato 31 agosto 2013

Il sangue riempie le nostre strade, i nostri occhi, il nostro cuore (Contributi 882)

Da Tempi riporto questa lettera di quattro suore trappiste che vivono in monastero cistercense sopra una collina in un villaggio maronita al confine col Libano, fra Homs e Tartous. 
E colgo l'occasione per inviarvi a firmare QUESTO appello contro l'intervento armato in quel Paese. 


Oggi non abbiamo parole, se non quelle dei salmi che la preghiera liturgica ci mette sulle labbra in questi giorni: «Minaccia la belva dei canneti, il branco dei tori con i vitelli dei popoli… o Dio disperdi i popoli che amano la guerra…». «Il Signore dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte»… «ascolta o Dio la voce del mio lamento, dal terrore del nemico preserva la mia vita; proteggimi dalla congiura degli empi, dal tumulto dei malvagi. Affilano la loro lingua come spada, scagliano come frecce parole amare… Si ostinano nel fare il male, si accordano per nascondere tranelli, dicono: “Chi li potrà vedere? meditano iniquità, attuano le loro trame. Un baratro è l’uomo, e il suo cuore un abisso”. Lodate il mio Dio con i timpani, cantate al Signore con cembali, elevate a lui l’accordo del salmo e della lode, esaltate e invocate il suo nome. POICHE’ IL SIGNORE E’ IL DIO CHE STRONCA LE GUERRE. “Signore, grande sei tu e glorioso, mirabile nella tua potenza e invincibile”». 
Guardiamo la gente attorno a noi, i nostri operai che sono venuti a lavorare tutti come sospesi, attoniti: «Hanno deciso di attaccarci». Oggi siamo andate a Tartous… sentivamo la rabbia, l’impotenza, l’incapacità di formulare un senso a tutto questo: la gente cerca di lavorare, come può, di vivere normalmente. Vedi i contadini bagnare la loro campagna, i genitori comprare i quaderni per le scuole che stanno per iniziare, i bambini chiedere ignari un giocattolo o un gelato… vedi i poveri, tanti, che cercano di raggranellare qualche soldo, le strade piene dei rifugiati “interni” alla Siria, arrivati da tutte le parti nell’unica zona rimasta ancora relativamente vivibile… guardi la bellezza di queste colline, il sorriso della gente, lo sguardo buono di un ragazzo che sta per partire per militare, e ci regala le due o tre noccioline americane che ha in tasca, solo per “sentirsi insieme”… E pensi che domani hanno deciso di bombardarci… Così. Perché “è ora di fare qualcosa”, così si legge nelle dichiarazioni degli uomini importanti, che domani berranno il loro thé guardando alla televisione l’efficacia del loro intervento umanitario … 
Domani ci faranno respirare i gas tossici dei depositi colpiti, per punirci dei gas che già abbiamo respirato? 
La gente qui è davanti alla televisione, con gli occhi e le orecchie tesi: «Si attende solo una parola di Obama»!!!! Una parola di Obama?? Il premio Nobel per la pace, farà cadere su di noi la sua sentenza di guerra? Aldilà di ogni giustizia, di ogni buon senso, di ogni misericordia, di ogni umiltà, di ogni saggezza? 
Parla il Papa, parlano Patriarchi e vescovi, parlano innumerevoli testimoni, parlano analisti e persone di esperienza, parlano persino gli oppositori del regime… E tutti noi stiamo qui, aspettando una sola parola del grande Obama? E se non fosse lui, sarebbe un altro, non è questo il problema. Non si tratta di lui, non è lui “il grande”, ma il Maligno che in questi tempi si sta dando veramente da fare
Il problema è che è diventato troppo facile contrabbandare la menzogna come nobiltà, gli interessi più spregiudicati come una ricerca di giustizia, il bisogno di protagonismo e di potere come la responsabilità morale di non chiudere gli occhi… 
E a dispetto di tutte le nostre globalizzazioni e fonti di informazioni, sembra che nulla sia verificabile, che un minimo di verità oggettiva non esista… Cioè, non la si vuole far esistere; perché invece una verità c’è, e gli uomini onesti potrebbero trovarla, cercandola davvero insieme, se non fosse loro impedito da coloro che hanno altri interessi
C’è qualcosa che non va, ed è qualcosa di grave… perché la conseguenza è la vita di un popolo. È il sangue che riempie le nostre strade, i nostri occhi, il nostro cuore
Ma ormai, a cosa servono ancora le parole? Una nazione distrutta, generazioni di giovani sterminate, bambini che crescono con le armi in mano, donne rimaste sole, spesso oggetto di vari tipi di violenza… distrutte le famiglie, le tradizioni, le case, gli edifici religiosi, i monumenti che raccontano e conservano la storia e quindi le radici di un popolo… 
Domani, dunque (o domenica ? bontà loro…) altro sangue. 
Noi, come cristiani, possiamo almeno offrirlo alla misericordia di Dio, unirlo al sangue di Cristo che in tutti coloro che soffrono porta a compimento la redenzione del mondo. Cercano di uccidere la speranza, ma noi a questo dobbiamo resistere con tutte le nostre forze
A chi ha un vero amore per la Siria (per l’uomo, per la verità…) chiediamo tanta preghiera… tanta, accorata, coraggiosa… 
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martedì 27 agosto 2013

Non vi preoccupate, il paradiso è un posto bellissimo (Interventi 177)

Una bellissima testimonianza che riporto da Zenit 

Storia di Francesca Pedrazzini, una mamma che a 38 anni ha lasciato il marito e tre bambini. Il modo in cui ha affrontato la sofferenza e la morte ha convertito tanti e dimostrato che con Gesù anche la morte può essere strada alla vita

di Antonio Gaspari 
Può un funerale essere come un matrimonio? Può una bambina chiedere che il funerale della mamma sia una festa? Può una mamma che sta per morire, parlare con i suoi bambini e insegnare loro ad avere fede perché Gesù è buono e lei li vedrà e curerà dal cielo? Può una donna che sta per lasciare il marito ed i suoi bambini fare festa con gli amici in ospedale? 
Questo e altro ha fatto Francesca Pedrazzini, moglie e madre di 38 anni, salita in cielo dopo trenta mesi di combattimento con un tumore che l’ha uccisa. 
La sua vicenda ed il suo modo di affrontare il dolore e la morte così straordinariamente eroico sono stati raccontati nel libro di Davide Perillo, Io non ho paura, pubblicato dalle edizioni San Paolo. 
Ha narrato il marito Vincenzo Casella, il 21 agosto, nel corso di un incontro al Meeting di Rimini, dopo una serie di visite e esami, il 17 agosto 2012 la dottoressa lo prende da parte e gli dice “potrebbe essere questione di giorni. Al massimo qualche settimana”. 
E lì Vincenzo viene preso dall'angoscia: “Dirglielo? E come? E i bambini? E se poi crolla? Forse è meglio tacere per tenerla su di morale…”. 
Vincenzo chiede alla dottoressa, che gli confessa: “Guardi io sono una mamma. Se toccasse a me, vorrei sapere. Per decidere cosa fare con i miei bimbi”. 
Ma Francesca ha già capito. Chiama Vincenzo vicino al suo letto, lo guarda con una tenerezza grande. 
Vincè – gli dice – io sono tranquilla. Non ho paura perché c’è Gesù”. 
“Ma non sei triste?”, le chiede Vincenzo, e lei: “No, non sono triste. Sono certa di Gesù. Anzi sono curiosa di quello che il Signore mi sta preparando. Mi spiace solo che la tua prova è più grande della mia. Sarebbe stato meglio il contrario…”. 
“E’ vero. Soprattutto per i bimbi”. 
Francesca mostra una serenità ed una forza straordinaria. Chiede di vedere i figli: Cecilia di 11 anni, Carlo di 8 e Sofia di 4. 
Li vede uno per volta per 15 minuti e gli dice: “Guardate, io vado in Paradiso. E’ un posto bellissimo, non vi dovete preoccupare. Avrete nostalgia, lo so. Ma io vi vedrò e vi curerò sempre. E mi raccomando, quando vado in Paradiso dovete fare una grande festa”. 
Vincenzo era lì e la guardava con gli occhi spalancati, senza parole. 
“Ha fatto una cosa – ha spiegato – che vale cinquant'anni di educazione di una mamma”. 
Così accade che il taxista che accompagna un'amica al funerale di Francesca non ci voleva credere. Era sceso a domandare pensando che la cliente avesse sbagliato chiesa: “Ma davvero c’è un funerale qui? No, sa, tutta questa gente elegante, le facce… Io pensavo a un matrimonio”. 
Quando Mariachiara, la mamma di Francesca, aveva parlato con la dottoressa che la curava, questa le ha detto: “Una fede come quella di sua figlia non l’ho mai vista. Mi sarebbe piaciuto conoscerla un po’ di più. Le chiedo un piacere: se può, le dica che quando sarà in Paradiso si ricordi dell’ultimo medico che l’ha curata”. 
E Gianguido che aveva partecipato ai funerali, ha raccontato: “Sono rimasto impressionato dal funerale della Chicca (diminutivo in cui veniva chiamata Francesca, ndr). Io non credo in Dio. Ma non si può negare che lì c’era qualcosa. Qualcosa di straordinario che io non so spiegare”. 
Due zii di Francesca, lui ingegnere, lei bibliotecaria all'università di Pisa, sposati da 33 anni erano 40 anni che non andavano in Chiesa. Poi, saputo della malattia di Francesca, hanno iniziato a pregare. Hanno vissuto tutto il tragitto di Francesca dalla sofferenza alla morte. Ed hanno ritrovato la fede. Alla domanda chi è Francesca per voi, hanno risposto: “Un esempio, un faro. Un desiderio di essere così, un segno di croce tutte le mattine”. 
Un uomo aveva una parente in ospedale negli stessi giorni di Francesca, malata terminale come lei. Una sera rimane stupito perché vede nella camera di Francesca una tavolata di persone che mangiano la pizza, scherzano e ridono. 
All'inizio si irrita, perché non può essere, poi viene contagiato dalla gioia di quelle persone. Ha raccontato: “Qualcosa come un inno alla vita mi entrava nel cuore, nell’anima e nella mente”. 
Al termine della pizza i presenti pregano insieme, e solo al momento dei saluti quell'uomo capisce chi è l’ammalata: è l’unica che rimane in ospedale. 
Nel libro, Io non ho paura quest’uomo racconta che l’immagine di quella donna di 38 anni madre di tre bambini, che si appresta a lasciare consapevolmente il mondo, sorridente e divertita di fronte ad una pizza con intorno i propri cari è come se gli avessero piantato “un chiodo nel cuore. Un chiodo come un seme che ha fatto germogliare una pianticella che è e sarà il mio inno alla vita”. 
Un’amica che ha incontrato Vincenzo al bar gli ha detto: “Francesca mi ha colpito per il commosso coraggio con cui ha abbracciato la croce, per essere in Paradiso. Questa roba da Santi e di Santi abbiamo bisogno, in questa ordinaria vita comune. Francesca ha sofferto ma ha anche scommesso su Dio. E in ciò è la sua grandezza semplice, da madre e da sposa. Non siamo soli. Non saremo mai soli. Per questo Francesca non aveva paura”. 
Lorenza, amica della famiglia di Vincenzo, gli ha girato un tema fatto dalla figlia Letizia di 13 anni. 
Le era stato chiesto di fare un tema su “una persona che ti ha fatto crescere”. 
Lorenza ha scritto: “la persona che non dimenticherò mai è la mamma di tre bambini con cui andavamo in vacanza da piccoli. (…) è mancata a soli 38 anni. L’avevo incontrata al mare ed in montagna. Era contenta e allegra, era forte”. 
Steve Jobs citava un poeta che diceva “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo” e Lorenza ha commentato, forse Francesca non aveva mai sentito queste parole, “ma viveva ogni secondo in modo speciale, un modo che mi ha cambiato le vacanze e ora penso, la vita”. 
“Per me – conclude Lorenza - è stata una grande testimonianza, (…) mi ha fatto capire di vivere la vita, viverla veramente secondo per secondo, e ora quando penso a lei mi chiedo se sto dando tutto quello che posso dare”. 
Alcuni hanno detto a Vincenzo: “Scusa se ti facciamo parlare di Francesca, lo sappiamo che è dura perché ogni volta la ferita si riapre”. 
E Vincenzo ha risposto: “Molti pensano che per superare bisogna dimenticare, ma per me è l’esatto contrario: più ripercorro quella esperienza più mi da pace”.
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lunedì 26 agosto 2013

Perché mi perseguiti? (Contributi 881)

Riporto da Tempi questa intervista di Luca Marcolivio a Massimo Ilardo, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre

Qual è stato il contributo di Aiuto alla Chiesa che Soffre in questo Meeting? 
Abbiamo avuto la possibilità, parlando con Roberto Fontolan e con la presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, di intervenire all'incontro sulla Siria, illustrando tutte le problematiche che i siriani oggi affrontano e quello che ACS sta facendo in tal senso. Già l’anno scorso intervenimmo parlando dell’Iran ed in particolare di ciò che le minoranze cristiane soffrono in quel paese e quello che ACS ha fatto per loro. Per noi la considerazione da parte del Meeting è molto importante, anche perché tra di noi ci sono delle affinità. Nel 1987 il nostro fondatore venne al Meeting raccontando l’attività di ACS, con 7000 persone a seguirlo: quando arrivò, tutto il pubblico si alzò in piedi. L’ufficio italiano sta svolgendo attualmente un lavoro certosino per far conoscere ACS, non tanto perché sia una “voce tra le voci” ma per essere la voce che tratta l’argomento religioso con un dato taglio. Dopo 65 anni, alle parole sono seguiti fatti molto concreti, tra cui le donazioni dei benefattori, tutti rigorosamente privati. Oggi la questione viene affrontata con una pianificazione che vuole essere un elemento di distinzione dal punto di vista dell’autenticità dell’informazione. Preferiamo delle volte non dire nulla e, in certi casi, evitare interviste controproducenti. Il chiacchiericcio porta a poco e ritengo che parlare delle difficoltà dei nostri fratelli cristiani perseguitati non debba risolversi nello scoop, non è giusto utilizzare delle informazioni solo perché “facciano rumore”. Sappiamo da vicino quanto padre Johannes, che recentemente è tornato dall'Egitto, possa soffrire per quello che accade lì. Come direttore ho un profondo rispetto per questo tipo di comportamento. 

Come cambia la percezione della libertà religiosa? Che spunti ha offerto questo Meeting sul tema? 
L’elemento della libertà religiosa, rispetto al 1998, quando pubblicammo il primo rapporto sull’argomento, ha una dimensione sempre più vicina alla gente, sia da parte delle istituzioni, sia da parte della stampa e sta penetrando anche tra l’uomo della strada. Questo ci fa molto piacere. Per quanto riguarda il Meeting abbiamo ascoltato un intervento straordinario del cardinale Tauran, ma un po’ tutti gli interventi sono stati straordinari. L’argomento determinante continua ad essere quello del dialogo e il dialogo necessita di tempo: grossi exploit non ci sono ma quello che si avverte è un cammino che non deve fermarsi. Noi vigiliamo su questo, anche se ci sono momenti critici come in Siria e in Egitto (ma non dimentichiamoci mai della Nigeria!). 

La libertà religiosa è un problema in particolare di paesi asiatici o africani o un problema universale? In Europa quanto è sentito? 
È un fatto di coscienza. Questo diritto non deve essere erogato dai potenti, è qualcosa di naturale come la vita. Si inizia ad essere più consapevoli di questo diritto e del fatto che, se viene a mancare, tanti altri diritti vengono a mancare ugualmente. Per quanto riguarda la libertà religiosa, noi cristiani che viviamo in Italia, non ci rendiamo conto di quanta grazia abbiamo ricevuto, perché vivere la nostra fede significa non dover “scuotere” la nostra vita più di tanto. In un paese come l’Egitto, il Pakistan, l’Iraq, o la Nigeria, significa cambiare stile di vita, quando spesso noi entriamo in crisi se ci si rompe la macchina… Percepire che una coppia cristiana non possa vivere da cristiana in un paese come il Pakistan (perché la donna non può seguire l’educazione dei figli, perché non può guidare, perché deve camminare un passo indietro, perché non può approcciare il marito in un certo modo, ecc.), è determinante: è la consapevolezza di ciò che ACS porta avanti. Due anni fa abbiamo pubblicato un testo intitolato Perché mi perseguiti?, un estratto del rapporto che abbiamo cercato di diffondere nelle scuole, nei centri culturali, nelle associazioni, nelle parrocchie. Abbiamo diffuso 4500 copie e stiamo preparando una nuova edizione perché questo successo ci permetta di entrare nel mezzo della popolazione. Abbiamo conseguito dei risultati e questo è un grande passo avanti. 

Ci sono paesi – penso alla Russia o ad altri paesi dell’Europa ex comunista – che la libertà religiosa l’hanno riconquistata dopo decenni di persecuzioni: ACS ha operato in questi paesi? 
Come si rapporta ancora con essi? Nell'Europa dell’Est, il nostro padre Werenfried ha lavorato molto. I risultati ottenuti in Russia e in altre nazioni che hanno patito le stesse oppressioni, incominciano a concretizzarsi in ottimi riscontri anche dal punto di vista delle vocazioni. Continuiamo a seguire quello che succede in questi paesi, forse con relativamente minore attenzione rispetto ad altre parti del mondo ma comunque vigiliamo. Stiamo seguendo in particolare la Bosnia e il resto della ex Yugoslavia. Sono paesi dove ormai difficilmente succedono cose eclatanti e perciò non se parla ma ci sono fedeli che a suo tempo fuggirono da quei luoghi e che ancora devono tornare: stiamo lavorando anche su questo. È un laboratorio, un continuo sorgere di nuove vocazioni. L’Europa dell’Est sta dando grandi risultati: possiamo dirlo perché nella sezione centrale di ACS, c’è una sezione dedicata alla Chiesa ortodossa e questo la dice lunga sul dialogo ecumenico e interreligioso. Una Chiesa sorella aiuta un’altra Chiesa sorella: credo che questa sia una delle cose più belle. È stata una delle intuizioni del nostro fondatore all'inizio degli anni ’90.
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domenica 25 agosto 2013

Domenica XXI t.ord."C" 25-ago-2013 (Angelus 151)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! 
il Vangelo di oggi ci invita a riflettere sul tema della salvezza. Gesù sta salendo dalla Galilea verso la città di Gerusalemme e lungo il cammino un tale – racconta l’evangelista Luca – gli si avvicina e gli chiede: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (13,23). Gesù non risponde direttamente alla domanda: non è importante sapere quanti si salvano, ma è importante piuttosto sapere qual è il cammino della salvezza. Ed ecco allora che alla domanda Gesù risponde dicendo: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (v. 24). Che cosa vuol dire Gesù? Qual è la porta per la quale dobbiamo entrare? E perché Gesù parla di una porta stretta? 
L’immagine della porta ritorna varie volte nel Vangelo e richiama quella della casa, del focolare domestico, dove troviamo sicurezza, amore, calore. Gesù ci dice che c’è una porta che ci fa entrare nella famiglia di Dio, nel calore della casa di Dio, della comunione con Lui. Questa porta è Gesù stesso (cfr Gv 10,9). Lui è la porta. Lui è il passaggio per la salvezza. Lui ci conduce al Padre. E la porta che è Gesù non è mai chiusa, questa porta non è mai chiusa, è aperta sempre e a tutti, senza distinzione, senza esclusioni, senza privilegi. Perché, sapete, Gesù non esclude nessuno. Qualcuno di voi forse potrà dirmi: “Ma, Padre, sicuramente io sono escluso, perché sono un gran peccatore: ho fatto cose brutte, ne ho fatte tante, nella vita”. No, non sei escluso! Precisamente per questo sei il preferito, perché Gesù preferisce il peccatore, sempre, per perdonarlo, per amarlo. Gesù ti sta aspettando per abbracciarti, per perdonarti. Non avere paura: Lui ti aspetta. Animati, fatti coraggio per entrare per la sua porta. Tutti sono invitati a varcare questa porta, a varcare la porta della fede, ad entrare nella sua vita, e a farlo entrare nella nostra vita, perché Lui la trasformi, la rinnovi, le doni gioia piena e duratura. 
Al giorno d’oggi passiamo davanti a tante porte che invitano ad entrare promettendo una felicità che poi noi ci accorgiamo che dura un istante soltanto, che si esaurisce in se stessa e non ha futuro. Ma io vi domando: noi per quale porta vogliamo entrare? E chi vogliamo far entrare per la porta della nostra vita? Vorrei dire con forza: non abbiamo paura di varcare la porta della fede in Gesù, di lasciarlo entrare sempre di più nella nostra vita, di uscire dai nostri egoismi, dalle nostre chiusure, dalle nostre indifferenze verso gli altri. Perché Gesù illumina la nostra vita con una luce che non si spegne più. Non è un fuoco d’artificio, non è un flash! No, è una luce tranquilla che dura sempre e ci da pace. Così è la luce che incontriamo se entriamo per la porta di Gesù. 
Certo quella di Gesù è una porta stretta, non perché sia una sala di tortura. No, non per quello! Ma perché ci chiede di aprire il nostro cuore a Lui, di riconoscerci peccatori, bisognosi della sua salvezza, del suo perdono, del suo amore, di avere l’umiltà di accogliere la sua misericordia e farci rinnovare da Lui. Gesù nel Vangelo ci dice che l’essere cristiani non è avere un’«etichetta»! Io domando a voi: voi siete cristiani di etichetta o di verità? E ciascuno si risponda dentro! Non cristiani, mai cristiani di etichetta! Cristiani di verità, di cuore. Essere cristiani è vivere e testimoniare la fede nella preghiera, nelle opere di carità, nel promuovere la giustizia, nel compiere il bene. Per la porta stretta che è Cristo deve passare tutta la nostra vita. 
Alla Vergine Maria, Porta del Cielo, chiediamo che ci aiuti a varcare la porta della fede, a lasciare che il suo Figlio trasformi la nostra esistenza come ha trasformato la sua per portare a tutti la gioia del Vangelo. 

APPELLO 
 Con grande sofferenza e preoccupazione continuo a seguire la situazione in Siria. L’aumento della violenza in una guerra tra fratelli, con il moltiplicarsi di stragi e atti atroci, che tutti abbiamo potuto vedere anche nelle terribili immagini di questi giorni, mi spinge ancora una volta a levare alta la voce perché si fermi il rumore delle armi. Non è lo scontro che offre prospettive di speranza per risolvere i problemi, ma è la capacità di incontro e di dialogo. 
Dal profondo del mio cuore, vorrei manifestare la mia vicinanza con la preghiera e la solidarietà a tutte le vittime di questo conflitto, a tutti coloro che soffrono, specialmente i bambini, e invitare a tenere sempre accesa la speranza di pace. Faccio appello alla Comunità Internazionale perché si mostri più sensibile verso questa tragica situazione e metta tutto il suo impegno per aiutare la amata Nazione siriana a trovare una soluzione ad una guerra che semina distruzione e morte. 
Tutti insieme, preghiamo, tutti insieme preghiamo la Madonna, Regina della Pace: Maria, Regina della Pace, prega per noi. Tutti: Maria, Regina della Pace, prega per noi. 

Dopo l'Angelus 
 Saluto con affetto tutti i pellegrini presenti: le famiglie, i numerosi gruppi e l’Associazione Albergoni. In particolare saluto le Suore Maestre di Santa Dorotea, i giovani di Verona, Siracusa, Nave, Modica e Trento; i cresimandi delle Unità Pastorali di Angarano e Val Liona; i seminaristi e i sacerdoti del Pontifical North American College; i lavoratori di Cuneo e i pellegrini di Verrua Po, San Zeno Naviglio, Urago d’Oglio, Varano Borghi e San Paolo del Brasile. Per molti questi giorni segnano la fine del periodo delle vacanze estive. Auguro per tutti un ritorno sereno e impegnato alla normale vita quotidiana guardando al futuro con speranza. 
A tutti auguro buona domenica, una buona settimana! Buon pranzo e arrivederci!
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Comunicato conclusivo Meeting Rimini 2013

«L’uomo rimane un mistero, irriducibile a qualsivoglia immagine che di esso si formi nella società e il potere mondano cerchi di imporre. Mistero di libertà e di grazia, di povertà e di grandezza. […] 
Ecco allora l’emergenza-uomo che il Meeting per l’Amicizia tra i Popoli pone quest’anno al centro della sua riflessione: l’urgenza di restituire l’uomo a se stesso, alla sua altissima dignità, all'unicità e preziosità di ogni esistenza umana». Il messaggio di papa Francesco ci ha accompagnato lungo tutta la settimana come giudizio sulla situazione drammatica dell’uomo contemporaneo: «Poveri di amore, assetati di verità e giustizia, mendicanti di Dio, come sapientemente il servo di Dio Mons. Luigi Giussani ha sempre sottolineato»; e come indicazione della strada da percorrere: «Restituire l’uomo a se stesso, alla sua altissima dignità, all'unicità e preziosità di ogni esistenza umana dal concepimento fino al termine naturale. Occorre tornare a considerare la sacralità dell’uomo e nello stesso tempo dire con forza che è solo nel rapporto con Dio, cioè nella scoperta e nell'adesione alla propria vocazione, che l’uomo può raggiungere la sua vera statura». «Penso ai giovani che affollano la grande sala di Rimini e auguro loro di dare il contributo che tutti ci attendiamo dalle generazioni più giovani per una nuova fase di sviluppo in tutti i sensi dell’Italia e dell’Europa», aveva detto il presidente Napolitano nel video messaggio che ha inaugurato il Meeting. E concludeva: «Io credo che l’emergenza che viviamo […] è quella di una grave, grave forma di impoverimento spirituale, culturale, di motivazioni umane, di motivazioni non legate soltanto all'immediato interesse materiale. 
Chi può reagire a ciò? Può reagire la cultura, possono reagire certamente le istituzioni più di quanto non facciano. Possono reagire i sistemi educativi, può reagire molto di più di quanto non faccia il sistema di informazione e possono molto contribuire le grandi organizzazioni sociali comprese quelle ispirate ad una fede religiosa. In questo senso il contributo che viene ai più alti livelli dalla Chiesa cattolica è un contributo che soltanto dei ciechi possono non vedere». 
Tanti che sono venuti al Meeting sono stati colpiti dalla serietà dei contenuti proposti negli oltre 100 incontri, nelle 5 grandi mostre, nelle 7 esposizioni “Uomini all'opera”, oppure nei 23 spettacoli, dall'attenzione di migliaia di persone che non sono venute a Rimini per partecipare a un rito di fine estate, ma per cercare risposta all'urgenza del vivere, alla domanda: come si fa a vivere? Questi giorni sono stati un’occasione per andare «incontro a tutti, senza aspettare che siano gli altri a cercarci!». 
Le miriadi di incontri pubblici e personali hanno mostrato quanto il Meeting non abbia paura dell’altro e della diversità, qualunque essa sia − religiosa, etnica, culturale, ideologica −, e come il suo scopo sia quello di incontrare chiunque considerato come un bene per se stessi. Lo documentano le 800.000 presenze in fiera, agli incontri, alle mostre e agli spettacoli: visitatori, relatori e ospiti hanno vissuto il Meeting come se fosse casa propria, in un clima di rispetto reale per ciascuno e non di quella generica e astratta tolleranza che lascia indifferenti gli uni gli altri. «Chi lo conosce lo frequenta», ha detto un relatore; e un altro ha commentato: «Qui ho fatto un’esperienza nuova, non fermarsi alle difficoltà politiche ed economiche, ma uscire dal bunker, spalancare le finestre per vedere le realtà che si stanno muovendo». 
All'inizio del Meeting il Corriere della Sera aveva ricordato le parole di don Carrón del maggio 2012 sull'alternativa tra la vita come testimonianza o come ricerca dell’egemonia, invitando a seguire la settimana riminese perché «la fragile società italiana ha bisogno di soggetti che la aiutino a recuperare i propri valori e a ripartire». Le persone che hanno partecipato al Meeting possono giudicare se l’esperienza incontrata a Rimini è stata all'altezza di questa sfida della testimonianza. 
La testimonianza che ci offrono tutti quei cristiani che nel mondo sono perseguitati e uccisi a motivo della loro fede ci ha fatto accogliere il grido di papa Francesco e lanciare un «Appello per i cristiani perseguitati», che in questi giorni ha raccolto decine di migliaia di adesioni − primo firmatario il Presidente del Consiglio Enrico Letta – e che proseguiremo nei prossimi mesi, per proporlo come punto qualificante del programma del prossimo semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea. Al termine del Meeting torniamo nei nostri Paesi (oltre 70) e nelle nostre città con una consapevolezza maggiore dell’emergenza uomo e col desiderio di offrire la nostra esperienza, sempre correggibile, certi che la strada per una ripresa a tutti i livelli è solo in «un evento reale nella vita dell’uomo» (don Giussani). 
Vogliamo continuare a incontrare chiunque, consapevoli che «finché non porteremo Gesù agli uomini avremo fatto per loro sempre troppo poco» e che «l’uomo è la via della Chiesa». 
Per questo il titolo del XXXV Meeting per l’amicizia tra i popoli, che si svolgerà a Rimini dal 24 al 30 agosto 2014 è: «Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo».
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venerdì 23 agosto 2013

Speranza e carità sono una persona (Contributi 880)

Ecco un articolo di Riccardo Cascioli tratto da La Bussola 


«Sta pregando»: i volontari del Banco Farmaceutico che lo hanno invitato al Meeting di Rimini per una testimonianza, mi fermano quando faccio per entrare nel piccolo stanzino all'interno dello stand. Ho solo mezz'ora disponibile per l’intervista e i minuti volano via, mangiati nell'attesa che concluda la preghiera in quello spazio improbabile ricavato nei padiglioni della Fiera di Rimini. Eppure è il momento più importante dell’intervista, perché è ciò che meglio descrive fratel Biagio Conte, un uomo che, a causa della conversione, a Palermo in venti anni ha messo in piedi tre diverse strutture che ospitano e danno un futuro a senzatetto, stranieri dirottati qui da Lampedusa, donne abbandonate e ragazze madri. Alloggi, terreni da coltivare e altre attività artigianali per lavorare e vivere. 
Ma tutto ciò ha un’origine, una fonte che si chiama Cristo. Altrimenti, come direbbe papa Francesco, saremmo come una organizzazione non governativa. Ma la Chiesa è altro, è molto di più: la risposta al bisogno di pane, di un tetto, di un lavoro porta con sé la risposta al bisogno più grande che tutti abbiamo: quello della felicità, del significato della nostra vita, delle ragioni per cui vivere. 
E quando fratel Biagio finalmente esce da quello stanzino quella risposta ce l’ha stampata in faccia, è il suo volto trasformato da quel Cristo con cui si è intrattenuto fino a un attimo prima. Un volto gioioso, occhi azzurri pieni di luce, una lunga barba nera e un aspetto da profeta dell’Antico Testamento: una veste di tessuto grezzo color verde marcio sotto un mantello di un verde ancora più scuro che gli copre anche il capo; un lungo bastone cui si appoggia per camminare e un grosso rosario che gli esce dal fianco destro. Anche San Francesco ai suoi tempi doveva apparire un po’ in questo modo. 
Saluta, stringe le mani, gente arrivata da Palermo lo viene a salutare; quando arriviamo a cominciare l’intervista il tempo non è più molto, ma l’essenziale lo abbiamo già visto. Ma come è accaduto? “Mi hanno sempre colpito le immagini degli ultimi, i poveri, i soli, i più deboli – comincia a raccontare fratel Biagio -, mentre io pensavo alle cose del mondo, alla moda, al consumismo. Mi colpiva fortemente vedere questa grande sofferenza delle persone nella città, i tanti senzatetto, i bambini che giocavano fra i detriti. Addirittura ho cominciato a sentirmi in colpa perché mi lasciavo trascinare dall'egoismo e dall'indifferenza che domina questa società”. 
Indifferenza evidentemente non molto perché quelle immagini di povertà lo seguono continuamente, lo assillano e lo fanno diventare insofferente, triste, depresso. “Qualcosa facevo - prosegue - davo il mio obolo, ma non mi sporcavo le mani, non mi donavo. Questa è la svolta, il buon Dio mi ha fatto capire che una società che lascia indietro i più deboli non è una società giusta, prima o poi esplode”. Biagio ha 26 anni, ricerca disperatamente la verità: “Credevo che la risposta venisse dalla scienza, dall'arte, ero un appassionato d’arte”, ma gli mancava il donarsi, come ripete più volte, gli mancava qualcosa che prendesse tutta la sua vita. 
Così all'improvviso, o forse per logica conseguenza, la decisione: il 5 maggio 1990 molla tutto, lascia la sua casa e senza dire nulla da Palermo prende la direzione opposta al mare, va verso l’interno della Sicilia, sulle montagne. Vive da eremita per quasi nove mesi. I suoi non lo trovano – e lo cercano anche a “Chi l’ha visto?” – ma lui pian piano ritrova se stesso: “Il buon Dio mi ha fatto percorrere la strada che mi ha cambiato, ho riscoperto la pace, la vera libertà, ho assaporato la vera libertà, non quella che nella nostra società porta alla droga, all'alcol e cose del genere. Il silenzio, il rapporto con la natura mi ha portato a riscoprire me stesso”. 
Ecco allora che Biagio parte, altri cinque mesi, stavolta in cammino a piedi attraverso la Sicilia, la Calabria, su su fino ad Assisi, “incontrando i poveri, i vagabondi, gli anziani soli; mi aiutavano i contadini, i pastori”. Poi Assisi, “e qui sento di lasciare ogni cosa materialistica, sento Gesù che mi invita: Seguimi. E io lo seguo, la mia vita è la missione”. 
Biagio è un uomo nuovo, diventa fratel Biagio, come Francesco otto secoli prima. Ridiscende l’Italia, convinto di andare in Africa ma arrivato a Palermo - 14 mesi dopo aver lasciato la casa paterna - gli si ripresentano tutti quei volti di poveri e deboli che lo avevano tormentato anni prima e capisce che la sua missione è qui. Ma non torna a casa, neanche un giorno. Comincia la sua nuova vita dalla stazione di Palermo, porta del latte caldo, panini, coperte, ma soprattutto quelli che per tutti sono vagabondi “io li ho chiamati fratelli e sorelle”. E nasce una familiarità. 
Con i poveri però, non certo con le autorità, che nel migliore dei casi lo scambiano per un altro barbone, ma vedono con diffidenza e ostilità questo suo mettere insieme i “barboni”. “Ma ogni volta che mi offendevano e mi umiliavano, così come facevano con i miei fratelli, mi rafforzavano”. 
E allora, dopo mesi di sofferenza e di condivisione della sofferenza, scrive a tutte le autorità, fa digiuni, alla fine ottiene i primi locali per cominciare una comunità. E’ l’inizio di una storia che dura da oltre venti anni ed è diventata un modello di accoglienza. Per gli oltre mille “fratelli e sorelle” accolti nelle sue case ci sono 500 volontari, associazioni e parrocchie che si danno il cambio per aiutare e organizzazioni che forniscono almeno una parte dei mezzi necessari. Come il Banco Farmaceutico, che ha portato fratel Biagio al Meeting di Rimini, e fornisce alla sua opera una parte dei farmaci donati durante la Giornata Nazionale di Raccolta del farmaco e di quelli che arrivano attraverso le donazioni aziendali. 
Ma fratel Biagio non è solo neanche a sostenere questa opera nelle sue fondamenta: ora ha un sacerdote e altri fratelli e sorelle, un nuovo ordine religioso che lentamente sta prendendo forma e che per ora ha il nome della sua opera, Missione Speranza e Carità. Fratelli e sorelle che, come lui, hanno lasciato tutto per servire Cristo nei più deboli, in quelli che una società ingiusta ha lasciato indietro andando incontro alla sua rovina. L’origine della crisi, come lascia intendere fratel Biagio, ma “non è vero che è troppo tardi”, dice, “bisogna rialzare questa società”. Lui un motto ce l’ha: “Sbracciati e datti da fare”, ripete più volte. “C’è tanto da fare, è proprio nella crisi che bisogna mettersi insieme; basta poco, uniamo le forze”. Ma soprattutto “affidiamoci alla Provvidenza”, che è quella che ha permesso la “Missione Speranza e Carità”: dal niente della strada all’opera modello che è oggi. 
Del resto a ognuno di noi è affidato un compito. Come riconoscerlo? “In ognuno di noi c’è un eremita – mi dice fratel Biagio prima di lasciarmi -, ma bisogna staccare la spina. Se non staccavo la spina tutto questo non l’avrei scoperto”. 
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giovedì 22 agosto 2013

Me l'ha detto Dio (Contributi 879)

Un articolo di Antonio Socci: 

Avevo ipotizzato, su queste colonne, il 3 maggio scorso, che nell’epocale rinuncia al papato di Benedetto XVI vi fosse un aspetto misterioso, anzi, forse addirittura mistico. Adesso filtrano voci che fanno trasparire proprio questa possibilità. ***** Prima di vedere queste testimonianze faccio un passo indietro. Come e perché avevo formulato quell'ipotesi? 
Mi avevano colpito le poche – ma significative – espressioni con le quali Benedetto XVI aveva motivato il suo clamoroso gesto (in un certo senso) senza precedenti. 
Nel suo ultimo Angelus da pontefice, il 24 febbraio 2013, prendendo spunto dal Vangelo di quella domenica, sulla Trasfigurazione, disse: 
“Meditando questo brano del Vangelo, possiamo trarne un insegnamento molto importante. Innanzitutto, il primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo… Inoltre, la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al cammino, all'azione. ‘L’esistenza cristiana – ho scritto nel Messaggio per questa Quaresima – consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio’ (n. 3)”
Poi papa Benedetto proseguì così: 
“Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio la sento in modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita. Il Signore mi chiama a ‘salire sul monte’, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze. Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria: lei ci aiuti tutti a seguire sempre il Signore Gesù, nella preghiera e nella carità operosa”
Le espressioni usate da Benedetto furono davvero insolite: “in questo momento della mia vita il Signore mi chiama a ‘salire sul monte’ … Dio mi chiede questo”
Sono frasi che tuttora colpiscono e fanno riflettere soprattutto perché Joseph Ratzinger è sempre stato un uomo di poche parole, che calibra molto attentamente ciò che dice e usa i termini religiosi con il consapevole rigore del grande teologo. 
Dunque, mi dissi, come può aver usato per caso quelle espressioni? Come poteva affermare così perentoriamente “Dio mi chiede questo” se si fosse trattato solo di una sua decisione personale derivante da sue valutazioni? 
Oltretutto in quel momento era il pontefice regnante e quello era il discorso attentamente preparato con cui voleva spiegare al popolo cristiano la sua rinuncia. Mi pareva impossibile che avesse alluso per caso, per due volte consecutive, a un’esplicita chiamata di Dio al ritiro come motivazione della sua scelta. 
Io avevo dunque ipotizzato di prendere alla lettera quello che il Papa aveva detto. Ritenevo che, in qualche modo misterioso, Dio avesse veramente illuminato il pontefice su quella decisione (magari confermando una possibilità già seriamente considerata da Benedetto). 
Ebbene, in queste ore è emerso qualcosa che porta proprio in questa direzione
Infatti l’agenzia Zenit, che si occupa dei fatti della Chiesa ed è molto accreditata, riferisce ciò che ha saputo confidenzialmente dalle rarissime persone che, nelle ultime ore, hanno potuto far visita al papa emerito che ha deciso di stare “nascosto al mondo”. 
“Qualcuno” scrive l’agenzia (nel servizio firmato da Salvatore Cernuzio) “ha avuto il privilegio di sentire dalle labbra del Papa emerito le motivazioni di questa scelta”. 
Da questi resoconti sappiamo che Benedetto “osserva soddisfatto le meraviglie che lo Spirito Santo sta facendo con il suo Successore, oppure parla di sé, di come questa scelta di dimettersi sia stata un’ispirazione ricevuta da Dio.Così avrebbe detto Benedetto ad uno degli ospiti di questi rari incontri… ‘Me l’ha detto Dio’, è stata la risposta del Pontefice emerito alla domanda sul perché abbia rinunciato al Soglio di Pietro. Ha poi subito precisato che non si è trattato di alcun tipo di apparizione o fenomeno del genere; piuttosto è stata ‘un’esperienza mistica’ in cui il Signore ha fatto nascere nel suo cuore un ‘desiderio assoluto’ di restare solo a solo con Lui, raccolto nella preghiera”. 
Non è dato sapere che tipo di “esperienza mistica” sia stata. Sembra si debbano escludere manifestazioni clamorose come delle apparizioni, ma – come sa chi conosce la letteratura mistica – sono tante le modalità con cui Dio si rivela e parla alle anime. 
L’agenzia prosegue così: 
“Lo stesso Ratzinger – ha rivelato la fonte che preferisce rimanere anonima – ha dichiarato che questa ‘esperienza mistica’ si è protratta lungo tutti questi mesi, aumentando sempre di più quell'anelito di un rapporto unico e diretto con il Signore. Inoltre, il Papa emerito ha rivelato che più osserva il ‘carisma’ di Francesco, più capisce quanto questa sua scelta sia stata ‘volontà di Dio’ ”. 
Certo è che Benedetto e Francesco sono due straordinari uomini di Dio, dalla storia e dal temperamento diversissimo, ma con una cosa in comune, quella essenziale su cui si basa l’affetto e la stima reciproca: l’assoluta umiltà personale di fronte al primato di Dio che per loro è tutto
Forse la Provvidenza, con quella rinuncia e questa convivenza di un papa emerito e un papa regnante, ha voluto indicare al mondo e alla Chiesa un grande segno di unità e comunione, un esempio straordinario di distacco dalle cose mondane (mentre tanti, anche ecclesiastici, appaiono bramosi di poltrone e potere). E ha voluto farci capire che nulla è più importante della preghiera e della contemplazione. Anche per cambiare la Chiesa e il mondo. 
Va detto – a conclusione – che nel secolo XX non è affatto insolito che si sappia di “esperienze mistiche” di uomini che sono stati chiamati alla Cattedra di Pietro. 
E’ notissima la “visione” sul futuro della Chiesa di Leone XIII, il papa della “Rerum novarum”, come pure quelle di Pio X (peraltro proclamato santo). 
Egualmente note sono le esperienze mistiche di Pio XII. Io stesso infine – nel libro “I segreti di Karol Wojtyla” – ho raccolto la testimonianza che mi ha dato il cardinale Deskur, l’amico storico di Karol Wojtyla, sulle esperienze mistiche di quel papa polacco che ha segnato così profondamente la storia del XX secolo, dell’Europa e della nostra generazione. 
Questi casi, che solitamente trapelano con gli anni, dovrebbero far capire che la Chiesa non è anzitutto un’entità sociologica, culturale o politica, ma un vero mistero. Essendo composta da uomini che hanno veramente fra loro, accanto a loro – in un modo misterioso – il Signore dell’universo e della storia.
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mercoledì 21 agosto 2013

La via dell’umiltà (Contributi 878)

Dal sito della Fraternità San Carlo un articolo di Luis Miguel Hernández 

Quando sono stato destinato in Portogallo, dieci anni fa, il primo libro che ho letto in portoghese si chiamava Bem-aventurados: era la storia dei beati Francesco e Giacinta Marto, i fratellini veggenti di Fátima beatificati da Giovanni Paolo II nel 2000. Nel libretto si faceva anche riferimento alla loro cugina Lucia, più conosciuta come suor Lucia, allora ancora in vita in un convento di carmelitane.
Questi bambini hanno segnato profondamente la mia vita. Oggi sono parroco della Igreja dos Pastorinhos, la prima chiesa al mondo loro dedicata. Nel giorno della consacrazione del nuovo edificio, nel 2005, ho portato in processione le loro reliquie, che oggi si trovano sotto l’altare maggiore. Non potrò mai dimenticare quella cerimonia. Seguendo il loro esempio, ho sperimentato che la recita frequente del rosario rende la vita più semplice e pacifica. Mi piace pensare a loro come se ognuno rappresentasse una delle principali dimensioni della vita cristiana. Francesco, a cui piaceva contemplare «Gesù nascosto» nel tabernacolo, consolandolo con la sua semplice compagnia, è per me simbolo del primato della preghiera e della contemplazione rispetto ad ogni azione. Giacinta, la più piccola, che rinunciava alla sua merenda per darla ai poveri e offriva continuamente dei sacrifici a Gesù, sottolinea la dimensione della carità e della disponibilità alla volontà di Dio. Infine, suor Lucia, che è vissuta circa ottant’anni più dei cugini, e così ha potuto trasmettere al mondo ciò che la Madonna aveva loro mostrato, mi invita alla missione intesa come trasmissione di un dono ricevuto.
Ma è nella loro semplicità che trovo il più grande insegnamento. Durante una sua visita da noi, don Massimo ha intitolato il suo incontro in parrocchia: «Perché Dio sceglie di parlare ai piccoli». Parlando a dei pastorelli poveri e analfabeti, Dio ci mostra il cammino dell’umiltà come strada privilegiata per conoscerlo. Proprio nei nostri tempi, pieni di orgoglio e presunzione, siamo di nuovo richiamati a diventare come bambini per entrare nel Regno dei Cieli.
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lunedì 19 agosto 2013

La povertà più grande è la mancanza di Cristo (Contributi 877)

Un articolo di Massimo Introvigne da La Bussola 

Il 18 agosto 2013, con un messaggio trasmesso dal cardinale Bertone, Papa Francesco ha fatto pervenire i suoi auguri ai partecipanti al XXXIV Meeting per l’Amicizia fra i Popoli di Rimini, dedicato al tema «Emergenza uomo». Il messaggio contiene una profonda riflessione sulla condizione dell'uomo contemporaneo, cui mancano molte cose, ma manca soprattutto la verità - anche su temi scomodi, come la difesa della vita - e ribadisce che la povertà più grave è la povertà spirituale, la quale è appunto la carenza di verità e di fede, e che, nel discorso al Corpo diplomatico del 22 marzo, Francesco aveva identificato con quella «dittatura del relativismo» tante volte evocata da Benedetto XVI. «La povertà più grande - ha scritto ora il Papa - è la mancanza di Cristo». 
La cultura dominante, nota il Pontefice, ci racconta che l'uomo è semplice, che lo si può ridurre alla sua dimensione materiale. Invece, «l'uomo rimane un mistero, irriducibile a qualsivoglia immagine che di esso si formi nella società e il potere mondano cerchi di imporre». Francesco ricorda l'espressione centrale della prima enciclica del beato Giovanni Paolo II (1920-2005), «Redemptor hominis»: «L’uomo è la via della Chiesa». «Questa verità - commenta il Papa - rimane valida anche e soprattutto nel nostro tempo in cui la Chiesa, in un mondo sempre più globalizzato e virtuale, in una società sempre più secolarizzata e priva di punti di riferimento stabili, è chiamata a riscoprire la propria missione, concentrandosi sull'essenziale e cercando nuove strade per l’evangelizzazione». 
Che cosa significa, più in profondità, l'espressione del beato Giovanni Paolo II? «L’uomo è via della Chiesa perché è la via percorsa da Dio stesso», dalla creazione di Adamo all'Incarnazione di Gesù Cristo. Certo, la «via principale della Chiesa» è il Signore Gesù, secondo l'espressione di sant'Agostino (354-430): «Rimanendo presso il Padre, [il Figlio] era verità e vita; rivestendosi della nostra carne, è diventato via». Spiegava il beato Giovanni Paolo II che è proprio perché Gesù «è anche la via a ciascun uomo» che l’uomo diventa «la prima e fondamentale via della Chiesa» («Redemptor hominis», 13-14). 
Così come è via, Gesù Cristo è anche porta. «Senza passare attraverso Cristo, senza concentrare su di Lui lo sguardo del nostro cuore e della nostra mente, non capiremmo nulla del mistero dell’uomo. E così, quasi inavvertitamente, saremo costretti a mutuare dal mondo i nostri criteri di giudizio e di azione, e ogni volta che ci accosteremo ai nostri fratelli in umanità saremo come quei "ladri e briganti" di cui parla Gesù nel Vangelo (cfr Gv 10,8)». È stato un tema di tanti Meeting di Rimini: i poteri forti s'interessano anche loro all'uomo, ma per dominarlo e manipolarlo. «Anche il mondo infatti - afferma Francesco - è, a suo modo, interessato all'’uomo. Il potere economico, politico, mediatico ha bisogno dell’uomo per perpetuare e gonfiare se stesso. E per questo spesso cerca di manipolare le masse, di indurre desideri, di cancellare ciò che di più prezioso l’uomo possiede: il rapporto con Dio. Il potere teme gli uomini che sono in dialogo con Dio poiché ciò rende liberi e non assimilabili». 
Ecco dunque il compito del Meeting: «restituire l'uomo a se stesso», «tornare a considerare la sacralità dell’uomo e nello stesso tempo dire con forza che è solo nel rapporto con Dio, cioè nella scoperta e nell'adesione alla propria vocazione, che l’uomo può raggiungere la sua vera statura». Dire agli uomini del nostro tempo che «la Chiesa, alla quale Cristo ha affidato la sua Parola e i suoi Sacramenti, custodisce la più grande speranza, la più autentica possibilità di realizzazione per l’uomo, a qualunque latitudine e in qualunque tempo». 
Questa difesa intransigente della sacralità dell'uomo, che ultimamente è possibile solo riconoscendo e affermando il suo rapporto con Dio, comprende obbligatoriamente, scrive Papa Francesco, la difesa dell'«unicità e preziosità di ogni esistenza umana dal concepimento fino al termine naturale». Per la terza volta in questo mese - dopo il messaggio ai Cavalieri di Colombo statunitensi e quello alle famiglie brasiliane - il Pontefice torna sulla difesa della vita contro aborto ed eutanasia. E all'Angelus del 18 agosto, con un occhio rivolto anche all'Egitto, Francesco ha ricordato che «fede e violenza sono incompatibili», il che non significa che non si abbia il diritto e il dovere di difendere la propria fede con vigore. Il Papa ha infatti ricordato l'antica distinzione fra forza e violenza, fra la fortezza - che è una virtù - e la violenza, che va sempre rifiutata. 
Sempre all'Angelus, Francesco ha invitato a non vivere la fede come un elemento meramente «decorativo». La fede o è tutto o non è niente. Nella vita, ha detto il Papa, o prevale Dio o prevale l'io. Non c'è una terza via. E ai partecipanti al Meeting di Rimini il Pontefice ha rivolto ancora una volta il suo consueto appello a «uscire» e portare la fede a chi non ce l'ha o pensa di non averla. «Non tratteniamo per noi - ha scritto - questo tesoro prezioso di cui tutti, consapevolmente o meno, sono alla ricerca. Andiamo con coraggio incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo, ai bambini e agli anziani, ai "dotti" e alla gente senza alcuna istruzione, ai giovani e alle famiglie. Andiamo incontro a tutti, senza aspettare che siano gli altri a cercarci!». «Non solo nelle chiese e nelle parrocchie, dunque, ma in ogni ambiente»: «anche nelle piazze» se è necessario. «Non dobbiamo avere paura di annunciare Cristo nelle occasioni opportune come in quelle inopportune (cfr2Tm 4,2)». 
Rispondere all' «emergenza uomo» che dà il titolo al Meeting significa «andare a cercarlo fin nei meandri sociali e spirituali più nascosti». Attenzione, però, ha ammonito il Papa. Ė importante andare a cercare l'uomo dovunque, ma è anche essenziale avere le idee chiare su che cosa gli si annuncia. «La condizione di credibilità della Chiesa in questa sua missione di madre e maestra è, però, la sua fedeltà a Cristo. L’apertura verso il mondo è accompagnata, e in un certo senso resa possibile, dall'obbedienza alla verità di cui la Chiesa stessa non può disporre». Occorre sempre annunciare la verità, non idee nostre o desunte dalla cultura dominante. 
Come ha preso a fare spesso - forse consapevole dei rischi insiti in certe letture mediatiche superficiali del suo Magistero - Francesco ha infine insistito sul fatto che lo stesso discorso sulla povertà si presta a equivoci. Per il cattolico «la povertà non è solo quella materiale. Esiste una povertà spirituale che attanaglia l’uomo contemporaneo. Siamo poveri di amore, assetati di verità e giustizia, mendicanti di Dio, come sapientemente il servo di Dio Mons. Luigi Giussani [1922-2005] ha sempre sottolineato. La povertà più grande, infatti, è la mancanza di Cristo, e finché non porteremo Gesù agli uomini avremo fatto per loro sempre troppo poco».
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domenica 18 agosto 2013

Cafarra - omofobia


Domenica XX t.ord."C" 18-ago-2013 (Angelus 150)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! 
nella Liturgia di oggi ascoltiamo queste parole della Lettera agli Ebrei: «Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,1-2). E’ un’espressione che dobbiamo sottolineare in modo particolare in questo Anno della fede. Anche noi, durante tutto questo anno, teniamo lo sguardo fisso su Gesù, perché la fede, che è il nostro "sì" alla relazione filiale con Dio, viene da Lui, viene da Gesù. E’ Lui l’unico mediatore di questa relazione tra noi e il nostro Padre che è nei cieli. Gesù è il Figlio, e noi siamo figli in Lui. 
Ma la Parola di Dio di questa domenica contiene anche una parola di Gesù che ci mette in crisi, e che va spiegata, perché altrimenti può generare malintesi. Gesù dice ai discepoli: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione» (Lc 12,51).Che cosa significa questo? Significa che la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione, come se fosse una torta e la si decora con la panna. No, la fede non è questo. La fede comporta scegliere Dio come criterio-base della vita, e Dio non è vuoto, Dio non è neutro, Dio è sempre positivo, Dio è amore, e l’amore è positivo! Dopo che Gesù è venuto nel mondo non si può fare come se Dio non lo conoscessimo. Come se fosse una cosa astratta, vuota, di referenza puramente nominale; no, Dio ha un volto concreto, ha un nome: Dio è misericordia, Dio è fedeltà, è vita che si dona a tutti noi. Per questo Gesù dice: sono venuto a portare divisione; non che Gesù voglia dividere gli uomini tra loro, al contrario: Gesù è la nostra pace, è la nostra riconciliazione! Ma questa pace non è la pace dei sepolcri, non è neutralità, Gesù non porta neutralità, questa pace non è un compromesso a tutti i costi. Seguire Gesù comporta rinunciare al male, all'egoismo e scegliere il bene, la verità, la giustizia, anche quando ciò richiede sacrificio e rinuncia ai propri interessi. E questo sì, divide; lo sappiamo, divide anche i legami più stretti. Ma attenzione: non è Gesù che divide! Lui pone il criterio: vivere per se stessi, o vivere per Dio e per gli altri; farsi servire, o servire; obbedire al proprio io, o obbedire a Dio. Ecco in che senso Gesù è «segno di contraddizione» (Lc 2,34). 
Dunque, questa parola del Vangelo non autorizza affatto l’uso della forza per diffondere la fede. E’ proprio il contrario: la vera forza del cristiano è la forza della verità e dell’amore, che comporta rinunciare ad ogni violenza. Fede e violenza sono incompatibili! Fede e violenza sono incompatibili! Invece fede e fortezza vanno insieme. Il cristiano non è violento, ma è forte. E con che fortezza? Quella della mitezza, la forza della mitezza, la forza dell’amore. 
Cari amici, anche tra i parenti di Gesù vi furono alcuni che a un certo punto non condivisero il suo modo di vivere e di predicare, ce lo dice il Vangelo (cfr Mc 3,20-21). Ma sua Madre lo seguì sempre fedelmente, tenendo fisso lo sguardo del suo cuore su Gesù, il Figlio dell’Altissimo, e sul suo mistero. E alla fine, grazie alla fede di Maria, i familiari di Gesù entrarono a far parte della prima comunità cristiana (cfr At 1,14). Chiediamo a Maria che aiuti anche noi a tenere lo sguardo ben fisso su Gesù e a seguirlo sempre, anche quando costa. 

DOPO L’ANGELUS 
Ricordatevi questo: seguire Gesù non è neutro, seguire Gesù significa coinvolgersi, perché la fede non è una cosa decorativa, è forza dell’anima! Cari fratelli e sorelle, vi saluto tutti con affetto, romani e pellegrini: le famiglie, i gruppi parrocchiali, i giovani... 
Voglio chiedere una preghiera per le vittime dell’affondamento del traghetto nelle Filippine, anche per le famiglie… tanto dolore! 
Continuiamo anche a pregare per la pace in Egitto.Tutti insieme: Maria, Regina della pace, prega per noi! Tutti: [Ripete con la gente:]Maria, Regina della pace, prega per noi! 
Saluto il gruppo folcloristico polacco proveniente da Edmonton, Canada.
Un saluto speciale rivolgo ai giovani di Brembilla – ma vedo eh!, vi vedo bene!- presso Bergamo, e benedico la fiaccola che porteranno a piedi da Roma fino al loro paese.E saluto anche i giovani di Altamura. 
A tutti auguro buona domenica, e un buon pranzo! Arrivederci!
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venerdì 16 agosto 2013

Padre Aldo Treno 14/8/2013

Carissimi amici, 
ogni giorno vedo le meraviglie del Signore. Di ritorno dall’Italia dove ho partecipato alla vacanza della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo (fra l’altro molto bella) ho incontrato nella clinica nuovi pazienti che hanno sostituito quelli che avevo lasciato ancora vivi e che sono morti mentre stavo in Italia. Incontrando i nuovi pazienti sono stato colpito da come la grazia di Dio mi accompagna mostrandomi il suo amore e l’amore all'uomo che soffre. 
Entro in una camera e vedo una donna con la sindrome di Down seduta su un letto, mentre sull'altro c’è un’anziana signora cieca e con la parte sinistra del corpo paralizzato. Mi presento e subito, con una allegria grande, la donna con la sindrome di Down si alza, mi abbraccia appoggiando la testa sulla mia spalla. Una tenerezza commovente propria di queste persone, così amate da Gesù. Chiamo l’infermiera e le chiedo alcune informazioni su queste due donne. Ascoltandola non potevo credere a quanto mi diceva: “Padre, sono mamma e figlia. Le hanno portate qui da un villaggio a più di 400 km da Asunción. Vivevano sole e abbandonate in un casolare dove la miseria era totale. L’anziana madre ha avuto cinque figli, tutti l’hanno abbandonata e non sa dove siano. Solo Mariana, la figlia con la sindrome di Down è rimasta con lei, assistendola in tutto. E adesso che hanno portato qui la madre perché gravemente inferma, la figlia l’ha voluta seguire. Così condividono la camera”. Mentre ascoltavo l’infermiera la figlia stava accanto alla mamma coprendola di baci e accarezzandola. Una scena che mi ha commosso. Mi ha fatto pensare alla tenerezza di Dio per ognuno di noi, vedere l’affetto di questa figlia che il mondo definisce disabile, verso la mamma e anche verso di me, che mi vedeva per la prima volta, quando le ho detto che sono sacerdote. Mi sono detto: “che grazia un figlio Down, tutti gli altri figli hanno abbandonato l a mamma bisognosa di tutto, mentre lei le è così attaccata che fa impressione. Per di più si dedicava alle sue necessità, le dava da mangiare. Era per la mamma quello che una mamma è per il suo bambino”. Che mistero questa capacità affettiva,dono del Mistero questi figli Down! Le ho portato un rosario di plastica: era felicissima e se lo è messo al collo. Basta poco per far felice una persona che vive con lo sguardo di un bambino. Tutti i figli, ripeto, hanno abbandonato la mamma, eccetto la figlia Down. L’amore è un dono dell’ESSERE che vibra potentemente in queste persone che tutti giudicano una sfortuna. 
Che tristezza quando una donna mi dice: “Sono incinta e i medici mi hanno detto che mio figlio ha la sindrome di Down e mi chiedono se voglio abortire per non caricarmi di questo peso. Padre, perché Dio ha permesso questo?” “Ma signora, guardi a suo figlio con la vibrazione amorosa con cui Dio lo sta creando. E può darsi che domani, se tutti la abbandonassero, marito e figli, sarà l’unico che le starà vicino con la tenerezza di questa donna che assiste la sua vecchia madre”. 
Grazie o Gesù per darci questi doni speciali che sono la semplicissima evidenza della Tua tenerezza per l’uomo. 
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Nota: Giuseppe, l’uomo di 43 anni da due anni a letto senza poter muovere niente del suo corpo e per di più cieco (una specie di SLA) ha detto al medico (vedi foto) : “La gente non accetta la verità della realtà… L’infermo esiste per ricordare a tutti che Dio esiste. La mia forza è la Presenza costante del Santissimo Sacramento che mi visita più volte al giorno”. 
P. Aldo
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giovedì 15 agosto 2013

Assunzione B.V. Maria 15-ago-2013 (Angelus 149)

Cari fratelli e sorelle, 
al termine di questa Celebrazione ci rivolgiamo alla Vergine Maria con la preghiera dell’Angelus. Il cammino di Maria verso il Cielo è cominciato da quel “sì” pronunciato a Nazareth, in risposta al Messaggero celeste che le annunciava la volontà di Dio per lei. E in realtà è proprio così: ogni “sì” a Dio è un passo verso il Cielo, verso la vita eterna. Perché questo vuole il Signore: che tutti i suoi figli abbiano la vita in abbondanza! Dio ci vuole tutti con sé, nella sua casa! 
Giungono purtroppo notizie dolorose dall'Egitto. Desidero assicurare la mia preghiera per tutte le vittime e i loro familiari, per i feriti e per quanti soffrono. Preghiamo insieme per la pace, il dialogo, la riconciliazione in quella cara terra e nel mondo intero. Maria, Regina della Pace, prega per noi! Tutti diciamo: Maria, Regina della Pace, prega per noi! Desidero ricordare il 25° anniversario della Lettera Apostolica Mulieris dignitatem, del beato Papa Giovanni Paolo II, sulla dignità e la vocazione della donna. Questo documento è ricco di spunti che meritano di essere ripresi e sviluppati; e alla base di tutto c’è la figura di Maria, infatti uscì in occasione dell’Anno Mariano. Facciamo nostra la preghiera posta alla fine di questa Lettera Apostolica (cfr n. 31): affinché, meditando il mistero biblico della donna, condensato in Maria, tutte le donne vi trovino se stesse e la pienezza della loro vocazione, e in tutta la Chiesa si approfondisca e si capisca di più il tanto grande e importante ruolo della donna. 
Ringrazio tutti i presenti, abitanti di Castel Gandolfo e pellegrini! Ringrazio voi e gli abitanti di Castel Gandolfo, grazie tante! … 
E tutti i pellegrini, in particolare quelli della Guinea con il loro Vescovo. Saludo con afecto a las alumnas del Colegio Pasionista “Michael Ham” de Vicente López, Argentina; así como a los jóvenes de la Banda de música del Colegio José de Jesús Rebolledo de Coatepec, México. 
E adesso, tutti insieme, preghiamo la Madonna:
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mercoledì 14 agosto 2013

No alla cultura dello scarto (Contributi 876)

Tratto da un articolo di Sergio Centofanti per Radio Vaticana 

La vita umana deve essere sempre difesa, sin dal concepimento: è quanto afferma Papa Francesco in un Messaggio in occasione della Settimana nazionale della famiglia, che si è aperta ieri in Brasile. L’evento è promosso della Conferenza episcopale locale, sul tema “Trasmissione ed educazione delle fede cristiana nella famiglia”. I vescovi, brasiliani, richiamando il documento di Aparecida, ricordano in una nota che la famiglia «è uno dei tesori più importanti dell’America Latina ed è patrimonio dell’umanità intera». 

I FIGLI E LA FEDE. «Care famiglie brasiliane»: così comincia il Messaggio di Papa Francesco che sottolinea come conservi ancora «vive nel cuore le gioie ricevute» durante il suo viaggio in Brasile per la Gmg. Il Papa incoraggia i genitori nella «missione nobile ed esigente di essere i primi collaboratori di Dio nell’orientamento fondamentale dell’esistenza e nella garanzia di un buon futuro. Per questo – spiega – è importante che “i genitori coltivino pratiche comuni di fede nella famiglia, che accompagnino la maturazione della fede dei figli”. (Lumen Fidei, 53)». 

SIN DAL GREMBO MATERNO. I genitori – prosegue il Messaggio – «sono chiamati a trasmettere con le parole e soprattutto con le loro opere, le verità fondamentali sulla vita e l’amore umano, che ricevono una nuova luce dalla Rivelazione di Dio». «In particolare, di fronte alla cultura dello scarto, che relativizza il valore della vita umana – sottolinea Papa Francesco – i genitori sono chiamati a trasmettere ai loro figli la consapevolezza che essa deve essere sempre difesa, sin dal grembo materno, riconoscendovi un dono di Dio e garanzia del futuro dell’umanità, ma anche nella cura degli anziani, specialmente dei nonni, che sono la memoria viva di un popolo e trasmettono la saggezza della vita». Infine, invocando l’intercessione di Nostra Signora di Aparecida, il Papa auspica che le famiglie possano essere «le più convincenti testimoni della bellezza dell’amore sostenuto e alimentato dalla fede». 
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domenica 11 agosto 2013

Domenica XIX t.ord."C" 11-ago-2013 (Angelus 148)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! 
Il Vangelo di questa domenica (Lc 12,32-48) ci parla del desiderio dell’incontro definitivo con Cristo, un desiderio che ci fa stare sempre pronti, con lo spirito sveglio, perché aspettiamo questo incontro con tutto il cuore, con tutto noi stessi. Questo è un aspetto fondamentale della vita. C’è un desiderio che tutti noi, sia esplicito sia nascosto, abbiamo nel cuore, tutti noi abbiamo questo desiderio nel cuore. 
Anche questo insegnamento di Gesù è importante vederlo nel contesto concreto, esistenziale in cui Lui lo ha trasmesso. In questo caso, l’evangelista Luca ci mostra Gesù che sta camminando con i suoi discepoli verso Gerusalemme, verso la sua Pasqua di morte e risurrezione, e in questo cammino li educa confidando loro quello che Lui stesso porta nel cuore, gli atteggiamenti profondi del suo animo. Tra questi atteggiamenti vi sono il distacco dai beni terreni, la fiducia nella provvidenza del Padre e, appunto, la vigilanza interiore, l’attesa operosa del Regno di Dio. Per Gesù è l’attesa del ritorno alla casa del Padre. Per noi è l’attesa di Cristo stesso, che verrà a prenderci per portarci alla festa senza fine, come ha già fatto con sua Madre Maria Santissima: l’ha portata al Cielo con Lui. 
Questo Vangelo vuole dirci che il cristiano è uno che porta dentro di sé un desiderio grande, un desiderio profondo: quello di incontrarsi con il suo Signore insieme ai fratelli, ai compagni di strada. E tutto questo che Gesù ci dice si riassume in un famoso detto di Gesù: «Dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34). Il cuore che desidera. Ma tutti noi abbiamo un desiderio. La povera gente è quella che non ha desiderio; il desiderio di andare avanti, verso l’orizzonte; e per noi cristiani questo orizzonte è l’incontro con Gesù, l’incontro proprio con Lui, che è la nostra vita, la nostra gioia, quello che ci fa felici. Ma io vi farei due domande. La prima: tutti voi, avete un cuore desideroso, un cuore che desidera? Pensate e rispondete in silenzio e nel cuore tuo: tu, hai un cuore che desidera, o hai un cuore chiuso, un cuore addormentato, un cuore anestetizzato per le cose della vita? Il desidero, andare avanti all'incontro con Gesù. E la seconda domanda: dov'è il tuo tesoro, quello che tu desideri? – perché Gesù ci ha detto: Dov'è il vostro tesoro, là sarà il vostro cuore – e io domando: dov'è il tuo tesoro? Qual è per te la realtà più importante, più preziosa, la realtà che attrae il mio cuore come una calamita? Cosa attrae il tuo cuore? Posso dire che è l’amore di Dio? C’è la voglia di fare il bene agli altri, di vivere per il Signore e per i nostri fratelli? Posso dire questo? Ognuno risponde nel suo cuore. Ma qualcuno può dirmi: Padre, ma io sono uno che lavora, che ha famiglia, per me la realtà più importante è mandare avanti la mia famiglia, il lavoro… Certo, è vero, è importante. Ma qual è la forza che tiene unita la famiglia? E’ proprio l’amore, e chi semina l’amore nel nostro cuore è Dio, l’amore di Dio, è proprio l’amore di Dio che dà senso ai piccoli impegni quotidiani e anche aiuta ad affrontare le grandi prove. Questo è il vero tesoro dell’uomo. Andare avanti nella vita con amore, con quell'amore che il Signore ha seminato nel cuore, con l’amore di Dio. E questo è il vero tesoro. Ma l’amore di Dio cosa è? Non è qualcosa di vago, un sentimento generico. L’amore di Dio ha un nome e un volto: Gesù Cristo, Gesù. L’amore di Dio si manifesta in Gesù. Perché noi non possiamo amare l’aria… Amiamo l’aria? amiamo il tutto? No, non si può, amiamo persone, e la persona che noi amiamo è Gesù, il dono del Padre fra noi. E’ un amore che dà valore e bellezza a tutto il resto; un amore che dà forza alla famiglia, al lavoro, allo studio, all'amicizia, all'arte, ad ogni attività umana. E dà senso anche alle esperienze negative, perché ci permette, questo amore, di andare oltre queste esperienze, di andare oltre, non rimanere prigionieri del male, ma ci fa passare oltre, ci apre sempre alla speranza. Ecco, l’amore di Dio in Gesù sempre ci apre alla speranza, a quell'orizzonte di speranza, all'orizzonte finale del nostro pellegrinaggio. Così anche le fatiche e le cadute trovano un senso. Anche i nostri peccati trovano un senso nell'amore di Dio, perché questo amore di Dio in Gesù Cristo ci perdona sempre, ci ama tanto che ci perdona sempre. 
Cari fratelli, oggi nella Chiesa facciamo memoria di santa Chiara di Assisi, che sulle orme di Francesco lasciò tutto per consacrarsi a Cristo nella povertà. Santa Chiara ci dà una testimonianza molto bella di questo Vangelo di oggi: ci aiuti lei, insieme con la Vergine Maria, a viverlo anche noi, ciascuno secondo la propria vocazione. 

Dopo l'Angelus 
Cari fratelli e sorelle, ricordiamo che il prossimo giovedì è la solennità di Maria Assunta. Pensiamo a Nostra Madre, che è arrivata al Cielo con Gesù, e quel giorno facciamo festa a lei. 
Vorrei rivolgere un saluto ai musulmani del mondo intero, nostri fratelli, che da poco hanno celebrato la conclusione del mese di Ramadan, dedicato in modo particolare al digiuno, alla preghiera e all'elemosina. Come ho scritto nel mio Messaggio per questa circostanza, auguro che cristiani e musulmani si impegnino per promuovere il reciproco rispetto, specialmente attraverso l’educazione delle nuove generazioni. 
Saluto con affetto tutti i romani e i pellegrini presenti. Anche oggi ho la gioia di salutare alcuni gruppi di giovani: anzitutto quelli venuti da Chicago, in pellegrinaggio a Lourdes e a Roma; e poi i giovani di Locate, di Predore e Tavernola Bergamasca, e gli Scout di Vittoria. Ripeto anche a voi le parole che sono state il tema del grande incontro di Rio: «Andate e fate discepoli tra tutte le nazioni». 
A tutti voi, e a tutti, auguro una buona domenica, e buon pranzo! Arrivederci!
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martedì 6 agosto 2013

Qualcosa di tremendo (Contributi 875)

Da Avvenire questa lettera aperta di Costanza Mariano: 

Caro bambino che per nove mesi hai ascoltato una voce che non sentirai mai più, che hai mischiato il tuo sangue con quello di una donna che non ti cambierà i pannolini né ti leggerà le storie né ti racconterà dei suoi nonni, di cui pure porterai memoria nelle tue cellule per tutta la vita; caro bambino che non hai succhiato il latte pronto nel seno per te, che hai dormito, scalciato, e vissuto per nove mesi sotto il cuore di una mamma che non ti accarezzerà mai, perché è stata pagata per sparire; caro bambino nato da un utero in affitto, ti chiedo perdono a nome dell’umanità. 
Cara madre surrogata che per nove mesi hai sentito un bambino diventare grande tra le tue viscere, nutrirsi di te, del tuo sangue e del tuo liquido amniotico, del tuo respiro e della tua carne; cara madre che in un minuto sei stata separata da un bambino forse tuo anche geneticamente, di certo tuo per il sangue e per il cuore, chiedo anche a te perdono a nome dell’umanità, perché certo hai accettato di fare una cosa più grande di te per necessità, prendendo pochi spiccioli di quelli che tu e il tuo bambino avete messo in movimento. Se sei ancora in tempo, ti chiedo se davvero non puoi vivere senza quei soldi, se non c’è un altro modo per evitare tanto dolore. 
Cari genitori che certo avete tanto sofferto per il fatto di non poter avere figli naturalmente, perché sterili o perché omosessuali, credo di poter solo immaginare il vostro dolore per il vuoto della mancanza di un figlio, la gioia più immensa che si possa avere. Ma proprio per il dolore che avete vissuto dovreste soccorrere il dolore altrui, e non moltiplicarlo. Vi prego, fermatevi: i figli non sono un diritto, e anche se il vostro dolore è grande, un vuoto accolto può diventare apertura ai bisogni degli altri in molti modi diversi, per esempio l’affido e l’adozione. 
Cari medici che vi rendete complici di questa barbarie, che trattate le donne come scatole incubatrici e i bambini come grumi di cellule, pronti a scegliere gli embrioni come se sfogliaste un campionario di stoffe, che maneggiate la vita e la morte come se vi appartenessero, vi auguro di capire un giorno tutto il male che state facendo, tutta la morte che avete seminato, tutto il dolore, la tristezza, l’errore, la confusione. Vi auguro di capirlo in tempo prima che la morte che portate dentro e che vi ha avvelenati abbia su di voi l’ultima parola. 
Care femministe che vi battete giustamente contro ogni forma di violenza e sfruttamento delle donne, vi chiedo di prendervi a cuore anche questa battaglia, perché non esistono una violenza e uno sfruttamento più grandi da infliggere a una donna che quello di portarle via dal grembo il suo bambino. La nostra natura, la nostra grandezza di donne sta nell'essere a custodia e difesa della vita quando è più debole, e nessuna donna che abbia generato un figlio può non saperlo. Anche se dovesse averlo abortito, magari perché sola, in difficoltà, ingannata, non potrà un giorno evitarsi il terribile dolore di capire che ha ucciso quanto di più prezioso le era stato donato. Ogni donna sa, anche quando è troppo doloroso ammetterlo, che uccidendo suo figlio uccide se stessa. 
Caro Occidente che dovevi essere un faro per l’umanità tutta, e portare progresso e benessere a tutti gli uomini, ti prego, fermati, smetti di sfruttare i poveri per i tuoi desideri e capricci. Un figlio non è solo un irresistibile fagottino che sorride e ciuccia il latte e riempie di gioia la casa (almeno fino a che i genitori riescono a proiettarsi su di lui). Un figlio è una persona, che ha il diritto di avere un padre e una madre, possibilmente stabili, e conoscibili. O, se adottato, ha il diritto comunque di sapere la sua storia, e di farci i conti. Non vediamo quanta infelicità e tristezza continuiamo a spargere dicendo di difendere i nostri diritti? Non capiamo che quando vogliamo essere noi a dettare le regole – la vita, la morte, la paternità e la maternità tanto per cominciare – finiamo solo per soffrire noi, e far soffrire gli altri?
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