Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

domenica 29 dicembre 2013

Santa Famiglia (Angelus 171)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In questa prima domenica dopo Natale, la Liturgia ci invita a celebrare la festa della Santa Famiglia di Nazareth. In effetti, ogni presepio ci mostra Gesù insieme con la Madonna e san Giuseppe, nella grotta di Betlemme. Dio ha voluto nascere in una famiglia umana, ha voluto avere una madre e un padre, come noi.
E oggi il Vangelo ci presenta la santa Famiglia sulla via dolorosa dell’esilio, in cerca di rifugio in Egitto. Giuseppe, Maria e Gesù sperimentano la condizione drammatica dei profughi, segnata da paura, incertezza, disagi (cfr Mt 2,13-15.19-23). Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di famiglie possono riconoscersi in questa triste realtà. Quasi ogni giorno la televisione e i giornali danno notizie di profughi che fuggono dalla fame, dalla guerra, da altri pericoli gravi, alla ricerca di sicurezza e di una vita dignitosa per sé e per le proprie famiglie.
In terre lontane, anche quando trovano lavoro, non sempre i profughi e gli immigrati incontrano accoglienza vera, rispetto, apprezzamento dei valori di cui sono portatori. Le loro legittime aspettative si scontrano con situazioni complesse e difficoltà che sembrano a volte insuperabili. Perciò, mentre fissiamo lo sguardo sulla santa Famiglia di Nazareth nel momento in cui è costretta a farsi profuga, pensiamo al dramma di quei migranti e rifugiati che sono vittime del rifiuto e dello sfruttamento, che sono vittime della tratta delle persone e del lavoro schiavo. Ma pensiamo anche agli altri “esiliati”: io li chiamerei “esiliati nascosti”, quegli esiliati che possono esserci all’interno delle famiglie stesse: gli anziani, per esempio, che a volte vengono trattati come presenze ingombranti. Molte volte penso che un segno per sapere come va una famiglia è vedere come si trattano in essa i bambini e gli anziani.
Gesù ha voluto appartenere ad una famiglia che ha sperimentato queste difficoltà, perché nessuno si senta escluso dalla vicinanza amorosa di Dio. La fuga in Egitto a causa delle minacce di Erode ci mostra che Dio è là dove l’uomo è in pericolo, là dove l’uomo soffre, là dove scappa, dove sperimenta il rifiuto e l’abbandono; ma Dio è anche là dove l’uomo sogna, spera di tornare in patria nella libertà, progetta e sceglie per la vita e la dignità sua e dei suoi familiari.
Quest’oggi il nostro sguardo sulla santa Famiglia si lascia attirare anche dalla semplicità della vita che essa conduce a Nazareth. E’ un esempio che fa tanto bene alle nostre famiglie, le aiuta a diventare sempre più comunità di amore e di riconciliazione, in cui si sperimenta la tenerezza, l’aiuto vicendevole, il perdono reciproco. Ricordiamo le tre parole-chiave per vivere in pace e gioia in famiglia: permesso, grazie, scusa. Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie”, e quando in una famiglia uno si accorge che ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in quella famiglia c’è pace e c’è gioia. Ricordiamo queste tre parole. Ma possiamo ripeterle tutti insieme: permesso, grazie, scusa.
(Tutti: permesso, grazie, scusa!
Vorrei anche incoraggiare le famiglie a prendere coscienza dell’importanza che hanno nella Chiesa e nella società. L’annuncio del Vangelo, infatti, passa anzitutto attraverso le famiglie, per poi raggiungere i diversi ambiti della vita quotidiana.
Invochiamo con fervore Maria Santissima, la Madre di Gesù e Madre nostra, e san Giuseppe, suo sposo. Chiediamo a loro di illuminare, di confortare, di guidare ogni famiglia del mondo, perché possa compiere con dignità e serenità la missione che Dio le ha affidato.

Dopo l'Angelus:
Cari fratelli e sorelle,
il prossimo Concistoro e il prossimo Sinodo dei Vescovi affronteranno il tema della famiglia, e la fase preparatoria è già iniziata da tempo. Per questo oggi, festa della Santa Famiglia, desidero affidare a Gesù, Maria e Giuseppe questo lavoro sinodale, pregando per le famiglie di tutto il mondo. Vi invito ad unirvi spiritualmente a me nella preghiera che ora recito:
Preghiera alla Santa Famiglia
Gesù, Maria e Giuseppe, in voi contempliamo lo splendore dell’amore vero, a voi con fiducia ci rivolgiamo.
Santa Famiglia di Nazareth, rendi anche le nostre famiglie luoghi di comunione e cenacoli di preghiera, autentiche scuole del Vangelo e piccole Chiese domestiche.
Santa Famiglia di Nazareth, mai più nelle famiglie si faccia esperienza di violenza, chiusura e divisione: chiunque è stato ferito o scandalizzato conosca presto consolazione e guarigione.
Santa Famiglia di Nazareth, il prossimo Sinodo dei Vescovi possa ridestare in tutti la consapevolezza  del carattere sacro e inviolabile della famiglia, la sua bellezza nel progetto di Dio. 
Gesù, Maria e Giuseppe, ascoltate, esaudite la nostra supplica. Amen.
Rivolgo un saluto speciale ai fedeli che sono collegati con noi da Nazareth, Basilica dell’Annunciazione, dove si è recato il Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi; da Barcellona, Basilica della Sagrada Familia, dove è andato il Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia; da Loreto, Basilica Santuario della Santa Casa. E lo estendo a quelli radunati in varie parti del mondo per altre celebrazioni che vedono protagoniste le famiglie, come quella di Madrid.
Infine, saluto con affetto tutti i pellegrini qui presenti, specialmente le famiglie! So che ci sono quelle della comunità dei Rumeni di Roma. Saluto i giovani del Movimento dei Focolari, provenienti da vari Paesi, e tutti gli altri giovani, tra cui i gruppi dalle diocesi di Milano, Como, Lodi, Padova, Vicenza e Concordia-Pordenone. Saluto i ragazzi di Curno e Calcinate con i catechisti; i fedeli di Salcedo, Carzago Riviera, San Giovanni in Persiceto e Modica.

A tutti voi auguro una bella festa della Santa Famiglia, una bella e buona domenica, e buon pranzo. Arrivederci!
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giovedì 26 dicembre 2013

Santo Stefano Protomartire (Angelus 170)

Cari fratelli e sorelle buongiorno.
Voi non avete paura della pioggia, siete bravi!
La liturgia prolunga la Solennità del Natale per otto giorni: un tempo di gioia per tutto il popolo di Dio! E in questo secondo giorno dell’ottava, nella gioia del Natale si inserisce la festa di santo Stefano, il primo martire della Chiesa. Il libro degli Atti degli Apostoli ce lo presenta come «uomo pieno di fede e di Spirito Santo» (6,5), scelto con altri sei per il servizio delle vedove e dei poveri nella prima comunità di Gerusalemme. E ci racconta il suo martirio: quando, dopo un discorso di fuoco che suscitò l’ira dei membri del Sinedrio, fu trascinato fuori dalle mura della città e lapidato. Stefano morì come Gesù, chiedendo il perdono per i suoi uccisori (7,55-60).
Nel clima gioioso del Natale, questa commemorazione potrebbe sembrare fuori luogo. Il Natale infatti è la festa della vita e ci infonde sentimenti di serenità e di pace; perché turbarne l’incanto col ricordo di una violenza così atroce? In realtà, nell'ottica della fede, la festa di santo Stefano è in piena sintonia col significato profondo del Natale. Nel martirio, infatti, la violenza è vinta dall'amore, la morte dalla vita. La Chiesa vede nel sacrificio dei martiri la loro “nascita al cielo”. Celebriamo dunque oggi il “natale” di Stefano, che in profondità scaturisce dal Natale di Cristo. Gesù trasforma la morte di quanti lo amano in aurora di vita nuova!
Nel martirio di Stefano si riproduce lo stesso confronto tra il bene e il male, tra l’odio e il perdono, tra la mitezza e la violenza, che ha avuto il suo culmine nella Croce di Cristo. La memoria del primo martire viene così, immediatamente, a dissolvere una falsa immagine del Natale: l’immagine fiabesca e sdolcinata, che nel Vangelo non esiste! La liturgia ci riporta al senso autentico dell’Incarnazione, collegando Betlemme al Calvario e ricordandoci che la salvezza divina implica la lotta al peccato, passa attraverso la porta stretta della Croce. Questa è la strada che Gesù ha indicato chiaramente ai suoi discepoli, come attesta il Vangelo di oggi: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (Mt 10,22).
Perciò oggi preghiamo in modo particolare per i cristiani che subiscono discriminazioni a causa della testimonianza resa a Cristo e al Vangelo. Siamo vicini a questi fratelli e sorelle che, come santo Stefano, vengono accusati ingiustamente e fatti oggetto di violenze di vario tipo. Sono sicuro che, purtroppo, sono più numerosi oggi che nei primi tempi della Chiesa. Ce ne sono tanti!  Questo accade specialmente là dove la libertà religiosa non è ancora garantita o non è pienamente realizzata. Accade però anche in Paesi e ambienti che sulla carta tutelano la libertà e i diritti umani, ma dove di fatto i credenti, e specialmente i cristiani, incontrano limitazioni e discriminazioni. Io vorrei chiedervi di pregare per questi fratelli e sorelle un attimo in silenzio […] E li affidiamo alla Madonna
(Ave Maria …).
Per il cristiano questo non fa meraviglia, perché Gesù lo ha preannunciato come occasione propizia per rendere testimonianza. Tuttavia, sul piano civile, l’ingiustizia va denunciata ed eliminata.
Maria Regina dei Martiri ci aiuti a vivere il Natale con quell’ardore di fede e di amore che rifulge in santo Stefano e in tutti i martiri della Chiesa.

Dopo l'Angelus:
Saluto le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni e i singoli fedeli provenienti da Roma, dall’Italia e da ogni parte del mondo. La sosta di questi giorni presso il presepio per ammirare Maria e Giuseppe accanto al Bambino, possa suscitare in tutti un generoso impegno di amore vicendevole, affinché all'interno delle famiglie e delle varie comunità si viva quel clima di intesa e di fraternità che tanto giova al bene comune.  

Buone feste natalizie e buon pranzo! Arrivederci!
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mercoledì 25 dicembre 2013

Omelia Santa Messa della Notte di Natale 2013

1. «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1).
Questa profezia di Isaia non finisce mai di commuoverci, specialmente quando la ascoltiamo nella Liturgia della Notte di Natale. E non è solo un fatto emotivo, sentimentale; ci commuove perché dice la realtà profonda di ciò che siamo: siamo popolo in cammino, e intorno a noi – e anche dentro di noi – ci sono tenebre e luce. E in questa notte, mentre lo spirito delle tenebre avvolge il mondo, si rinnova l’avvenimento che sempre ci stupisce e ci sorprende: il popolo in cammino vede una grande luce. Una luce che ci fa riflettere su questo mistero: mistero del camminare e del vedere.
Camminare. Questo verbo ci fa pensare al corso della storia, a quel lungo cammino che è la storia della salvezza, a cominciare da Abramo, nostro padre nella fede, che il Signore chiamò un giorno a partire, ad uscire dal suo paese per andare verso la terra che Lui gli avrebbe indicato. Da allora, la nostra identità di credenti è quella di gente pellegrina verso la terra promessa. Questa storia è sempre accompagnata dal Signore! Egli è sempre fedele al suo patto e alle sue promesse. Perché fedele, «Dio è luce, e in lui non c’è tenebra alcuna» (1 Gv 1,5). Da parte del popolo, invece, si alternano momenti di luce e di tenebra, fedeltà e infedeltà, obbedienza e ribellione; momenti di popolo pellegrino e momenti di popolo errante.
Anche nella nostra storia personale si alternano momenti luminosi e oscuri, luci e ombre. Se amiamo Dio e i fratelli, camminiamo nella luce, ma se il nostro cuore si chiude, se prevalgono in noi l’orgoglio, la menzogna, la ricerca del proprio interesse, allora scendono le tenebre dentro di noi e intorno a noi. «Chi odia suo fratello – scrive l’apostolo Giovanni – è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1 Gv 2,11). Popolo in cammino, ma popolo pellegrino che non vuole essere popolo errante.
2. In questa notte, come un fascio di luce chiarissima, risuona l’annuncio dell’Apostolo: «È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11).
La grazia che è apparsa nel mondo è Gesù, nato dalla Vergine Maria, vero uomo e vero Dio. Egli è venuto nella nostra storia, ha condiviso il nostro cammino. È venuto per liberarci dalle tenebre e donarci la luce. In Lui è apparsa la grazia, la misericordia, la tenerezza del Padre: Gesù è l’Amore fattosi carne. Non è soltanto un maestro di sapienza, non è un ideale a cui tendiamo e dal quale sappiamo di essere inesorabilmente lontani, è il senso della vita e della storia che ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
3. I pastori sono stati i primi a vedere questa “tenda”, a ricevere l’annuncio della nascita di Gesù. Sono stati i primi perché erano tra gli ultimi, gli emarginati. E sono stati i primi perché vegliavano nella notte, facendo la guardia al loro gregge. E’ legge del pellegrino vegliare, e loro vegliavano. Con loro ci fermiamo davanti al Bambino, ci fermiamo in silenzio. Con loro ringraziamo il Signore di averci donato Gesù, e con loro lasciamo salire dal profondo del cuore la lode della sua fedeltà: Ti benediciamo, Signore Dio Altissimo, che ti sei abbassato per noi. Tu sei immenso, e ti sei fatto piccolo; sei ricco, e ti sei fatto povero; sei l’onnipotente, e ti sei fatto debole.
In questa Notte condividiamo la gioia del Vangelo: Dio ci ama, ci ama tanto che ha donato il suo Figlio come nostro fratello, come luce nelle nostre tenebre. Il Signore ci ripete: «Non temete» (Lc 2,10). Come hanno detto gli angeli ai pastori: «Non temete». E anch’io ripeto a tutti voi: Non temete! Il nostro Padre è paziente, ci ama, ci dona Gesù per guidarci nel cammino verso la terra promessa. Egli è la luce che rischiara le tenebre. Egli è la misericordia: il nostro Padre ci perdona sempre. Egli è la nostra pace. Amen.
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Messaggio "Urbi et Orbi" - Natale 2013

«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14).
Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero, buongiorno e buon Natale!
Faccio mio il canto degli angeli, che apparvero ai pastori di Betlemme nella notte in cui nacque Gesù. Un canto che unisce cielo e terra, rivolgendo al cielo la lode e la gloria, e alla terra degli uomini l’augurio di pace.
Invito tutti ad unirsi a questo canto: questo canto è per ogni uomo e donna che veglia nella notte, che spera in un mondo migliore, che si prende cura degli altri cercando di fare umilmente il proprio dovere.
Gloria a Dio!
A questo prima di tutto ci chiama il Natale: a dare gloria a Dio, perché è buono, è fedele, è misericordioso. In questo giorno auguro a tutti di riconoscere il vero volto di Dio, il Padre che ci ha donato Gesù. Auguro a tutti di sentire che Dio è vicino, di stare alla sua presenza, di amarlo, di adorarlo.
E ognuno di noi possa dare gloria a Dio soprattutto con la vita, con una vita spesa per amore suo e dei fratelli.
Pace agli uomini.
La vera pace – noi lo sappiamo – non è un equilibrio tra forze contrarie. Non è una bella “facciata”, dietro alla quale ci sono contrasti e divisioni. La pace è un impegno di tutti i giorni, ma, la pace è artigianale, che si porta avanti a partire dal dono di Dio, dalla sua grazia che ci ha dato in Gesù Cristo.
Guardando il Bambino nel presepe, bambino di pace, pensiamo ai bambini che sono le vittime più fragili delle guerre, ma pensiamo anche agli anziani, alle donne maltrattate, ai malati… Le guerre spezzano e feriscono tante vite!
Troppe ne ha spezzate negli ultimi tempi il conflitto in Siria, fomentando odio e vendetta. Continuiamo a pregare il Signore perché risparmi all’amato popolo siriano nuove sofferenze e le parti in conflitto mettano fine ad ogni violenza e garantiscano l’accesso agli aiuti umanitari. Abbiamo visto quanto è potente la preghiera! E sono contento che oggi si uniscano a questa nostra implorazione per la pace in Siria anche credenti di diverse confessioni religiose. Non perdiamo mai il coraggio della preghiera! Il coraggio di dire: Signore, dona la tua pace alla Siria e al mondo intero. E invito anche i non credenti a desiderare la pace, con il loro desiderio, quel desiderio che allarga il cuore: tutti uniti, o con la preghiera o con il desiderio. Ma tutti, per la pace.
Dona pace, bambino, alla Repubblica Centroafricana, spesso dimenticata dagli uomini. Ma tu, Signore, non dimentichi nessuno! E vuoi portare pace anche in quella terra, dilaniata da una spirale di violenza e di miseria, dove tante persone sono senza casa, acqua e cibo, senza il minimo per vivere. Favorisci la concordia nel Sud-Sudan, dove le tensioni attuali hanno già provocato troppe vittime e minacciano la pacifica convivenza di quel giovane Stato.
Tu, Principe della pace, converti ovunque il cuore dei violenti perché depongano le armi e si intraprenda la via del dialogo. Guarda alla Nigeria, lacerata da continui attacchi che non risparmiano gli innocenti e gli indifesi. Benedici la Terra che hai scelto per venire nel mondo e fa’ giungere a felice esito i negoziati di pace tra Israeliani e Palestinesi. Sana le piaghe dell’amato Iraq, colpito ancora da frequenti attentati.
Tu, Signore della vita, proteggi quanti sono perseguitati a causa del tuo nome. Dona speranza e conforto ai profughi e ai rifugiati, specialmente nel Corno d’Africa e nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Fa’ che i migranti in cerca di una vita dignitosa trovino accoglienza e aiuto. Tragedie come quelle a cui abbiamo assistito quest’anno, con i numerosi morti a Lampedusa, non accadano mai più!
O Bambino di Betlemme, tocca il cuore di quanti sono coinvolti nella tratta di esseri umani, affinché si rendano conto della gravità di tale delitto contro l’umanità. Volgi il tuo sguardo ai tanti bambini che vengono rapiti, feriti e uccisi nei conflitti armati, e a quanti vengono trasformati in soldati, derubati della loro infanzia.
Signore del cielo e della terra, guarda a questo nostro pianeta, che spesso la cupidigia e l’avidità degli uomini sfrutta in modo indiscriminato. Assisti e proteggi quanti sono vittime di calamità naturali, soprattutto il caro popolo filippino, gravemente colpito dal recente tifone.
Cari fratelli e sorelle, in questo mondo, in questa umanità oggi è nato il Salvatore, che è Cristo Signore. Fermiamoci davanti al Bambino di Betlemme. Lasciamo che il nostro cuore si commuova: non abbiamo paura di questo. Non abbiamo paura che il nostro cuore si commuova! Abbiamo bisogno che il nostro cuore si commuova. Lasciamolo riscaldare dalla tenerezza di Dio; abbiamo bisogno delle sue carezze. Le carezze di Dio non fanno ferite: le carezze di Dio ci danno pace e forza. Abbiamo bisogno delle sue carezze. Dio è grande nell’amore, a Lui la lode e la gloria nei secoli! Dio è pace: chiediamogli che ci aiuti a costruirla ogni giorno, nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nelle nostre città e nazioni, nel mondo intero. Lasciamoci commuovere dalla bontà di Dio.

Augurio Natalizio dopo il Messaggio Urbi et Orbi
A voi, cari fratelli e sorelle, giunti da ogni parte del mondo in questa Piazza, e a quanti da diversi Paesi siete collegati attraverso i mezzi di comunicazione, rivolgo il mio augurio: buon Natale!
In questo giorno illuminato dalla speranza evangelica che proviene dall’umile grotta di Betlemme, invoco il dono natalizio della gioia e della pace per tutti: per i bambini e gli anziani, per i giovani e le famiglie, per i poveri e gli emarginati. Gesù, nato per noi, conforti quanti sono provati dalla malattia e dalla sofferenza; sostenga coloro che si dedicano al servizio dei fratelli più bisognosi. 
Buon Natale a tutti!
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lunedì 23 dicembre 2013

Volantone Natale 2013 di CL


La lezione di papa Francesco sul senso del Natale (Contributi 924)

La lettera del Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione sul senso del Natale pubblicata da "la Repubblica" il 23 dicembre 2013 

Caro direttore, 
di fronte alla quotidiana urgenza del vivere che ci accomuna tutti e che sembra azzerare ogni speranza, il Natale ha ancora qualcosa da dire? È solo un ricordo che evoca buoni sentimenti o la notizia di un fatto capace di incidere nella vita reale? 
«La ragione della nostra speranza è questa: Dio è con noi. Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all’umanità non si è attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questo mondo reale. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com’è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi, per risollevarci dalla polvere delle nostre miserie, delle nostre difficoltà» (Francesco, Udienza generale, 18 dicembre 2013). Per prepararmi al grande avvenimento del Natale, in questi giorni mi ripeto spesso queste parole del Santo Padre. 
Al Mistero piace sfidarci costantemente «in questo mondo reale», senza tentennare nelle cose che fa! Per questo Dio sceglie quelle circostanze che possono mettere di più davanti ai nostri occhi chi è Lui e quale straordinaria novità può generare nel mondo. E questo dovrebbe rallegrare ciascuno di noi, perché significa che allora non c’è situazione, momento della vita o storia che possa impedire a Dio di generare qualcosa di nuovo. E come ci sfida? In attesa del Natale la Chiesa rilegge le grandi vicende del popolo di Israele e ci mostra come Dio interviene nella storia. Per esempio, mettendo davanti ai nostri occhi due persone sterili, incapaci di partorire: una donna di Sorèa e Elisabetta (che diverranno le madri di Sansone, difensore del popolo ebreo, e di Giovanni il Battista, precursore di Cristo; cfr. Giudici 13,2-7.24-25a e Luca 1,5-25), due donne che non possono “aggiustare” in alcun modo le cose, nessuna loro genialità può renderle madri. È impossibile, è qualcosa di impossibile agli uomini. In questo modo il Signore vuole farci capire che a Lui tutto è possibile, e che quindi è possibile non disperare, che nessuno può dirsi abbandonato, dimenticato o condannato alla propria situazione, trovando in essa una giustificazione per non sperare più. Non c’è niente di impossibile a Uno che fa cose come queste: rendere madri due donne sterili. La loro imprevedibile maternità rappresenta la più grande sfida per la ragione e per la libertà di ciascuno. Non c’è situazione, non c’è rapporto e convivenza umana che non possano cambiare. E se qualcuno si è rassegnato pensando alla sua storia, oggi di nuovo il Signore sfida la sua mancanza di speranza. 
«La tua preghiera è stata esaudita», dice l’angelo a Zaccaria, «tua moglie Elisabetta ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni». Il vangelo definisce questo «un lieto annuncio», perché noi non siamo condannati allo scetticismo e non siamo annientati dal fallimento di tutti i nostri tentativi. E non c’è solo la promessa, ma anche il suo compiersi, perché poi il figlio lo avrà davvero! Questi fatti annunciano a coloro che conservano anche solo un filo di tenerezza verso se stessi che è possibile cambiare, perché a Dio tutto è possibile; a Lui basta trovare in noi la disponibilità del cuore. 
Se noi lasciamo entrare questa potenza di Dio, la nostra vita, come quella di Zaccaria, si riempirà di gioia: «Avrai gioia e esultanza». Che non è solo per noi; è data a noi anche per gli altri: «Molti si rallegreranno della sua nascita». E questa gioia dimostra chi è Dio, chi è all’opera in mezzo a noi. Giovanni «sarà colmato di Spirito Santo» e comincerà a cambiare quello che tocca. 
In questo modo la liturgia della Chiesa ci introduce a guardare un’altra donna, questa volta vergine, di nome Maria, alla quale è accaduto qualcosa di non meno misterioso che alle due donne sterili: l’avvenimento dell’Incarnazione per opera dello Spirito Santo, a cui Maria semplicemente ha acconsentito, dicendo di sì. Col Natale il Signore ci porta questo lieto annuncio. Accoglierlo dipende da ciascuno di noi, dalla nostra disponibilità semplice a lasciarci sorprendere da Lui, che con la Sua iniziativa ci raggiunge costantemente qui e ora, «in questo mondo reale». 
Se lo domandiamo e ci rendiamo disponibili a quello che il Signore sta per fare in mezzo a noi col Natale, tanti intorno a noi si rallegreranno della “nostra” rinascita. Solo questa novità potrà convincere ogni uomo della credibilità dell’annuncio cristiano che lo ha raggiunto. Basta pensare a quanti uomini di ogni cultura si rallegrano oggi, fino a sentirsi sfidati come mai, dell’esistenza di uno come papa Francesco, nel quale il Mistero ha trovato questa disponibilità del cuore.
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domenica 22 dicembre 2013

Domenica IV Avvento"A" 22-dic-2013 (Angelus 169)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In questa quarta domenica di Avvento, il Vangelo ci racconta i fatti che precedettero la nascita di Gesù, e l’evangelista Matteo li presenta dal punto di vista di san Giuseppe, il promesso sposo della Vergine Maria.
Giuseppe e Maria vivevano a Nazareth; non abitavano ancora insieme, perché il matrimonio non era ancora compiuto. In quel frattempo, Maria, dopo aver accolto l’annuncio dell’Angelo, divenne incinta per opera dello Spirito Santo. Quando Giuseppe si accorge di questo fatto, ne rimane sconcertato. Il Vangelo non spiega quali fossero i suoi pensieri, ma ci dice l’essenziale: egli cerca di fare la volontà di Dio ed è pronto alla rinuncia più radicale. Invece di difendersi e di far valere i propri diritti, Giuseppe sceglie una soluzione che per lui rappresenta un enorme sacrificio. E il Vangelo dice: «Poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (1,19).
Questa breve frase riassume un vero e proprio dramma interiore, se pensiamo all’amore che Giuseppe aveva per Maria! Ma anche in una tale circostanza, Giuseppe intende fare la volontà di Dio e decide, sicuramente con gran dolore, di congedare Maria in segreto. Bisogna meditare su queste parole, per capire quale sia stata la prova che Giuseppe ha dovuto sostenere nei giorni che hanno preceduto la nascita di Gesù. Una prova simile a quella del sacrificio di Abramo, quando Dio gli chiese il figlio Isacco (cfr  Gen 22): rinunciare alla cosa più preziosa, alla persona più amata.
Ma, come nel caso di Abramo, il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa, una via di amore e di felicità: «Giuseppe – gli dice – non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20).
Questo Vangelo ci mostra tutta la grandezza d’animo di san Giuseppe. Egli stava seguendo un buon progetto di vita, ma Dio riservava per lui un altro disegno, una missione più grande. Giuseppe era un uomo che dava sempre ascolto alla voce di Dio, profondamente sensibile al suo segreto volere, un uomo attento ai messaggi che gli giungevano dal profondo del cuore e dall’alto. Non si è ostinato a perseguire quel suo progetto di vita, non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo, ma è stato pronto a mettersi a disposizione della novità che, in modo sconcertante, gli veniva presentata. E’ così, era un uomo buono. Non odiava, e non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo. Ma quante volte a noi l’odio, l’antipatia pure, il rancore ci avvelenano l’anima! E questo fa male. Non permetterlo mai: lui è un esempio di questo. E così, Giuseppe è diventato ancora più libero e grande. Accettandosi secondo il disegno del Signore, Giuseppe trova pienamente se stesso, al di là di sé. Questa sua libertà di rinunciare a ciò che è suo, al possesso sulla propria esistenza, e questa sua piena disponibilità interiore alla volontà di Dio, ci interpellano e ci mostrano la via.
Ci disponiamo allora a celebrare il Natale contemplando Maria e Giuseppe: Maria, la donna piena di grazia che ha avuto il coraggio di affidarsi totalmente alla Parola di Dio; Giuseppe, l’uomo fedele e giusto che ha preferito credere al Signore invece di ascoltare le voci del dubbio e dell’orgoglio umano. Con loro, camminiamo insieme verso Betlemme.

Dopo l'Angelus:
Leggo lì, scritto grande: “I poveri non possono aspettare”. E’ bello! E questo mi fa pensare che Gesù è nato in una stalla, non è nato in una casa. Dopo è dovuto fuggire, andare in Egitto per salvare la vita. Alla fine, è tornato a casa sua, a Nazareth. E io penso oggi, anche leggendo quella scritta, a tante famiglie senza casa, sia perché mai l’hanno avuta, sia perché l’hanno persa per tanti motivi. Famiglia e casa vanno insieme. E’ molto difficile portare avanti una famiglia senza abitare in una casa. In questi giorni di Natale, invito tutti – persone, entità sociali, autorità – a fare tutto il possibile perché ogni famiglia possa avere una casa.
Saluto con affetto tutti voi, cari pellegrini provenienti da vari Paesi per partecipare a questo incontro di preghiera. Il mio pensiero va alle famiglie, ai gruppi parrocchiali, alle associazioni e ai singoli fedeli. In particolare, saluto la comunità del Pontificio Istituto Missioni Estere, la Banda musicale di San Giovanni Valdarno, i ragazzi della parrocchia San Francesco Nuovo in Rieti, e i partecipanti alla staffetta partita da Alessandria e giunta a Roma per testimoniare l’impegno in favore della pace in Somalia.
A quanti dall’Italia si sono radunati oggi per manifestare il loro impegno sociale, auguro di dare un contributo costruttivo, respingendo le tentazioni dello scontro e della violenza, e seguendo sempre la via del dialogo, difendendo i diritti.

Auguro a tutti una buona domenica e un Natale di speranza, di giustizia e di fraternità. Buon pranzo e arrivederci!
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sabato 21 dicembre 2013

Il mistero non cerca pubblicità

Il mistero del rapporto tra Dio e l’uomo non cerca la pubblicità, perché non lo renderebbe veritiero. Richiede piuttosto lo stile del silenzio. Sta poi a ciascuno di noi scoprire, proprio nel silenzio, le caratteristiche del mistero di Dio nella vita personale. A pochi giorni dal Natale, Papa Francesco ha proposto una forte riflessione sul valore del silenzio. E ha invitato ad amarlo e a cercarlo così come ha fatto Maria, la cui testimonianza ha rievocato nella messa celebrata venerdì 20 dicembre, nella cappella della Casa S. Marta.
Una riflessione fondata sul passo del Vangelo di Luca proposto dalla liturgia odierna (1, 26-38), iniziando da «quella frase» che «ci dice tanto» rivolta dall’angelo alla Madonna: «La potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Lo Spirito Santo scenderà su di te» e che richiama anche il passo del Libro di Isaia (7, 10-14), proclamato come prima lettura nella celebrazione.
«È l’ombra di Dio — ha spiegato il Pontefice — che nella storia della salvezza sempre custodisce il mistero». È «l’ombra di Dio che accompagnò il popolo nel deserto». Tutta la storia della salvezza mostra che «il Signore ha sempre avuto cura del mistero. E ha coperto il mistero. Non ha fatto pubblicità del mistero». Infatti «il mistero che fa pubblicità di sé non è cristiano, non è mistero di Dio. È una finta di mistero». Proprio il passo evangelico odierno lo conferma, ha proseguito il Papa; infatti quando la Madonna riceve dall’angelo l’annuncio del Figlio «il mistero della sua maternità personale» rimane nascosto.
E questa è una verità che riguarda anche tutti noi. «Quest’ombra di Dio in noi, nella nostra vita» ha affermato il Pontefice, ci aiuta a «scoprire il nostro mistero: il nostro mistero dell’incontro col Signore, il nostro mistero del cammino della vita col Signore». Infatti «ognuno di noi — ha spiegato il Papa — sa come misteriosamente opera il Signore nel suo cuore, nella sua anima. E qual è la nube, la potenza, com’è lo stile dello Spirito Santo per coprire il nostro mistero. Questa nube in noi, nella nostra vita, si chiama silenzio. Il silenzio è proprio la nube che copre il mistero del nostro rapporto col Signore, della nostra santità e dei nostri peccati».
È un «mistero» che, ha proseguito, «non possiamo spiegare. Ma quando non c’è silenzio nella nostra vita il mistero si perde, va via». Ecco, allora, l’importanza di «custodire il mistero con il silenzio: quella è la nube, quella è la potenza di Dio per noi, quella è la forza dello Spirito Santo».
Papa Francesco ha quindi riproposto ancora, la testimonianza della Madonna che ha vissuto fino in fondo «questo silenzio» in tutta la sua vita. «Penso — ha detto il Pontefice — quante volte ha taciuto, quante volte non ha detto quello che sentiva per custodire il mistero del rapporto con suo Figlio». E ha ricordato che «Paolo VI nel 1964 a Nazareth ci diceva a tutti che abbiamo la necessità di rinnovare e rinforzare, di irrobustire il silenzio», proprio perché «il silenzio custodisce il mistero». Il Papa ha poi dato voce «al silenzio della Madonna ai piedi della croce», a ciò che passava per la sua mente come — ha ricordato — aveva fatto anche Giovanni Paolo II.
In realtà, ha precisato, il Vangelo non riporta alcuna parola della Madonna: Maria «era silenziosa, ma dentro il suo cuore quante cose diceva al Signore» in quel momento cruciale della storia. Probabilmente Maria avrà ripensato alle parole dell’angelo che «abbiamo letto» nel Vangelo riguardo a suo Figlio: «Quel giorno m’hai detto che sarà grande! Tu mi ha detto che gli darai il trono di Davide suo padre e che regnerà per sempre! Ma adesso lo vedo lì», sulla croce. Maria «con il silenzio ha coperto il mistero che non capiva. E con il silenzio ha lasciato che il mistero potesse crescere e fiorire» portando a tutti una grande «speranza».
«Lo Spirito Santo scenderà su di te, la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra»: le parole dell’angelo a Maria, ha detto ancora il Pontefice, ci assicurano che «il Signore copre il suo mistero». Perché «il mistero del nostro rapporto con Dio, del nostro cammino, della nostra salvezza non può essere messo all’aria, pubblicizzato. Il silenzio lo custodisce». Papa Francesco ha concluso la sua omelia con la preghiera che «il Signore ci dia a tutti la grazia di amare il silenzio, cercarlo, di avere un cuore custodito dalla nube del silenzio. E così il mistero che cresce in noi darà tanti frutti».
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Se l'uomo prova a salvarsi da solo

L’uomo non si salva da solo e chi ha avuto la superbia di provarci, anche tra i cristiani, ha fallito. Perché solo Dio può dare vita e salvezza. È questa la meditazione, nella prospettiva dell’Avvento, che Papa Francesco ha proposto durante la messa celebrata stamani, giovedì 19 dicembre, nella cappella della Casa Santa Marta. 
Prendendo spunto, come di consueto, dalla liturgia del giorno il Pontefice ha voluto ricordare che «la vita, la capacità di dare vita e la salvezza vengono soltanto dal Signore» e non dall'uomo che non ha «l’umiltà» di riconoscerlo e di chiedere aiuto. «Tante volte» nella Scrittura si parla «della donna sterile, della sterilità, dell’incapacità di concepire e dare vita». Ma sono anche tante le volte in cui avviene «il miracolo del Signore, che fa che queste donne sterili possano avere un figlio». 
Papa Francesco ha fatto riferimento anzitutto alla mamma di Sansone, la cui storia è stata riproposta stamani dal passo del libro dei Giudici (13, 2-7.24-25a). E poi ha ricordato anche ciò che «accade alla moglie del nostro padre Abramo: lei non poteva credere» di avere un figlio a causa dell’età avanzata «e sorrideva dietro la finestra da dove spiava di cosa parlava il marito. E sorrideva perché non poteva crederlo. Ma ha avuto un figlio». Il vangelo di oggi (Luca, 5-25), ha proseguito il Papa, ricorda anche quanto «è accaduto a Elisabetta». Tutte storie bibliche di donne che, ha spiegato il Pontefice, mostrano come «dalla impossibilità di dare vita, viene la vita». Ed è accaduto anche a donne non sterili ma che non avevano più alcuna speranza per la loro vita «Pensiamo a Noemi — ha specificato il vescovo di Roma — che, alla fine, ha avuto un nipotino». In sostanza «il Signore interviene nella vita di queste donne per dirci: io sono capace di dare vita!». Papa Francesco ha fatto notare che nelle parole dei «profeti c’è l’immagine del deserto: la terra deserta, incapace di far crescere un albero, un frutto, di far germogliare qualcosa». Eppure proprio «il deserto sarà come una foresta. Dicono i profeti: sarà grande, fiorirà!». Dunque «il deserto può fiorire» e «la donna sterile può avere la vita» soltanto nella prospettiva della «promessa del Signore: io posso! Io posso dalla vostra secchezza far crescere la vita, la salvezza! Io posso dall’aridità far crescere i frutti!». La salvezza «è l’intervento di Dio che ci fa fecondi, che ci dà la capacità di dare vita», che «ci aiuta nel cammino della santità». 
Una cosa è certa: «Noi non possiamo salvarci da noi soli». In tanti ci hanno provato «anche alcuni cristiani», ha ricordato il Papa citando i pelagiani. Ma solo l’intervento di Dio ci porta la salvezza. 
Da qui la domanda del Pontefice: «Ma da parte nostra cosa dobbiamo fare?». Innanzitutto, ha risposto Papa Francesco, «riconoscere la nostra secchezza, la nostra incapacità di dare vita». Poi «chiedere». E ha formulato così la richiesta che si fa preghiera: «Signore, io voglio essere fecondo; io voglio che la mia vita dia vita, la mia fede sia feconda e vada avanti e possa darla agli altri. Signore, io sono sterile; io non posso, tu puoi. Io sono un deserto; io non posso, tu puoi». E «questa, sia — è stato il suo auspicio — la preghiera di questi giorni prima del Natale». 
Fa pensare, ha poi proseguito il Papa, «come i superbi, quelli che credono che possono fare tutto da sé, sono colpiti». E si è riferito in particolare «a quella donna che non era sterile, ma era superba e non capiva cosa fosse lodare Dio: Micol, la figlia di Saul. Rideva della lode. È stata punita con la sterilità». L’umiltà è una dote necessaria per essere fecondi. «Quante persone — ha rimarcato — credono di essere giuste, come lei, e alla fine sono poveracci!». 
Invece è importante «l’umiltà, il dire “Signore sono sterile, sono un deserto”». Come è importante ripetere in questi giorni «quelle belle antifone che la Chiesa ci fa pregare: “O figlio di David, o Adonai, o Sapienza — oggi — o Radice di Iesse, o Emmanuel, vieni a darci vita, vieni a salvarci perché Tu solo puoi, io da solo non posso”». 
Così, ha concluso il Pontefice, «con questa umiltà, umiltà del deserto, umiltà di anima sterile» dobbiamo «ricevere la grazia: la grazia di fiorire, di dare frutto e di dare vita».
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venerdì 20 dicembre 2013

Recuperare la verità del matrimonio (Contributi 923)

Vi propongo questo articolo di Giorgio Carboneda La Bussola:


«È un contratto»: è questa la risposta più frequente quando domando a gruppi di persone di età eterogenea, già sposate o solo fidanzate, cos’è il matrimonio. Poi, chiedo anche qual è il fine, la meta ultima del matrimonio. E le risposte più frequenti sono: «L’amore, la famiglia, i figli». Raramente qualcuno risponde: «La santità dei coniugi», che è la risposta giusta. Non sono in grado di dire la rilevanza statistica di queste risposte all’interno di un gruppo vasto di popolazione. Però per la nostra analisi per ora è sufficiente sapere che è diffusissimo il convincimento che il matrimonio sia un contratto che ha come meta l’amore e/o i figli. E ne sono convinti un po’ tutti, credenti e non credenti, giovani sposi e anziani, fidanzati o singol.
Questa convinzione dimostra almeno un fatto: a livello comune si sono smarrite due verità circa il matrimonio.
La prima verità dimenticata è che il matrimonio, più che un contratto, è un sacramento. Il contratto dal punto di vista formale è un accordo tra due o più parti che ha per oggetto beni di carattere patrimoniale. Ma il matrimonio è un’altra cosa, è sacramento, cioè una res sacra, un’alleanza tra una donna e un uomo, che trova in Dio la sua origine, la sua consistenza e il suo termine. Perché è Dio Amore che chiama gli sposi all’amore reciproco: il matrimonio non è un incontro fortuito, ma è una chiamata divina, una vocazione il cui attore è Dio. Gesù lo chiama: Ciò che Dio ha congiunto (Marco 10,9). 

In secondo luogo, Dio facendo sperimentare la sua misericordia, la sua tenerezza, la sua pazienza al coniuge, chiama questo coniuge a comunicare all’altro la stessa misericordia, tenerezza e pazienza ricevute: questo significa essere ministri di Cristo nel sacramento del matrimonio. I coniugi vivendo insieme e amandosi si scambiano le cose ricevute da Cristo: realizzano così una comunione divina e non soltanto umana, comunione umano-divina che è simile a quella tra Cristo e la Chiesa, comunità dei credenti come dice Efesini 5,25-32: "Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei [...]". Questo è un grande mistero: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa. 

In terzo luogo, Dio è il termine, cioè il fine del matrimonio, perché il giorno delle nozze il coniuge accoglie la persona dell’altro coniuge in vista di Cristo, cioè per condurlo a Cristo, per camminare insieme verso il Signore: è una vocazione comune alla santità.
Ed è questa anche la seconda verità dimenticata del matrimonio: la santità, cioè il desiderio di conversione a Cristo e di conformarsi a lui in tutto nella mentalità e nei gesti concreti.
Che il matrimonio sia ridotto a un contratto o a una mera convenzione sociale e che si sia smarrita la sua destinazione alla santità sono il risultato di uno sguardo, non orizzontale, ma degradante dell’esistenza umana. Abbiamo espulso Dio dalle nostre considerazioni, non ci sforziamo più a conformare la nostra mentalità a quella di Cristo, che egli stesso ha manifestato nei Vangeli, e la conseguenza è la perdita del senso dell’esistenza, del significato della relazione matrimoniale, che fonda l’esistenza umana. Eppure vivere la fede teologale significa propriamente pensare secondo i pensieri di Dio, cioè sintonizzare la nostra intelligenza, la nostra mentalità, i nostri convincimenti sul pensiero di Gesù Cristo.
Inoltre, la diffusione acritica dell’opinione secondo la quale il matrimonio sia un contratto e il non considerare che la sua meta è la santità dovrebbero farci prendere atto che spesso i matrimoni che vediamo celebrati in chiesa in realtà non sono sacramenti, cioè sono matrimoni nulli. Gli sposi, pur dicendo sì con le labbra, in realtà non credono al matrimonio come lo crede Cristo e la sua Chiesa. Gli sposi hanno una concezione mondana del matrimonio, è un contratto, e come tutti i contratti è nella totale disponibilità delle parti, le parti possono rescindere il contratto quando vogliono. Quando invece, essendo un sacramento, è una realtà che è di Cristo, ha un’origine, una consistenza e un fine divini.

Pur dicendo sì con le labbra, ritengono che il matrimonio duri finché c’è il sentimento dell’amore. Quando invece il matrimonio si fonda sull’amore ricevuto da Dio, e quindi è per sempre come è per sempre l’amore che Dio ha per noi. Pur dicendo sì con le labbra, gli sposi non si accolgono totalmente come persone perché escludono positivamente la possibilità di avere figli ricorrendo in modo abituale alla contraccezione. Infatti, il coniuge che usa metodi contraccettivi, proprio con il gesto sessuale che dovrebbe significare la donazione totale di sé all’altro, in realtà non dona totalmente se stesso perché riserva a sé la capacità di diventare padre o madre: quindi dice una grande bugia all’amore totale.
Le discussioni recenti circa l’atteggiamento pastorale verso le persone che vivono il fallimento di un matrimonio e che caso mai sono passate a una convivenza o a un matrimonio civile non possono prescindere da queste due verità su ricordate perché sono verità evangeliche. La Chiesa, come comunità di credenti, ha la vocazione di essere sposa di Cristo, evidentemente fedele e non fedifraga.

Quindi, è chiamata ad annunciare sempre la verità del matrimonio sacramento indissolubile perché questo è l’insegnamento di Cristo suo sposo: basti leggere Marco 10,5-9; Matteo 19,4-9; Luca 16,18. Tutti noi credenti se vogliamo vivere la virtù teologale della fede avvertiamo l’esigenza di obbedire e di uniformare la nostra mentalità all’insegnamento di Cristo Signore. Allo stesso tempo non possiamo amare rinunciando alla verità e né possiamo conoscere la verità senza amare: la conoscenza del vero e l’amore del bene sono moti strutturali e identificativi dell’essere umano.

In ragione del vero e dell’amore non possiamo generare illusioni in nessuno, e quindi neanche far pensare che la prassi della Chiesa circa l’indissolubilità del matrimonio sia prossima al cambiamento, oppure che dopo il Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2014 le persone divorziate e passate a nozze civili saranno assolte e ammesse alla comunione eucaristica. Se le persone divorziate e risposate civilmente fossero ammesse alla comunione eucaristica, la comunità dei credenti rinuncerebbe a essere fedele a Cristo che insegna l’indissolubilità del sacramento del matrimonio.

A mo’ di conclusione riassumo dei possibili rimedi pratici.
1) Preparare i fidanzati al matrimonio in modo più serio e completo, facendo conoscere che il matrimonio è una cosa di Cristo, e non una cosa degli sposi, è una vocazione divina alla santità;
2) Considerare che tutti i sacramenti sono un dono che la Chiesa riceve da Cristo, e non sono un diritto da rivendicare, così anche la comunione eucaristica;
3) Rendere più snelli e veloci i processi canonici relativi all’accertamento della nullità del sacramento del matrimonio;
4) Demolire l’opinione diffusa secondo la quale i divorziati risposati sarebbero scomunicati. E piuttosto accogliere questi credenti e far conoscere loro che, anche se vivono in una condizione oggettivamente disordinata che è il convivere con una persona che non è il proprio coniuge, possono e anzi devono vivere la fede, la speranza, la carità, partecipare alla Messa, pregare insieme e singolarmente, vivere la penitenza e il desiderio di conversione e che il dolore e l’amarezza di non poter ricevere l’eucaristia hanno un valore salvifico che può condurle alla sincera conversione del cuore a Cristo Signore.
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Lettera Aldo Trento 13-12-2013

Cari amici, 
Mentre l’Uruguay ha legalizzato la coltivazione e lo spaccio della marijuana, il Collegio dei Salesiani di Asunción, “Salesianito” esige l’aesame tossicologico per iscrivere le matricole delle superiori. Si é scatenata una polemica dell’altro mondo. Tutti a gridare contro l’Uruguary e ad applaudire le misure dei Salesiani di Asunción. Misure nate dal fatto che in questi ultimi anni, in questo mio caro paese, la maggioranza dei ragazzi “vivono” di marijuana. É il paese dove questa droga é della qualitá migliore ed é coltivata come il frumento, il grano etc… ovviamente tutto é proibito per legge. Mi hanno chiesto un giudizio sulla decisione dei salesiani. 
Ho risposto “Amici, perché nella nostra scuola quando c’era P.Paolino non c’era un ragazzo che fumava né sigarette né marijuana? Mentre giá dopo poche settimane che non l’hanno piú visto, non solo sono spariti dalla parrocchia ma hanno dato uno scossone alla scuola fumando marijuana?”. 
La risposta é drammatica e non sono gli esami tossicologici a frenarne il consumo, ma solo l’incontro con qualcosa che viene prima, come ci ha insegnato Giussani. Il direttore della scuola Padre Angelo Cadore ha detto che si tratta di un esame preventivo. Preventivo di che, mi chiedo io? S.Giovanni Bosco quando parlava del metodo preventivo, parlava dell’offerta di sé come proposta affascinante di vita, che non solo impediva ai ragazzi di cadere nel vizio, ma suscitava in loro un desiderio di pienezza divina impressionante. O copiamo questo o come giá accade con i preti sospettati di pedofilia, affidati a esperti che dopo averli chiusi per ore in una stanza perché rispondano a 380 domande gli chiedono 2000 euro, finiamo per affidarci a un esame chimico. Siamo davvero in un mondo di matti. 
Per caritá usiamo tuttissimi i mezzi, ma per favore siamo seri con il punto di partenza. In un mondo in cui non c’é piú una presenza originale che cosa pretendiamo? É ora di finirla di prenderci per i fondelli. 
P.Aldo
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martedì 17 dicembre 2013

Senza paura della libertà

Ci sono cristiani che hanno «una certa allergia per i predicatori della parola»: accettano «la verità della rivelazione» ma non «il predicatore», preferendo «una vita ingabbiata». È accaduto ai tempi di Gesù e purtroppo continua ad accadere ancora oggi in coloro che vivono chiusi in se stessi, perché hanno paura della libertà che viene dallo Spirito Santo.
È questo per Papa Francesco l’insegnamento che viene dalle letture della liturgia celebrata venerdì 13 dicembre, nella cappella di Santa Marta. Il Pontefice si è soffermato soprattutto sul brano del vangelo di Matteo (11, 16-19) in cui Gesù paragona la generazione dei suoi contemporanei «a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto».
In proposito il vescovo di Roma ha ricordato che Cristo nei Vangeli «parla sempre bene dei bambini», offrendoli come «modello della vita cristiana» e invitando a «essere come loro per entrare nel regno dei cieli». Invece — ha fatto notare — nel brano in questione «è l’unica volta che non parla tanto bene di loro». Per il Papa si tratta di un’immagine di fanciulli «un po’ speciali: maleducati, malcontenti, screanzati pure»; bambini che non sanno essere felici mentre giocano e che «rifiutano sempre l’invito degli altri: nessuna cosa va loro bene». In particolare Gesù usa questa immagine per descrivere «i dirigenti del suo popolo», definiti dal Pontefice «gente che non era aperta alla parola di Dio».
Per il Santo Padre c’è un aspetto interessante in questo atteggiamento: il loro rifiuto, appunto, «non è per il messaggio, è per il messaggero». Basta proseguire nella lettura del brano evangelico per averne conferma. «È venuto Giovanni, che non mangia e non beve — ha fatto notare il Papa — e hanno detto: ha un demonio. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori». In pratica, da sempre gli uomini trovano motivi per delegittimare il predicatore. Basti pensare alla gente di quel tempo, che preferiva «rifugiarsi in una religione un po’ elaborata: nei precetti morali, come i farisei; nel compromesso politico, come i sadducei; nella rivoluzione sociale, come gli zeloti; nella spiritualità gnostica, come gli esseni». Tutti, ha aggiunto, «con il loro sistema ben pulito, ben fatto», ma che non accetta «il predicatore». Ecco perché Gesù rinfresca loro la memoria ricordando i profeti, che sono stati perseguitati e uccisi.
Accettare «la verità della rivelazione» e non «il predicatore» rivela per il Pontefice una mentalità frutto di «una vita ingabbiata nei precetti, nei compromessi, nei piani rivoluzionari, nella spiritualità senza carne». Papa Francesco ha fatto riferimento in particolare a quei cristiani «che si permettono di non ballare quando il predicatore ti dà una bella notizia di gioia, e si permettono di non piangere quando il predicatore ti dà una notizia triste». A quei cristiani, cioè, «che sono chiusi, ingabbiati, che non sono liberi». E il motivo è la «paura della libertà dello Spirito Santo, che viene tramite la predicazione».
Del resto, «questo è lo scandalo della predicazione del quale parlava san Paolo; lo scandalo della predicazione che finisce nello scandalo della croce». Infatti «scandalizza che Dio ci parli tramite uomini con limiti, uomini peccatori; e scandalizza di più che Dio ci parli e ci salvi tramite un uomo che dice di essere il figlio di Dio, ma finisce come un criminale». Così per Papa Francesco si finisce per coprire «la libertà che viene dallo Spirito Santo», perché in ultima analisi «questi cristiani tristi non credono nello Spirito Santo; non credono in quella libertà che viene dalla predicazione, che ti ammonisce, ti insegna, ti schiaffeggia pure, ma è proprio la libertà che fa crescere la Chiesa».
Dunque l’immagine del Vangelo, con «i bambini che hanno paura di ballare, di piangere», che hanno «paura di tutto, che chiedono sicurezza in tutto», fa pensare «a questi cristiani tristi, che criticano sempre i predicatori della verità, perché hanno paura di aprire la porta allo Spirito Santo». Da qui l’esortazione del Pontefice a pregare per loro e a pregare anche per noi stessi, affinché «non diventiamo cristiani tristi», di quelli che tolgono «allo Spirito Santo la libertà di venire a noi tramite lo scandalo della predicazione».
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L'uomo dall'occhio penetrante

Quando la profezia viene a mancare a occuparne il posto è il clericalismo, il rigido schema della legalità che chiude la porta in faccia all’uomo. Da qui la preghiera che, nella prospettiva del Natale, lo spirito della profezia si faccia sentire tra il popolo.
Papa Francesco, nella messa celebrata lunedì 16 dicembre, nella cappella di Santa Marta, ha voluto ricordare che essere profeti è una vocazione di tutti i battezzati. E lo ha fatto, come di consueto, prendendo spunto dalla parola di Dio della liturgia del giorno. Il Pontefice ha ripetuto le parole del libro dei Numeri (24, 2-7.15-17b) che dipingono la figura del profeta, «oracolo di Balaam figlio di Beor e oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante; oracolo di chi ode le parole di Dio». Ecco, ha spiegato, «questo è il profeta»: un uomo «che ha gli occhi penetranti e che ascolta e dice le parole di Dio; che sa vedere nel momento e andare sul futuro. Ma prima aveva ascoltato, aveva sentito, la parola di Dio».
E infatti «il profeta ha dentro di se questi tre momenti». Anzitutto «il passato: il profeta — ha detto il Santo Padre — è cosciente della promessa e ha nel suo cuore la promessa di Dio, ce l’ha viva, la ricorda, la ripete». Ma «poi guarda il presente, guarda il suo popolo e sente la forza dello spirito per dire una parola che lo aiuti a issarsi, a continuare il cammino verso il futuro».
Dunque, ha proseguito il Papa, «il profeta è un uomo di tre tempi: promessa del passato, contemplazione del presente, coraggio per indicare il cammino verso il futuro». E, ha ricordato, «il Signore sempre ha custodito il suo popolo con i profeti nei momenti difficili, nei momenti nei quali il popolo era scoraggiato o era distrutto; quando il tempio non c’era; quando Gerusalemme era sotto il potere dei nemici; quando il popolo si domandava dentro di sé; ma Signore tu ci hai promesso questo e adesso cosa succede?». A questo proposito ha aggiunto: «Lo stesso forse è successo nel cuore della Madonna, quando era ai piedi della croce: Signore, tu mi hai detto che questo sarebbe il liberatore di Israele, il capo, quello che ci darà la redenzione; e adesso?».
«In quel momento del popolo di Israele — ha continuato il Pontefice — è necessario l’intervento del profeta. E non sempre il profeta è ben ricevuto. Tante volte è respinto. Lo stesso Gesù dice ai farisei che i loro padri hanno ucciso i profeti perché dicevano cose scomode, dicevano la verità, ricordavano la promessa». Ma, ha affermato il Papa, «quando nel popolo di Dio manca la profezia, manca qualcosa: manca la vita del Signore».
Esemplare, in proposito, la storia del giovane Samuele che, «mentre dormiva, aveva sentito la chiamata del Signore ma non sapeva cos’era. E la Bibbia lo dice: in quei tempi “la parola del Signore era rara e le visioni non erano frequenti”». (1 Libro di Samuele 3, 1). Era un tempo in cui «Israele non aveva profeti». Ma, ha fatto notare il vescovo di Roma, «lo stesso succede quando viene un profeta e il popolo non lo riceve», come si legge nel brano del Vangelo di Matteo (21, 23-27).
«Quando non c’è profezia — ha commentato — la forza cade sulla legalità. E questi sacerdoti sono andati da Gesù a chiedere la cartella di legalità: Con quale autorità fai queste cose?». È come se avessero detto: «Noi siamo i padroni del tempio; tu con quale autorità fai queste cose?». In realtà «non capivano le profezie, avevano dimenticato la promessa. Non sapevano leggere i segni del momento, non avevano né occhi penetranti né udito della parola di Dio. Soltanto avevano l’autorità».
Così «nel tempo di Samuele, quando la parola del Signore era rara e le visioni non erano frequenti, era lo stesso. La legalità e l’autorità». E questo accadeva perché «quando nel popolo di Dio non c’è profezia, il vuoto che lascia viene occupato dal clericalismo. E proprio questo clericalismo che chiede a Gesù: con quale autorità fai queste cose, con quale legalità?».
Così «la memoria della promessa e la speranza di andare avanti vengono ridotte soltanto al presente: né passato, né futuro e speranza». È come se per andare avanti valesse solo ciò che è «presente», ciò che è «legale».
Certo, ha spiegato il Papa, «forse il popolo di Dio che credeva, che andava a pregare al tempio, piangeva nel suo cuore perché non trovava il Signore. Mancava la profezia. Piangeva nel suo cuore come piangeva Anna, la mamma di Samuele, chiedendo la fecondità del popolo».
Quella fecondità, ha specificato il Pontefice, «che viene dalla forza di Dio, quando lui ci risveglia la memoria della sua promessa e ci spinge verso il futuro con la speranza. Questo è il profeta. Questo è l’uomo dall’occhio penetrante e che ode le parole di Dio».
Papa Francesco ha concluso la sua omelia proponendo «una preghiera in questi giorni nei quali ci prepariamo al Natale del Signore». Una preghiera al Signore perché — ha invocato — «non manchino profeti nel tuo popolo. Tutti noi battezzati siamo profeti. Signore, che non dimentichiamo la tua promessa; che non ci stanchiamo di andare avanti; che non ci chiudiamo nelle legalità che chiudono le porte. Signore, libera il tuo popolo dallo spirito del clericalismo e aiutalo con lo spirito di profezia».
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Il cognome di Dio

L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome. Perché incarnandosi il Signore ha fatto storia con l’umanità: la sua gioia è stata condividere la sua vita con noi, «e questo fa piangere: tanto amore, tanta tenerezza».
È con il pensiero rivolto al Natale ormai imminente che Papa Francesco ha commentato martedì 17 dicembre le due letture proposte dalla liturgia della parola, tratte rispettivamente dalla Genesi (49, 2.8-10) e dal Vangelo di Matteo (1, 1-17). Nel giorno del suo settantasettesimo compleanno, il Santo Padre ha presieduto come di consueto la messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Ha concelebrato tra gli altri il cardinale decano Angelo Sodano, che gli ha espresso gli auguri di tutto il collegio cardinalizio.
All’omelia, incentrata sulla presenza di Dio nella storia dell’umanità, il vescovo di Roma ha individuato in due termini — eredità e genealogia — le chiavi per interpretare rispettivamente la prima lettura (riguardante la profezia di Giacobbe che raduna i propri figli e predice una discendenza gloriosa per Giuda) e il brano evangelico contenente la genealogia di Gesù. Soffermandosi in particolare su quest’ultima, ha sottolineato che non si tratta di «un elenco telefonico», ma di «un argomento importante: è pura storia», perché «Dio ha inviato il suo figlio» in mezzo agli uomini. E, ha aggiunto, «Gesù è consostanziale al padre, Dio; ma anche consostanziale alla madre, una donna. E questa è quella consostanzialità della madre: Dio si è fatto storia, Dio ha voluto farsi storia. È con noi. Ha fatto cammino con noi».
Un cammino — ha proseguito il vescovo di Roma — iniziato da lontano, nel Paradiso, subito dopo il peccato originale. Da quel momento, infatti, il Signore «ha avuto questa idea: fare cammino con noi». Perciò «ha chiamato Abramo, il primo nominato in questa lista, in questo elenco, e lo ha invitato a camminare. E Abramo ha cominciato quel cammino: ha generato Isacco, e Isacco Giacobbe, e Giacobbe Giuda». E così via, avanti nella storia dell’umanità. «Dio cammina con il suo popolo», dunque, perché «non ha voluto venire a salvarci senza storia; lui ha voluto fare storia con noi».
Una storia, ha affermato il Pontefice, fatta di santità e di peccato, perché nell’elenco della genealogia di Gesù ci sono santi e peccatori. Tra i primi il Papa ha ricordato «il nostro padre Abramo» e «Davide, che dopo il peccato si è convertito». Tra i secondi ha individuato «peccatori di alto livello, che hanno fatto peccati grossi», ma con i quali Dio ugualmente «ha fatto storia». Peccatori che non hanno saputo rispondere al progetto che Dio aveva immaginato per loro: come «Salomone, tanto grande e intelligente, finito come un poveraccio che non sapeva nemmeno come si chiamasse». Eppure, ha constatato Papa Francesco, Dio era anche con lui. «E questo è il bello: Dio fa storia con noi. Di più, quando Dio vuol dire chi è, dice: io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».
Ecco perché alla domanda «qual è il cognome di Dio?» per Papa Francesco è possibile rispondere: «Siamo noi, ognuno di noi. Lui prende da noi il nome per farne il suo cognome». E nell’esempio offerto dal Pontefice non ci sono solo i padri della nostra fede, ma anche gente comune. «Io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Pedro, di Marietta, di Armony, di Marisa, di Simone, di tutti. Da noi prende il cognome. Il cognome di Dio è ognuno di noi», ha spiegato.
Da qui la constatazione che prendendo «il cognome dal nostro nome, Dio ha fatto storia con noi»; anzi, di più: «si è lasciato scrivere la storia da noi». E noi ancora oggi continuiamo a scrivere «questa storia», che è fatta «di grazia e di peccato», mentre il Signore non si stanca di venirci dietro: «questa è l’umiltà di Dio, la pazienza di Dio, l’amore di Dio». Del resto, anche «il libro della Sapienza dice che la gioia del Signore è tra i figli dell’uomo, con noi».
Ecco allora che «avvicinandosi il Natale», a Papa Francesco — com’egli stesso ha confidato concludendo la sua riflessione — è venuto naturale pensare: «Se lui ha fatto la sua storia con noi, se lui ha preso il suo cognome da noi, se lui ha lasciato che noi scrivessimo la sua storia», noi da parte nostra dovremmo lasciare che Dio scriva la nostra. Perché, ha chiarito, «la santità» è proprio «lasciare che il Signore scriva la nostra storia». E questo è l’augurio di Natale che il Pontefice ha voluto fare «per tutti noi». Un augurio che è un invito ad aprire il cuore: «Fa’ che il Signore ti scriva la storia e che tu lasci che te la scriva».
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domenica 15 dicembre 2013

Domenica III Avvento"A" 15-dic-2013 (Angelus 168)

Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi è la terza domenica di Avvento, detta anche domenica Gaudete,  cioè domenica della gioia. Nella liturgia risuona più volte l’invito a gioire, a rallegrarsi, perché? Perché il Signore è vicino. Il Natale è vicino. Il messaggio cristiano si chiama “evangelo”, cioè “buona notizia”, un annuncio di gioia per tutto il popolo; la Chiesa non è un rifugio per gente triste, la Chiesa è la casa della gioia! E coloro che sono tristi trovano in essa la gioia, trovano in essa la vera gioia!
Ma quella del Vangelo non è una gioia qualsiasi. Trova la sua ragione nel sapersi accolti e amati da Dio. Come ci ricorda oggi il profeta Isaia (cfr 35,1-6a.8a.10), Dio è colui che viene a salvarci, e presta soccorso specialmente agli smarriti di cuore. La sua venuta in mezzo a noi irrobustisce, rende saldi, dona coraggio, fa esultare e fiorire il deserto e la steppa, cioè la nostra vita quando diventa arida. E quando diventa arida la nostra vita? Quando è senza l’acqua della Parola di Dio e del suo Spirito d’amore. Per quanto siano grandi i nostri limiti e i nostri smarrimenti, non ci è consentito essere fiacchi e vacillanti di fronte alle difficoltà e alle nostre stesse debolezze. Al contrario, siamo invitati ad irrobustire le mani, a rendere salde le ginocchia, ad avere coraggio e non temere, perché il nostro Dio ci mostra sempre la grandezza della sua misericordia. Lui ci dà la forza per andare avanti. Lui è sempre con noi per aiutarci ad andare avanti. E’ un Dio che ci vuole tanto bene, ci ama e per questo è con noi, per aiutarci, per irrobustirci e andare avanti. Coraggio! Sempre avanti! Grazie al suo aiuto noi possiamo sempre ricominciare da capo. Come? Ricominciare da capo? Qualcuno può dirmi: “No, Padre, io ne ho fatte tante… Sono un gran peccatore, una grande peccatrice… Io non posso rincominciare da capo!”. Sbagli! Tu puoi ricominciare da capo! Perché? Perché Lui ti aspetta, Lui è vicino a te, Lui ti ama, Lui è misericordioso, Lui ti perdona, Lui ti dà la forza di ricominciare da capo! A tutti! Allora siamo capaci di riaprire gli occhi, di superare tristezza e pianto e intonare un canto nuovo. E questa gioia vera rimane anche nella prova, anche nella sofferenza, perché non è una gioia superficiale, ma scende nel profondo della persona che si affida a Dio e confida in Lui.
La gioia cristiana, come la speranza, ha il suo fondamento nella fedeltà di Dio, nella certezza che Lui mantiene sempre le sue promesse. Il profeta Isaia esorta coloro che hanno smarrito la strada e sono nello sconforto a fare affidamento sulla fedeltà del Signore, perché la sua salvezza non tarderà ad irrompere nella loro vita. Quanti hanno incontrato Gesù lungo il cammino, sperimentano nel cuore una serenità e una gioia di cui niente e nessuno potrà privarli. La nostra gioia è Gesù Cristo, il suo amore fedele inesauribile! Perciò, quando un cristiano diventa triste, vuol dire che si è allontanato da Gesù. Ma allora non bisogna lasciarlo solo! Dobbiamo pregare per lui, e fargli sentire il calore della comunità.
La Vergine Maria ci aiuti ad affrettare il passo verso Betlemme, per incontrare il Bambino che è nato per noi, per la salvezza e la gioia di tutti gli uomini. A lei l’Angelo disse: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28). Lei ci ottenga di vivere la gioia del Vangelo in famiglia, al lavoro, in parrocchia e in ogni ambiente. Una gioia intima, fatta di meraviglia e di tenerezza. Quella che prova una mamma quando guarda il suo bambino appena nato, e sente che è un dono di Dio, un miracolo di cui solo ringraziare!

Dopo Angelus
Cari fratelli e sorelle, mi spiace che voi siate sotto la pioggia! Ma io sono con voi, di qua… Siete coraggiosi! Grazie!
Oggi il primo saluto è riservato ai bambini di Roma, venuti per la tradizionale benedizione dei “Bambinelli”, organizzata dal Centro Oratori Romani. Cari bambini, quando pregherete davanti al vostro presepe, ricordatevi anche di me, come io mi ricordo di voi. Vi ringrazio, e buon Natale!
Saluto le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni e i singoli pellegrini provenienti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo, in particolare Spagna e Stati Uniti d’America. Con affetto saluto i ragazzi dello Zambia, e auguro loro di diventare “pietre vive” per costruire una società più umana. Estendo questo augurio a tutti i giovani qui presenti, specialmente quelli di Piscopio e Gallipoli, e agli universitari lucani di Azione Cattolica.
Saluto i Cori di Vicenza, L’Aquila e Mercato San Severino; i fedeli di Silvi Marina e San Lorenzello; come pure i soci del CRAL Telecom con i loro familiari.
A tutti voi auguro una buona domenica e buon pranzo. Arrivederci.
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giovedì 12 dicembre 2013

Le parole magiche (Interventi 181)

Don Luciano dal Kenia 

Eravamo ragazzi, ai tempi dei campeggi estivi. Era quanti anni fa? Si giocava a pallone in uno stretto prato, l'unico che non fosse in pendenza in quella vallata. Solo che alla fine del prato c'era una casa con tanto di muretto e cancello - e qualche volta il pallone finiva nel giardino della signora. Le prime volte lei usciva e ce lo restituiva, poi probabilmente per liberarsi di noi, ci faceva penare. Ci faceva aspettare, brontolava che le rovinavamo i fiori, che le facevamo perdere tempo... Fino a quando capimmo la strada giusta, ossia le tre parole magiche - "Le chiediamo scusa". L'istante dopo ci restituiva il pallone. 
L'episodio del pallone non è l'unico caso in cui una situazione si rasserena grazie a quelle tre preziose parole. E mi domando quanti matrimoni, quante relazioni tra genitori e figli, quante situazioni avrebbero potuto essere salvate se ci fosse stato qualcuno disponibile a dire quella parola - "Scusa". O nella versione un po' più lunga - "Ho sbagliato". Forse sono le parole che in questo periodo qualcuno aspetta di sentirsi dire da te. 
C'è una Parola di Dio che, se messa in pratica, può avere effetti sorprendenti in una relazione difficile o in un rapporto rovinato. Giacomo 5, 16 dice: «Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti». La guarigione comincia quando siamo disposti a ingoiare il nostro orgoglio e ad ammettere i nostri sbagli. E più ritardiamo il chiedere scusa, più alto si innalza il muro tra noi e gli altri. 
Noi siamo specialisti nello scovare le colpe degli altri, i loro sbagli. Ma Dio dice: «Ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso. Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello» (Romani 14, 12-13). Dobbiamo confessare i nostri peccati, non i loro - e invece siamo prontissimi a scovarli. La Scrittura ci incoraggia chiaramente a chiedere scusa per primi - fino al punto di dirci - «lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Matteo 5, 23-24). È parte di quell'invito che ci ha dato il Signore in Romani 12,18: «Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti»
Papa Francesco ci ha indicato le tre parole chiave che fanno stare in piedi le famiglie: «permesso, grazie, scusa» (1). Perché dipende da me dire "Scusa, ti chiedo perdono" per ciò che abbiamo fatto e che ha causato ferite o incomprensioni. Persino se io ho sbagliato appena il 10% e loro ben il 90% (è quasi sempre così, no?). Io sono responsabile del mio 10%. E non nasconderti dietro a una stiracchiata e forzata domanda di perdono del tipo, "Se ho sbagliato qualcosa ti chiedo scusa". La nostra richiesta di perdono - quella che guarisce davvero - deve essere il più specifica possibile.
Forse sei cresciuto in un ambiente dove le persone non hanno mai ammesso di aver commesso degli errori. Magari sei in una situazione dove il tuo cuore si è indurito e i muri sono alti - e dove la ferita che ti hanno fatto è profonda. Ma nessuna di queste cose ti toglie dalla responsabilità che hai come discepolo di Gesù di dire: "Ho sbagliato" o "Ti chiedo perdono", se hai commesso un errore. 
Chiedi a Dio di trasformare in benedizione quelle tue due piccole parole "Ho sbagliato". Qualche volta, due piccole parole sono l'inizio di un muro massiccio che crolla. 
Vi accompagno con la preghiera, sempre con riconoscenza e affetto 
don Luciano 
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(1) "Per portare avanti la famiglia è necessario usare tre parole: permesso, grazie, scusa. Tre parole chiave! Chiediamo permesso per non essere invadenti in famiglia. 'Posso fare questo? Ti piace che faccia questo?'. Col linguaggio del chiedere permesso. Diciamo grazie, grazie per l'amore! Ma dimmi, quante volte tu dici grazie a tua moglie, e tu a tuo marito? Quanti giorni passano senza dire questa parola, grazie! 
E l'ultima: scusa. Tutti sbagliamo e alle volte qualcuno si offende nella famiglia e nel matrimonio, alcune volte - io dico - volano i piatti, si dicono parole forti, ma sentite questo consiglio: non finire la giornata senza la pace. La pace si rifà ogni giorno in famiglia! 'Scusatemi', ecco, e si ricomincia di nuovo. 
Permesso, grazie, scusa! Lo diciamo assieme? (rispondono: 'Sì') Permesso, grazie, scusa! Facciamo queste tre parole in famiglia! Perdonarsi ogni giorno!" 
(dal Discorso di Papa Francesco alle famiglie in Pellegrinaggio a Roma nell'Anno della Fede, Piazza San Pietro, sabato 26 ottobre 2013) 

Cito da "Repubblica": "E lei non ha portato nessun palloncino?", ha chiesto Bergoglio al reggente della Casa Pontificia, padre Leonardo Sapienza, arrivando sul sagrato della Basilica di San Pietro dove insieme al prelato e al presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia c'erano ad attenderlo una decina di bambini ognuno con un palloncino su cui era scritto "Ti vogliamo bene". Una di queste - la piccola Federica - ha rivolto un breve saluto al Papa raccontando di sua nonna Angela e delle cotolette che sa cucinare, ma anche delle preghiere che le insegna. E il Papa ha colto l'assist per chiedere ai piccoli se sanno farsi il segno della Croce." 
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