Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

giovedì 31 ottobre 2013

La comunione dei santi va oltre la morte ed è eterna (Contributi 910)

Da La Bussola un articolo di Massimo Introvigne: 

Proseguendo nelle sue catechesi per l’Anno della fede – e preparando anche la festa di Tutti i Santi e la commemorazione dei fedeli defunti – Papa Francesco ha dedicato l’udienza generale del 30 ottobre 2013 alla nozione di «comunione dei santi». Il Papa è partito, come fa spesso, dal «Catechismo della Chiesa Cattolica», dove leggiamo che questa espressione ha due significati: indica la comunione alle cose sante e la comunione tra le persone sante. Francesco ha voluto incentrare la sua catechesi sul secondo significato, «una verità tra le più consolanti della nostra fede, poiché ci ricorda che non siamo soli ma esiste una comunione di vita tra tutti coloro che appartengono a Cristo». I santi, in questa espressione, non sono solo quelli canonizzati o coloro che praticano le virtù in un grado eroico. Sono tutti «coloro che credono nel Signore Gesù e sono incorporati a Lui nella Chiesa mediante il Battesimo. Per questo i primi cristiani erano chiamati anche “i santi”». 
I «santi» sono in comunione tra loro perché sono in comunione con Dio. Gesù ha pregato «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). La Chiesa stessa, «nella sua verità più profonda, è comunione con Dio, familiarità con Dio, comunione di amore con Cristo e con il Padre nello Spirito Santo». L’amore di Dio è insieme la «matrice» della comunione dei santi e la «fornace» dove essa si forgia nel fuoco della carità: «l’amore di Dio brucia i nostri egoismi, i nostri pregiudizi, le nostre divisioni interiori ed esterne. L’amore di Dio brucia anche i nostri peccati». 
Ma c’è anche un «movimento reciproco». È difficile trovare l’amore di Dio da soli. Normalmente «l’esperienza della comunione fraterna mi conduce alla comunione con Dio. Essere uniti fra noi ci conduce ad essere uniti con Dio», essere fratelli nella Chiesa «ci conduce a questo legame con Dio che è nostro Padre». Siamo chiamati a «sostenerci gli uni gli altri nell'avventura meravigliosa della fede». La comunione dei santi implica l’unità nella Chiesa. 
Ma qualche volta, ha fatto notare il Papa, questa unità non si vede: «la tendenza a chiudersi nel privato ha influenzato anche l’ambito religioso». Nei momenti di difficoltà nella fede, chi si è chiuso nel privato è restio a chiedere aiuto ad altri. «Chi di noi tutti non ha sperimentato insicurezze, smarrimenti e perfino dubbi nel cammino della fede? Tutti abbiamo sperimentato questo, anch'io: fa parte del cammino della fede, fa parte della nostra vita. Tutto ciò non deve stupirci, perché siamo esseri umani, segnati da fragilità e limiti; tutti siamo fragili, tutti abbiamo limiti». In queste difficoltà anzitutto «è necessario confidare nell'aiuto di Dio, mediante la preghiera filiale». Ma è anche «importante trovare il coraggio e l’umiltà di aprirsi agli altri, per chiedere aiuto, per chiedere di darci una mano». Una certa privatizzazione della fede impedisce di cercare negli altri credenti quel sostegno che potrebbe risolvere tanti dubbi e tanti problemi. 
Infine, la nozione di comunione dei santi va particolarmente ricordata quando si commemorano i defunti. Infatti «la comunione dei santi va al di là della vita terrena, va oltre la morte e dura per sempre». Alla fine, il carattere distintivo del cristiano è questo: crede che la comunione con le persone che ha incontrato e che gli sono care, e con tutta la Chiesa «va al di là e continua nell'altra vita; è una unione spirituale che nasce dal Battesimo e non viene spezzata dalla morte, ma, grazie a Cristo risorto, è destinata a trovare la sua pienezza nella vita eterna». E questo non significa soltanto che, quando saremo morti, continueremo a vivere l’esperienza della comunione. Significa pure che, già oggi, siamo in comunione con i nostri defunti che sono in Paradiso o in Purgatorio. «C’è un legame profondo e indissolubile tra quanti sono ancora pellegrini in questo mondo – fra noi – e coloro che hanno varcato la soglia della morte per entrare nell'eternità. Tutti i battezzati quaggiù sulla terra, le anime del Purgatorio e tutti i beati che sono già in Paradiso formano una sola grande Famiglia». In questo contesto, per le anime del Purgatorio non dobbiamo mai dimenticare «la preghiera di intercessione». 
Chi crede tutto questo deve vivere fin da ora nella bellezza, nella gioia e nella fiducia. Con i nostri cari potremo trovarci «un’altra volta lassù in cielo. Andiamo per questo cammino con fiducia, con gioia. Un cristiano deve essere gioioso, con la gioia di avere tanti fratelli battezzati che camminano con lui; sostenuto dall'aiuto dei fratelli e delle sorelle che fanno questa stessa strada per andare al cielo; e anche con l’aiuto dei fratelli e delle sorelle che sono in cielo e pregano Gesù per noi. Avanti per questa strada con gioia!». 
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mercoledì 30 ottobre 2013

Attraverso la loro umanità (Contributi 909)

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Nella mia esperienza di parroco, prima in Calabria e poi a Roma, l’attaccamento e la devozione del popolo ai santi è stata una continua scoperta.
Innanzitutto mi stupisce che questa devozione accomuna persone del tutto diverse per formazione culturale, per sensibilità, per posizione sociale. A Roma, ad esempio, nei due momenti forti della parrocchia di sant'Eusebio in cui lavoro, la festa di sant'Antonio Abate e la Stazione Quaresimale con l’esposizione delle reliquie dei santi martiri presenti nella chiesa, mi capita di incontrare sacerdoti, professori, gente del popolo, famiglie in difficoltà. Nei loro sguardi, nelle loro parole, un’unica richiesta: quella di una compagnia carica di tenerezza, che vinca le incertezze e le paure del vivere quotidiano. Cristo tocca il cuore dell’uomo perché impari a vivere la comunione, ovvero un’esperienza di popolo, proprio attraverso questa commozione che ci prende nelle vicende più intime, quelle che a volte non si ha il coraggio neppure di dire.
Spesso trovo sulle statue dei santi lettere che esprimono questa incapacità ad accogliere la propria ed altrui fragilità; oppure incontro persone che, in lacrime, domandano l’intercessione del santo con un’apertura del cuore tale che si traduce in domanda concreta di dialogo con noi sacerdoti, o nel desiderio di accostarsi al sacramento della Confessione. Ciò mi rende attento, quasi desideroso di imparare questa modalità espressiva della fede. Attraverso il riverbero della santità, crescono persone vere la cui vita pian piano diventa dono offerto per l’edificazione della Chiesa. Il santo è un “uomo vero”, scrive don Giussani nella prefazione di un libro di Cyril Martindale. E l’uomo vero è colui che è innanzitutto consapevole della propria fragilità, e quindi poggia tutto su un Altro. La devozione ai santi nella pietà popolare non è frutto di ragionamenti. Ma, come ha detto Benedetto XVI nella lettera ai seminaristi dell’ottobre 2010, «attraverso di essa, la fede è entrata nel cuore degli uomini, è diventata parte dei loro sentimenti, delle loro abitudini, del loro comune sentire e vivere. Perciò la pietà popolare è un grande patrimonio della Chiesa. La fede si è fatta carne e sangue».
Vedere il modo con cui il popolo si affida a san Francesco di Paola, a Padre Pio, a sant'Antonio di Padova, come compagnia cui tendere e con cui affrontare le tante fatiche della vita, apre il cuore proprio a questa carnalità cui l’educazione cristiana continuamente ci richiama. Non è la loro grandezza ma paradossalmente la loro umanità che permette a ciascuno di noi di aprirci e di affidarci totalmente a Cristo attraverso di loro.
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martedì 29 ottobre 2013

Lettera ai cristiani d’Occidente dal vescovo di Mosul

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Amel Shamon Nona
La grazia della persecuzione, il rapporto personale con Cristo, la richiesta di vivere a fondo la fede, l’amore per i nemici e la felicità nella prova estrema. Così Amel Shamon Nona, arcivescovo di Mosul, ha voluto parlare ai cristiani d’Occidente. «Come possiamo vivere la nostra fede in un tempo di grande difficoltà?», si domanda il vescovo iracheno nella lettera scritta il 26 ottobre scorso. «Cosa possiamo fare per coloro che sono perseguitati a causa della loro fede?» 

IL GREGGE IN FUGA. Nona racconta il dramma di quando fu nominato vescovo nel 2010, dopo che il suo predecessore, Paulos Faraj Rahho, era stato assassinato da terroristi islamici: «Sono arrivato a Mosul il 16 gennaio del 2010. Il giorno immediatamente successivo è iniziata una serie di omicidi vendicativi contro i cristiani, a cominciare dal padre di un ragazzo che stava pregando con me in chiesa. Per più di dieci giorni gli estremisti hanno continuato a uccidere, una o due persone al giorno. I fedeli hanno lasciato le città per cercare rifugio nei piccoli paesi e villaggi vicini, o nei monasteri». 

«ATTENDIAMO LA MORTE». Il presule confessa anche che la domanda su come aiutare i cristiani perseguitati è stata per lui un tormentato, e spiega di essere giunto alla certezza che «dobbiamo rimanere pieni di speranza». La speranza però per monsignor Nona «è legata all'amore e l’amore alla fede». I cristiani dell’Iraq devono quindi chiedersi «cosa possiamo fare per accrescere questa fede», scrive l’arcivescovo di Mosul, visto che «potremmo essere uccisi in ogni momento, a casa, in strada, al lavoro». La «vera sfida» è proprio «conservare una fede viva e attiva», insiste Nona: «Dal momento in cui attendiamo la morte, minacciati da qualcuno che potrebbe spararci in ogni momento, abbiamo bisogno di sapere come vivere bene». 

LA SCOPERTA PIÙ PREZIOSA. Occorre dunque «continuare a conoscere questa fede vivendola sempre e pienamente», prosegue il vescovo, con la consapevolezza che «la fede cristiana non è astratta, non è una teoria razionale, lontana dal presente e dalla vita attuale, ma qualcosa da scoprire nel suo significato più profondo, nella sua espressione più alta, cioè come rivelata dall'incarnazione». Infatti è solo dentro un rapporto con la persona di Cristo che si può vivere nelle condizioni più terribili, scrive monsignor Nona: solo «quando l’individuo scopre questa possibilità sarà capace di sostenere qualsiasi prova e farà di tutto per proteggere questa scoperta, anche se ciò volesse dire morire per essa». 

COSA POTETE FARE PER NOI. E alle persone che in Occidente chiedono «cosa possono fare per noi» Nona risponde: «Chiunque voglia fare qualcosa dovrebbe fare uno sforzo per vivere apertamente la sua fede in maniera più profonda, abbracciando la vita della fede nella sua pratica quotidiana. Per noi il regalo più grande da ricevere nella nostra situazione è quello di sapere che aiutiamo altri a vivere la loro fede con più vigore, gioia e fedeltà. Vigore nella vita quotidiana; gioia in tutto quello che incontriamo nel cammino della vita; confidenza che nella fede cristiana c’è la risposta a tutte le domande fondamentali della vita e la possibilità di affrontare anche i problemi più piccoli in cui ci imbattiamo lungo il cammino». Nona ricorda che il cristianesimo è osteggiato anche in Occidente, ed esorta: «Dimostrate la vostra fede nelle difficoltà della vostra società». «Siete la nostra voce», scrive il presule, ma «la cosa più grande che potete fare per rispondere alla nostra situazione è riscoprire e lavorare per l’unità – personale e comunitaria». 

LORO UCCIDONO, NOI AMIAMO. Monsignor Nona usa parole chiare anche per descrivere la situazione dei cristiani in Iraq: «Siamo della vittime e soffriamo nelle mani dei fondamentalisti che vengono da paesi lontani per combattere contro coloro che considerano infedeli (noi cristiani) usando come scusa il fatto che i loro fratelli sono perseguitati in altri paesi». Ma se «la loro reazione è uccidere gli altri», aggiunge, «la nostra deve essere quella di amare di più, di essere più uniti tra noi, più forti nel mostrare al mondo la vera immagine della vita, che ci ha insegnato Gesù». 

LA POSSIBILITÀ DI ESSERE FELICI. Nella persecuzione, sottolinea il vescovo iracheno, c’è una grande possibilità. Quella di essere «felici, perché abbiamo l’opportunità di riflettere sulla nostra decisione di essere di Cristo» e «di rendere concreta la libertà, difendendo con amore coloro che ci attaccano con rancore e disprezzo. Ultimamente la persecuzione non ci può rendere tristi o disperati, perché crediamo che la vita umana ha bisogno di essere sempre abbracciata in maniera totale come Gesù ci mostra, anche se la morte ci guarda in faccia e non abbiamo più di un minuto in questo mondo. San Paolo dice che “lì dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia”. Con lui noi possiamo anche dire che ovunque ci sia persecuzione ci sarà la grazia di una fede forte, lì dove sta la nostra salvezza». 
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lunedì 28 ottobre 2013

Capaci di vergognarsi

25 ottobre 2013 
La grazia della vergogna è quella che sperimentiamo quando confessiamo a Dio il nostro peccato e lo facciamo parlando «faccia a faccia» col sacerdote, «nostro fratello». E non pensando di rivolgerci direttamente a Dio, come se fosse «confessarsi per e-mail». È con queste efficaci espressioni che Papa Francesco ha richiamato l’attenzione su uno dei sacramenti cardini della salvezza umana, la confessione. Ne ha parlato venerdì 25 ottobre, durante la messa celebrata nella cappella di Santa Marta. 

San Paolo, dopo aver provato la sensazione di sentirsi liberato dal sangue di Cristo, dunque «ri-creato», avverte che in lui c’è ancora qualcosa che lo rende schiavo. E nel passo della lettera ai Romani (7, 18-25) proposto dalla liturgia l’apostolo — ha ricordato il Pontefice — si definisce «infelice». Per di più, «Paolo ieri parlava, annunciava la salvezza in Gesù Cristo per la fede», mentre oggi «come fratello racconta ai suoi fratelli di Roma la lotta che lui ha dentro di sé: “Io so che nella mia carne non abita il bene. C’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. E questo male lo fa il peccato che abita in me”. Si confessa peccatore. Ci dice: “Cristo ci ha salvati, siamo liberi. Ma io sono un poveraccio, io sono un peccatore, io sono uno schiavo”». 
Si tratta di quella che il Papa ha chiamato «la lotta dei cristiani», la nostra lotta di tutti i giorni. «Quando voglio fare il bene — ha spiegato il Pontefice — il male è accanto a me! Infatti, nel mio intimo acconsento alla legge di Dio; ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo». E noi «non sempre abbiamo il coraggio di parlare come parla Paolo su questa lotta. Sempre cerchiamo una giustificazione: “Ma sì, siamo tutti peccatori”». 
È contro questo atteggiamento che dobbiamo lottare. Anzi, «se noi non riconosciamo questo — ha avvertito il Santo Padre — non possiamo avere il perdono di Dio, perché se l’essere peccatore è una parola, un modo di dire, non abbiamo bisogno del perdono di Dio. Ma se è una realtà che ci fa schiavi, abbiamo bisogno di questa liberazione interiore del Signore, di quella forza». E Paolo Indica la via d’uscita: «Confessa alla comunità il suo peccato, la sua tendenza al peccato, non la nasconde. Questo è l’atteggiamento che la Chiesa ci chiede a tutti noi, che Gesù chiede a tutti noi: confessare umilmente i nostri peccati». 
La Chiesa nella sua saggezza indica ai credenti il sacramento della riconciliazione. E noi, ha esortato ancora il Papa, siamo chiamati a fare questo: «Andiamo dal fratello, dal fratello prete, e facciamo questa nostra confessione interiore: la stessa che fa Paolo: “Io voglio il bene, vorrei essere più buono, ma lei sa, delle volte ho questa lotta, delle volte ho questo, questo e questo...”». E così come «è tanto concreta la salvezza che ci porta Gesù, tanto concreto è il nostro peccato». 
Il Pontefice si è poi riferito a quanti rifiutano il colloquio col sacerdote e sostengono di confessarsi direttamente con Dio. Certo — ha commentato — «è facile, è come confessarsi per e-mail... Dio è là, lontano; io dico le cose e non c’è un faccia a faccia, non c’è un incontro a quattrocchi». Paolo Invece «confessa la sua debolezza ai fratelli faccia a faccia». 
Dal Papa anche un richiamo a quelli che davanti al sacerdote «si confessano di cose tanto eteree, che non hanno nessuna concretezza»: confessarsi così «è lo stesso che non farlo» ha precisato. E ha aggiunto: «Confessare i nostri peccati, non è andare a una seduta psichiatrica, neppure andare in una sala di tortura. È dire al Signore: “Signore, sono peccatore”. Ma dirlo tramite il fratello, perché questo dire sia anche concreto; “E sono peccatore per questo, per questo e per questo...”». 
Il Pontefice ha poi confidato che ammira il modo con cui si confessano i bambini. «Oggi — ha spiegato — abbiamo letto nell'alleluia: “Ti rendo gloria Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno” (Matteo 11, 25). I piccoli hanno una certa saggezza. Quando un bambino viene a confessarsi, mai dice una cosa generale: “Padre, ho fatto questo, ho fatto questo alla mia zia, ho fatto questo all’altra, all’altro ho detto questa parola” e dicono la parola. Sono concreti, hanno la semplicità della verità. E noi abbiamo sempre la tendenza a nascondere la realtà delle nostre miserie». Invece, se c’è una cosa bella è «quando noi confessiamo i nostri peccati come sono alla presenza di Dio. Sempre sentiamo quella grazia della vergogna. Vergognarsi davanti a Dio è una grazia. È una grazia: “Io mi vergogno”. Pensiamo a quello che disse Pietro dopo il miracolo di Gesù nel lago: “Ma Signore allontanati da me, io sono peccatore”. Si vergogna del suo peccato davanti alla santità di Gesù Cristo». 
Andare a confessarsi «è andare a un incontro col Signore che ci perdona, ci ama. E la nostra vergogna è quello che noi offriamo a lui: “Signore, sono peccatore, ma vedi non sono tanto cattivo, sono capace di vergognarmi”». Perciò «chiediamo — ha concluso il Papa — questa grazia di vivere nella verità senza nascondere niente a Dio e senza nascondere niente a noi stessi». 
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La logica del prima e del dopo

24 ottobre 2013 
Bisogna entrare nella «logica del prima e del dopo» per non diventare «cristiani tiepidi» o «all'acqua di rose», se non addirittura ipocriti. Con questa efficace espressione Papa Francesco, durante la messa celebrata il 24 ottobre nella cappella di Santa Marta ha riproposto l’atteggiamento con il quale i cristiani devono accostarsi al mistero della salvezza operata da Gesù. 

Il riferimento iniziale è stato alla lettera ai Romani (6, 19-23), nella quale san Paolo «cerca di farci capire quel mistero tanto grande della nostra redenzione, del nostro perdono, del perdono dei nostri peccati in Cristo Gesù». L’apostolo avverte che non è facile capire e sentire questo mistero. Per aiutarci a comprenderlo usa quella che il Pontefice ha definito «la logica del prima e del dopo: prima di Gesù e dopo Gesù», così come riassunto nel canto al Vangelo della liturgia del giorno (Filippesi, 3, 8): «Tutto ho lasciato perdere e considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui». Per san Paolo, dunque, conta soltanto Cristo. Egli, ha affermato il Papa, «sentiva tanto forte questo: la fede che ci fa giusti, ci giustifica davanti al Padre». Paolo ha abbandonato l’uomo «di prima». Ed è diventato l’uomo «di dopo» il cui obiettivo è «guadagnare Cristo». 
Proseguendo nel commento alla lettera, il Santo Padre ha fatto notare come l’apostolo indichi «una strada per vivere secondo questa logica del prima e del dopo». Una strada descritta nelle parole: «Come infatti avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per la santificazione». 
«Quello che ha fatto Cristo in noi — ha detto ancora il Papa — è una ri-creazione; il sangue di Cristo ci ha ri-creato; è una seconda creazione. E se prima tutta la nostra vita, il nostro corpo, la nostra anima, le nostre abitudini erano sulla strada del peccato, dell’iniquità; dopo questa ri-creazione dobbiamo fare lo sforzo di camminare sulla strada della giustizia, della santificazione. Paolo utilizza questa parola: la santità. Tutti noi siamo stati battezzati. In quel momento — eravamo bambini — i nostri genitori, a nome nostro, hanno pronunciato l’atto di fede: credo in Gesù Cristo che ci ha perdonati i peccati». 
Questa fede — ha esortato il Pontefice — «dobbiamo ri-assumerla noi e portarla avanti con il nostro modo di vivere. E vivere da cristiano è portare avanti questa fede in Cristo, questa ri-creazione. Portare avanti le opere che nascono da questa fede. L’importante è la fede, ma le opere sono il frutto di questa fede: portate avanti queste opere per la santificazione. Ecco: la prima santificazione che ha fatto Cristo, la prima santificazione che abbiamo ricevuto nel battesimo, deve crescere, deve andare avanti». 
In realtà, ha ammesso il Santo Padre, «noi siamo deboli e tante volte facciamo peccati». Questo significa che non siamo sulla strada della santificazione? «Sì e no» ha risposto Papa Francesco. E ha spiegato: «Se tu ti abitui a una vita un po’ così e dici: “Credo in Gesù Cristo, ma vivo come voglio”», allora «questo non ti santifica, non va, è un controsenso». Ma «se tu dici: “Io sì, sono peccatore; io sono debole”» e «vai sempre dal Signore e dici: “Signore, tu hai la forza, dammi la fede; tu puoi guarirmi”» attraverso il sacramento della riconciliazione, allora «anche le nostre imperfezioni si inseriscono in questa strada di santificazione». 
Dunque c’è sempre questo prima e dopo: «Prima, l’atto di fede. Prima dell’accettazione di Gesù Cristo che ci ha ri-creati con il suo sangue eravamo sulla strada dell’ingiustizia; dopo, siamo sulla strada della santificazione, ma dobbiamo prenderla sul serio». Ciò significa, ha specificato il Pontefice, fare «opere di giustizia». Innanzitutto adorare Dio; e poi «fare ciò che Gesù ci consiglia: aiutare gli altri, dar da mangiare agli affamati, dare acqua agli assetati, visitare gli ammalati, visitare i carcerati. Queste opere sono le opere che Gesù ha fatto nella sua vita, opere di giustizia, opere di ri-creazione. Quando noi diamo da mangiare a un affamato, ri-creiamo in lui la speranza e così con gli altri. Ma se noi accettiamo la fede e poi non la viviamo, siamo cristiani soltanto, ma a memoria: sì, sì sono stato battezzato, questa è la fede del battesimo; ma vivo come posso». 
Senza questa coscienza del prima e del dopo, «il nostro cristianesimo non serve a nessuno». Anzi, diventa «ipocrisia: mi dico cristiano, ma vivo come pagano. Alcune volte diciamo: cristiani a metà cammino», che non considerano seriamente il fatto di essere «santificati per il sangue di Cristo». E se non si prende sul serio questa santificazione, si diventa come quelli che il Papa ha definito «cristiani tiepidi: sì sì, no no no... È un po’ come dicevano le nostre mamme, cristiani all'acqua di rose: un po’ così, un po’ di vernice cristiana, un po’ di vernice di catechesi, ma dentro non c’è una vera conversione, non c’è questa convinzione di Paolo: Tutto ho lasciato perdere e considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui». 
Questa, ha aggiunto il Vescovo di Roma, era «la passione di Paolo». E questa deve essere «la passione di un cristiano: lasciar perdere tutto quello che ci allontana da Cristo, il Signore; lasciar perdere tutto quello che ci allontana dall'atto di fede in lui, dall'atto di fede nella ri-creazione per mezzo del suo sangue. E fare tutto nuovo. Tutto è novità in Cristo. Tutto è nuovo». 
È un obiettivo possibile? «Sì» ha risposto il Pontefice, spiegando: «Paolo lo ha fatto. Tanti cristiani lo hanno fatto e lo fanno. Non solo i santi, quelli che conosciamo; anche i santi anonimi, quelli che vivono il loro cristianesimo sul serio. Forse la domanda che oggi possiamo farci è: “io voglio vivere il mio cristianesimo sul serio? Credo che sono stato ri-creato per il sangue di Cristo e voglio portare avanti questa ri-creazione fino al giorno in cui si vedrà la città nuova, la creazione nuova? O sono un po’ a metà cammino?”». 
«Chiediamo a san Paolo, che ci parla oggi con questa logica del prima e del dopo — ha concluso il Papa — che ci dia la grazia di vivere come cristiani sul serio, di credere davvero che siamo stati santificati per il sangue di Gesù Cristo». 
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Il denaro serve ma la cupidigia uccide

21 ottobre 2013 
I soldi servono per realizzare tante opere buone, per far progredire l’umanità, ma quando diventano l’unica ragione di vita, distruggono l’uomo e i suoi legami con il mondo esterno. È questo l’insegnamento che Papa Francesco ha tratto dal brano liturgico del vangelo di Luca (12, 13-21) durante la messa celebrata lunedì 21 ottobre, a Santa Marta. 

All’inizio della sua omelia il Santo Padre ha ricordato la figura dell’uomo che chiede a Gesù di intimare al proprio fratello di dividere con lui l’eredità. Per il Pontefice, infatti, il Signore ci parla attraverso questo personaggio «del nostro rapporto con le ricchezze e con i soldi». Un tema che non è solo di duemila anni fa ma si ripresenta ancora oggi, tutti i giorni. «Quante famiglie distrutte — ha commentato — abbiamo visto per problemi di soldi: fratello contro fratello; padre contro figli!». Perché la prima conseguenza dell’attaccamento ai soldi è la distruzione dell’individuo e di chi gli sta vicino. «Quando una persona è attaccata ai soldi — ha spiegato il vescovo di Roma — distrugge sé stessa, distrugge la famiglia». 
Certo, il denaro non va demonizzato in senso assoluto. «I soldi — ha precisato Papa Francesco — servono per portare avanti tante cose buone, tanti lavori, per sviluppare l’umanità». Quello che va condannato, invece, è il loro uso distorto. A questo proposito il Pontefice ha ripetuto le stesse parole pronunciate da Gesù nella parabola dell’«uomo ricco» contenuta nel vangelo: «Chi accumula tesori per sé, non si arricchisce verso Dio». Da qui il monito: «Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia». È questa infatti «che fa male nel rapporto con i soldi»; è la tensione costante ad avere sempre di più che «porta all'idolatria» del denaro e finisce con il distruggere «il rapporto con gli altri». Perché la cupidigia fa ammalare l’uomo, conducendolo all'interno di un circolo vizioso nel quale ogni singolo pensiero è «in funzione dei soldi». 
Del resto, la caratteristica più pericolosa della cupidigia è proprio quella di essere «uno strumento dell’idolatria; perché va per la strada contraria» a quella tracciata da Dio per gli uomini. E in proposito il Santo Padre ha citato san Paolo, il quale ricorda «che Gesù Cristo, che era ricco, si è fatto povero per arricchire noi». C’è dunque una «strada di Dio», quella «dell’umiltà, dell’abbassarsi per servire», e un percorso che va nella direzione opposta, dove conducono la cupidigia e l’idolatria: «Tu che sei un povero uomo, ti fai Dio per la vanità». 
Per questo motivo, ha aggiunto il Pontefice, «Gesù dice cose tanto dure e tanto forti, contro l’attaccamento al denaro»: per esempio, quando ricorda «che non si possono servire due padroni: o Dio o il denaro»; o quando esorta «a non preoccuparci, poiché il Signore sa di cosa abbiamo bisogno»; o ancora quando «ci porta all'abbandono fiducioso verso il Padre, che fa fiorire i gigli del campo e dà da mangiare agli uccelli del cielo». 
L’atteggiamento in netta antitesi a questa fiducia nella misericordia divina è proprio quello del protagonista della parabola evangelica, il quale non riusciva a pensare ad altro che all'abbondanza del grano raccolto nelle campagne e dei beni accumulati. Interrogandosi sul da farsi, ha spiegato Papa Francesco, «poteva dire: darò questo a un altro per aiutarlo». Invece «la cupidigia lo ha portato a dire: costruirò altri magazzini e li riempirò. Sempre di più». Un comportamento che, secondo il Papa, cela l’ambizione di raggiungere una sorta di divinità, «quasi una divinità idolatrica», come testimoniano gli stessi pensieri dell’uomo: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi, divertiti». 
Ma è proprio allora che Dio lo riconduce alla sua realtà di creatura, mettendolo in guardia con la frase: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita». Perché, ha concluso il vescovo di Roma, «questa strada contraria alla strada di Dio è una stoltezza, porta lontano dalla vita. Distrugge ogni fraternità umana». Mentre il Signore ci mostra la vera strada. Che «non è il cammino della povertà per la povertà»; al contrario «è il cammino della povertà come strumento, perché Dio sia Dio, perché Lui sia l’unico Signore, non l’idolo d’oro». Infatti «tutti i beni che abbiamo, il Signore ce li dà per far andare avanti il mondo, per far andare avanti l’umanità, per aiutare gli altri». 
Da qui l’auspicio che «rimanga oggi nel nostro cuore la parola del Signore», con il suo invito a tenersi lontani dalla cupidigia, perché «anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 
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domenica 27 ottobre 2013

Santa Messa per la Giornata della Famiglia

Le Letture di questa domenica ci invitano a meditare su alcune caratteristiche fondamentali della famiglia cristiana. 
1. La prima: la famiglia che prega. Il brano del Vangelo mette in evidenza due modi di pregare, uno falso – quello del fariseo – e l’altro autentico – quello del pubblicano. Il fariseo incarna un atteggiamento che non esprime il rendimento di grazie a Dio per i suoi benefici e la sua misericordia, ma piuttosto soddisfazione di sé. Il fariseo si sente giusto, si sente a posto, si pavoneggia di questo e giudica gli altri dall’alto del suo piedestallo. Il pubblicano, al contrario, non moltiplica le parole. La sua preghiera è umile, sobria, pervasa dalla consapevolezza della propria indegnità, delle proprie miserie: quest’uomo davvero si riconosce bisognoso del perdono di Dio, della misericordia di Dio. 
Quella del pubblicano è la preghiera del povero, è la preghiera gradita a Dio che, come dice la prima Lettura, «arriva fino alle nubi» (Sir 35,20), mentre quella del fariseo è appesantita dalla zavorra della vanità. 
Alla luce di questa Parola, vorrei chiedere a voi, care famiglie: pregate qualche volta in famiglia? Qualcuno sì, lo so. Ma tanti mi dicono: ma come si fa? Ma, si fa come il pubblicano, è chiaro: umilmente, davanti a Dio. Ognuno con umiltà si lascia guardare dal Signore e chiede la sua bontà, che venga a noi. Ma, in famiglia, come si fa? Perché sembra che la preghiera è sia una cosa personale, e poi non c’è mai un momento adatto, tranquillo, in famiglia … Sì, è vero, ma è anche questione di umiltà, di riconoscere che abbiamo bisogno di Dio, come il pubblicano! E tutte le famiglie, abbiamo bisogno di Dio: tutti, tutti! Bisogno del suo aiuto, della sua forza, della sua benedizione, della sua misericordia, del suo perdono. E ci vuole semplicità: per pregare in famiglia, ci vuole semplicità! Pregare insieme il “Padre nostro”, intorno alla tavola, non è una cosa straordinaria: è facile. E pregare insieme il Rosario, in famiglia, è molto bello, dà tanta forza! E anche pregare l’uno per l’altro: il marito per la moglie, la moglie per il marito, ambedue per i figli, i figli per i genitori, per i nonni … Pregare l’uno per l’altro. Questo è pregare in famiglia, e questo fa forte la famiglia: la preghiera. 
2. La seconda Lettura ci suggerisce un altro spunto: la famiglia custodisce la fede. L’apostolo Paolo, al tramonto della sua vita, fa un bilancio fondamentale, e dice: «Ho conservato la fede» (2 Tm 4,7). Ma come l’ha conservata? Non in una cassaforte! Non l’ha nascosta sottoterra, come quel servo un po’ pigro. San Paolo paragona la sua vita a una battaglia e a una corsa. Ha conservato la fede perché non si è limitato a difenderla, ma l’ha annunciata, irradiata, l’ha portata lontano. Si è opposto decisamente a quanti volevano conservare, “imbalsamare” il messaggio di Cristo nei confini della Palestina. Per questo ha fatto scelte coraggiose, è andato in territori ostili, si è lasciato provocare dai lontani, da culture diverse, ha parlato francamente senza paura. San Paolo ha conservato la fede perché, come l’aveva ricevuta, l’ha donata, spingendosi nelle periferie, senza arroccarsi su posizioni difensive. 
Anche qui, possiamo chiedere: in che modo noi, in famiglia, custodiamo la nostra fede? La teniamo per noi, nella nostra famiglia, come un bene privato, come un conto in banca, o sappiamo condividerla con la testimonianza, con l’accoglienza, con l’apertura agli altri? Tutti sappiamo che le famiglie, specialmente quelle giovani, sono spesso “di corsa”, molto affaccendate; ma qualche volta ci pensate che questa “corsa” può essere anche la corsa della fede? Le famiglie cristiane sono famiglie missionarie. Ma, ieri abbiamo sentito, qui in piazza, la testimonianza di famiglie missionarie. Sono missionarie anche nella vita di ogni giorno, facendo le cose di tutti i giorni, mettendo in tutto il sale e il lievito della fede! Conservare la fede in famiglia e mettere il sale e il lievito della fede nelle cose di tutti i giorni. 
3. E un ultimo aspetto ricaviamo dalla Parola di Dio: la famiglia che vive la gioia. Nel Salmo responsoriale si trova questa espressione: «i poveri ascoltino e si rallegrino» (33/34,3). Tutto questo Salmo è un inno al Signore, sorgente di gioia e di pace. E qual è il motivo di questo rallegrarsi? E’ questo: il Signore è vicino, ascolta il grido degli umili e li libera dal male. Lo scriveva ancora san Paolo: «Siate sempre lieti … il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Eh … a me piacerebbe fare una domanda, oggi. Ma, ognuno la porta nel suo cuore, a casa sua, eh?, come un compito da fare. E si risponde da solo. Come va la gioia, a casa tua? Come va la gioia nella tua famiglia? Eh,date voi la risposta. 
Care famiglie, voi lo sapete bene: la gioia vera che si gusta nella famiglia non è qualcosa di superficiale, non viene dalle cose, dalle circostanze favorevoli… La gioia vera viene da un’armonia profonda tra le persone, che tutti sentono nel cuore, e che ci fa sentire la bellezza di essere insieme, di sostenerci a vicenda nel cammino della vita. Ma alla base di questo sentimento di gioia profonda c’è la presenza di Dio, la presenza di Dio nella famiglia, c’è il suo amore accogliente, misericordioso, rispettoso verso tutti. E soprattutto, un amore paziente: la pazienza è una virtù di Dio e ci insegna, in famiglia, ad avere questo amore paziente, l’uno con l’altro. Avere pazienza tra di noi. Amore paziente. Solo Dio sa creare l’armonia delle differenze. Se manca l’amore di Dio, anche la famiglia perde l’armonia, prevalgono gli individualismi, e si spegne la gioia. Invece la famiglia che vive la gioia della fede la comunica spontaneamente, è sale della terra e luce del mondo, è lievito per tutta la società. 
Care famiglie, vivete sempre con fede e semplicità, come la santa Famiglia di Nazareth. La gioia e la pace del Signore siano sempre con voi!
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Domenica XXX t. ord."C" 27-ott-2013 (Angelus 160)

Prima di concludere questa celebrazione, desidero salutare tutti i pellegrini, specialmente voi, care famiglie, venute da tanti Paesi. Grazie di cuore!
Rivolgo un cordiale saluto ai Vescovi e ai fedeli della Guinea Equatoriale, qui convenuti in occasione della ratifica dell’Accordo con la Santa Sede. La Vergine Immacolata protegga il vostro amato popolo e vi ottenga di progredire sulla via della concordia e della giustizia.
Adesso pregheremo insieme l’Angelus. Con questa preghiera invochiamo la protezione di Maria per le famiglie del mondo intero, in modo particolare per quelle che vivono situazioni di maggiore difficoltà. Maria, Regina della Famiglia, prega per noi! Diciamo insieme: Maria, Regina della Famiglia, prega per noi! Maria, Regina della Famiglia, prega per noi! Maria, Regina della Famiglia, prega per noi!
Angelus Domini
Grazie tante per la festa di ieri e per questa Messa. Il Signore vi benedica. Vi auguro buona domenica e buon pranzo. Arrivederci!
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giovedì 24 ottobre 2013

La fattoria “padre Pio” (Contributi 908)

Una testimonianza di Aldo Trento


La fattoria “padre Pio” è molto nota ad Asunción. Si tratta di 14 ettari di terreno a 40 chilometri dalla capitale del Paraguay. È stata donata da una signora molto devota al frate cappuccino. La sua unica richiesta è stata quella di costruire una cappella in onore del santo. Dopo aver visitato il luogo con padre Paolino sono rimasto deluso. E anche timoroso: nessuno di noi vedeva un futuro in quel terreno abbandonato, infestato da serpenti (specialmente dal serpente corallo). E oltretutto occupato da un contadino. Tuttavia, per l’educazione ricevuta che ci ha insegnato a dire sempre “sì” davanti alla realtà, abbiamo accettato il regalo consegnandolo alla divina provvidenza, certi che, se fosse stato un bene, ci avrebbe aiutato a capirlo, altrimenti sarebbe rimasto così com’era.
I primi mesi abbiamo ispezionato per bene il territorio, chiedendo aiuto a chi poteva consigliarci e poi abbiamo deciso di incominciare i lavori. In primo luogo abbiamo iniziato a fare pulizia, cosa che ci ha impegnati per diverse settimane. Non appena gli operai cominciarono a usare il machete, i serpenti corallo sono usciti a frotte dai loro nascondigli. I contadini, abituati a lavorare in quelle condizioni, non si sono lasciati impressionare e molti di quei serpenti sono rimasti sul terreno, vittime del machete. Finita la pulizia il panorama era completamente differente: il canneto e gli ettari di terreno seminati a foraggio suscitarono in me un entusiasmo particolare. In quel momento ho cominciato a sognare che un giorno avrei potuto avere un allevamento di vacche da latte. Devo confessare che porto nel sangue un affetto speciale per questi animali, grazie ai quali mia madre ha potuto darci da mangiare negli anni difficili della mia infanzia, dato che mio papà era dovuto emigrare in Svizzera.
Alcuni mesi dopo, con grandi sforzi, siamo riusciti a costruire una casetta con una cucina, due camere da letto e un bagno dove credevamo di poter trascorrere almeno un giorno alla settimana di riposo. Un sogno inappagato: non c’era tempo per riposare perché ci siamo resi conto che senza un custode ci avrebbero rubato persino gli alberi. Così abbiamo trovato una persona che controllasse la casa e per un po’ tutto è andato bene; poi i furti sono ricominciati. Abbiamo cambiato vari custodi, ma la cosa continuava, finché siamo giunti alla conclusione che i responsabili dei furti erano gli stessi custodi. Nel frattempo, grazie ad alcuni amici, avevamo deciso di costruire una piccola casa per ritiri spirituali. L’avrei voluta di pianta quadrata come i conventi benedettini, con un ampio giardino nel mezzo. Ma anche quella bella idea è fallita per questioni di sicurezza.
Ma non mi sono arreso, così ho pensato a nuove soluzioni: perché non utilizzare lo stesso progetto e, invece del chiostro aperto, unire i soffitti fino a coprire il patio mettendo nel mezzo un enorme tronco di lapacho che potesse sopportare il peso? Non solo, volevo anche che la facciata della casa fosse come quella di una bellissima chiesa francescana del XVIII secolo che distava pochi chilometri da dove eravamo noi. Detto, fatto! In un anno abbiamo finito la costruzione, tutta di mattoni rossi e di malta fatta con cemento e sabbia rossa. Sembra la continuità verticale del terreno.
Tutto il legname da costruzione tagliato dai falegnami dà un colore particolare alla casa. Tutti i particolari, dagli utensili in argilla fino alle posate, mobili e decorazioni sono stati curati da un’amica del posto, appassionata alla materia. Negli anni seguenti sono nati un grande capannone per gli incontri coi giovani, le famiglie, eccetera e più tardi, rispettando la volontà della signora che ci aveva donato la fattoria, una bella cappella in mattoni pressati in onore di padre Pio. Al posto del campanile, con una grande gru, abbiamo messo una statua molto bella del santo, fatta in cemento da un artista italiano. Uno spettacolo!

Quante sabbie mobili
A quel punto mancava solo la bonifica dell’estuario dove vivevano serpenti e altri animali. C’erano inoltre zone dove le sabbie mobili potevano inghiottire facilmente una persona se per caso sbagliava a finirci dentro. La Provvidenza ha voluto che alcuni ragazzi che stavano nella casa per minori “Vergine di Caacupé”, espiando la loro pena per i delitti commessi, autorizzati dalle autorità, venissero a vivere e a lavorare nella fattoria. Ho proposto loro, dando l’esempio lavorando personalmente, di trasformare l’estuario in un giardino, in un verziere. Il mio desiderio, pensando a Venezia, era di trasformare quella palude in un insieme di canali uniti tra loro da ponti, lasciando due piccole lagune per pescare. Il lavoro è stato lungo e duro. Dovevamo entrare negli estuari con stivali lunghi facendo molta attenzione perché era molto pericoloso. Dopo moltissimi sacrifici tutto era diventato irriconoscibile rispetto a prima: ora al posto della palude c’era un bellissimo giardino. Per la bonifica furono necessari centinaia di camion di pietra e terra. Ora è veramente un Eden di piante, frutti, fiori e animali. La fattoria è diventata un posto dove si svolgono numerosi eventi.
La cosa più bella e significativa è stata la trasformazione della prima casa in un centro per i malati di Aids, “scartati” dalla società e dalle famiglie di provenienza e ristabiliti nella nostra clinica. Sono un piccolo gruppo di giovani che dopo anni di formazione, si autogestiscono. Durante il giorno c’è una donna sposata e madre di 6 figli che li aiuta nei lavori più importanti della casa. La chiamano “mamma”. Il responsabile della comunità è Thomas, un giornalista, anche lui malato di Aids. Hanno orari precisi e si alternano nei 
differenti lavori che devono fare nella casa.

La storia di Luis
Ogni settimana portiamo loro i viveri, stiamo con loro, verifichiamo la puntualità nell’assumere correttamente la terapia con gli antiretrovirali. E quando si scompensano inviamo loro l’ambulanza per portarli ad Asunción, alla clinica, per stabilizzarli. Non sono tutti paraguaiani, ci sono anche un basco e un austriaco. Ognuno ha la sua storia, non solo drammatica, spesso addirittura disperata. Durante il pranzo che condividiamo con loro, hanno cominciato ad aprirsi e a condividere i loro terribili dolori.
Per esempio, Luis, un ragazzo di 26 anni, ci ha raccontato alcuni dettagli della sua vita che ci hanno fatto venire i brividi. Senza famiglia, si era unito a una ragazza dalla quale ha avuto un figlio che ora ha 6 anni. Molto presto la loro relazione finì: la ragazza se ne andò di casa per iniziare una nuova avventura con il vicino di casa, oltre che amico, di Luis. Disperato, il ragazzo è salito su un albero, si è messo una fune al collo e si è lanciato nel vuoto. Il Signore ha voluto che in quel momento passasse di lì una persona buona che, avendone compreso le intenzioni, riuscì ad afferrarlo impedendogli di morire impiccato.
Luis ha riconosciuto in quel salvataggio la mano di Dio e, per non rischiare di riprovare il suicidio, lasciò la baracca in cui viveva e se ne andò a Buenos Aires alla ricerca di una vita migliore. Fu un viaggio inutile perché per 15 giorni il ragazzo è rimasto in una piazza senza trovare lavoro e quasi senza mangiare. Con l’aiuto di alcune brave persone è tornato in Paraguay dove ha continuato a ciondolare in città fino a che una ragazza, che lavora con noi, lo ha incontrato e portato a San Rafael. Lo abbiamo accolto come un figlio e lo abbiamo portato alla fattoria. Col tempo abbiamo scoperto che era anche epilettico, ma pian piano la sua vita ha cominciato a rifiorire.
È proprio vero che Dio non abbandona mai i figli che a Lui gridano! Dio si serve di noi solo se la nostra vita è completamente consacrata a Cristo, si serve di noi se, come ha detto papa Francesco, siamo padri e madri, non zitelloni o zitellone. È comodo e facile parlare e predicare la carità. Noi preti siamo gli esperti di queste virtù, scriviamo libri. Ma è tutta un’altra cosa aprire le porte dei nostri cuori, delle nostre case, dei nostri conventi.

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Lettera Aldo Trento 21-10-2013

Cari amici,
mi scriveva alcuni giorni fa Padre Paolino “...penso che in questo tempo dobbiamo avere chiaro che, attaverso la tua malattia e il mio “esilio” il Signore sta portando avanti la Fondazione al nostro posto...” Com'è vera questa lettura della situazione che viviamo! È la prova più evidente della luce del sole che questa opera è di Dio. Per questo la cosa che da sempre mi addolora è sentire dire: l'opera di Padre Aldo”. 
Secondo voi un uomo che per più di vent'anni ha sofferto una terribile depressione e quasi subito dopo è stato colpito da una malattia che solo un miracolo può guarire -spondilopatia iperostante dismetabolica-  avrebbe potuto fare quello che esiste qui? Solo uno sciocco direbbe SI! Senza dubbio la maggior parte non crede all'evidenza. Ricordo che un giorno ero a Roma per una questione e anche lì mi dissero: “Padre Aldo, ricorda che questa è la tua opera e quindi la responsabilità è totalmente tua”. Se mi avessero ucciso avrei sofferto meno. Però non c’è possibilità che capiscano. Di mio qui, ci sono solo i miei peccati, la mia mancanza di fede, il mio caratteraccio. In questi anni il Signore mi lasciò sempre al limite del precipizio per verificare la verità o la falsità della mia fede. E quando mi pareva di stare per precipitare Lui mi acciuffava per i capelli e mi mostrava la sua misericordia, la sua Provvidenza. Per esempio, parlando di una questione che preoccupa il mondo intero, la questione economica, non c’è persona che viva al mio fianco che non riconosca come, in questi dieci anni, mai passarono più di cinque giorni senza che l’amministrazione pagasse lo stipendio alle 170 persone che lavorano qui. E tutte le persone hanno il salario sindacale o maggiore, e l’assicurazione dell’INPS.  
Venerdì 27 Settembre, la amministratrice (Silvia, che continua a lavorare nonostante da anni soffra di metastasi in tutto il corpo) mi dice: “Padre, sta arrivando la fine del mese e mancano 150 milioni di guaranies (26 mila euro) per saldare i debiti di questo mese”. “Silvia, animo, perchè ogni mese è la stessa antifona e alla fine la Provvidenza salda tutto”. Sabato 28 Settembre stavo prendendo il caffè prima che mi portassero alla Gran’Ca per la Santa Messa per gli ammalati di AIDS, quando arrivò la guardia a portarmi una busta inviata dal Presidente della Repubblica attraverso sua sorella, che alle due del pomeriggio o della notte suole passare un’ora davanti al Santissimo Sacramento. Aprì la busta e dentro c’erano 50 milioni di guaranies (9 mila euro). Era il contributo personale del Presidente. Gli feci inviare dal mio cellulare un messaggio di ringraziamento e lei mi rispose con due messaggi: “La Sua misericordia non manca mai, caro Padre, e mai mancherà!” e “Caro Padre, mancano i soldi del suo salario che glieli inviano direttamente dalla Presidenza”. Significa 30 milioni (5 mila euro). In questo modo in questo momento mancano 70 milioni (12 mila euro) che la Provvidenza sicuramente ci farà arrivare. In questo modo intraprendiamo il mese di Ottobre con 0 km. Abbiamo debiti solo con Dio. Cari amici, Dio mi sta triturando, però... Quanto mi vuole bene! Quanto ci vuole bene! E come vorremmo che tutti potessero vedere se quello che qui esiste può essere opera di due asini. Solo un matto potrebbe affermarlo. Per questo nella tribolazione vivo una grande pace dentro la grazia dei miei grandi limiti e peccati. Inizia il mese missionario, confido nelle vostre preghiere e nel vostro aiuto, perchè Dio ha le nostre mani, i nostri orecchi, le nostre gambe. Ringrazio tutti i benefattori del mondo che con sacrificio permettono alla Divina Provvidenza di provvedere alle sue opere.
Con affetto,
Padre Aldo
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domenica 20 ottobre 2013

Pensiero di S. Agostino

Poteva esserci misericordia verso di noi infelici maggiore di quella che indusse il Creatore del cielo a scendere dal cielo e il Creatore della terra a rivestirsi di un corpo mortale? 
Quella stessa misericordia indusse il Signore del mondo a rivestirsi della natura di servo, di modo che pur essendo pane avesse fame, pur essendo la sazietà piena avesse sete, pur essendo la potenza divenisse debole, pur essendo la salvezza venisse ferito, pur essendo vita potesse morire. 
E tutto questo per saziare la nostra fame, alleviare la nostra arsura, rafforzare la nostra debolezza, cancellare la nostra iniquità, accendere la nostra carità." 
Sant'Agostino d'Ippona (354 - 430)
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Domenica XXIX t. ord."C" 20-ott-2013 (Angelus 159)

Cari fratelli e sorelle, 
nel Vangelo di oggi Gesù racconta una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi. La protagonista è una vedova che, a forza di supplicare un giudice disonesto, riesce a farsi fare giustizia da lui. E Gesù conclude: se la vedova è riuscita a convincere quel giudice, volete che Dio non ascolti noi, se lo preghiamo con insistenza? L’espressione di Gesù è molto forte: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?» (Lc 18,7). 
“Gridare giorno e notte” verso Dio! Ci colpisce questa immagine della preghiera. Ma chiediamoci: perché Dio vuole questo? Lui non conosce già le nostre necessità? Che senso ha “insistere” con Dio? 
Questa è una buona domanda, che ci fa approfondire un aspetto molto importante della fede: Dio ci invita a pregare con insistenza non perché non sa di che cosa abbiamo bisogno, o perché non ci ascolta. Al contrario, Lui ascolta sempre e conosce tutto di noi, con amore. Nel nostro cammino quotidiano, specialmente nelle difficoltà, nella lotta contro il male fuori e dentro di noi, il Signore non è lontano, è al nostro fianco; noi lottiamo con Lui accanto, e la nostra arma è proprio la preghiera, che ci fa sentire la sua presenza accanto a noi, la sua misericordia, anche il suo aiuto. Ma la lotta contro il male è dura e lunga, richiede pazienza e resistenza – come Mosè, che doveva tenere le braccia alzate per far vincere il suo popolo (cfr Es 17,8-13). E’ così: c’è una lotta da portare avanti ogni giorno; ma Dio è il nostro alleato, la fede in Lui è la nostra forza, e la preghiera è l’espressione di questa fede. Perciò Gesù ci assicura la vittoria, ma alla fine si domanda: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Se si spegne la fede, si spegne la preghiera, e noi camminiamo nel buio, ci smarriamo nel cammino della vita. 
Impariamo dunque dalla vedova del Vangelo a pregare sempre, senza stancarci. Era brava questa vedova! Sapeva lottare per i suoi figli! E penso a tante donne che lottano per la loro famiglia, che pregano, che non si affaticano mai. Un ricordo oggi, tutti noi, a queste donne che col loro atteggiamento ci danno una vera testimonianza di fede, di coraggio, un modello di preghiera. Un ricordo a loro! Pregare sempre, ma non per convincere il Signore a forza di parole! Lui sa meglio di noi di che cosa abbiamo bisogno! Piuttosto la preghiera perseverante è espressione della fede in un Dio che ci chiama a combattere con Lui, ogni giorno, ogni momento, per vincere il male con il bene. 

Dopo l'Angelus 
Cari fratelli e sorelle! 
Oggi ricorre la Giornata Mondiale Missionaria. Qual è la missione della Chiesa? Diffondere nel mondo la fiamma della fede, che Gesù ha acceso nel mondo: la fede in Dio che è Padre, Amore, Misericordia. Il metodo della missione cristiana non è il proselitismo, ma quello della fiamma condivisa che riscalda l’anima. Ringrazio tutti coloro che con la preghiera e l’aiuto concreto sostengono l’opera missionaria, in particolare la sollecitudine del Vescovo di Roma per la diffusione del Vangelo. In questa Giornata siamo vicini a tutti i missionari e le missionarie, che lavorano tanto senza far rumore, e danno la vita. Come l’italiana Afra Martinelli, che ha operato per tanti anni in Nigeria: qualche giorno fa è stata uccisa, per rapina; tutti hanno pianto, cristiani e musulmani. Le volevano bene. Lei ha annunciato il Vangelo con la vita, con l’opera che ha realizzato, un centro di istruzione; così ha diffuso la fiamma della fede, ha combattuto la buona battaglia! Pensiamo a questa sorella nostra, e la salutiamo con un applauso, tutti! 
Penso anche a Stefano Sándor, che ieri è stato proclamato Beato a Budapest. Era un salesiano laico, esemplare nel servizio ai giovani, nell'oratorio e nell'istruzione professionale. Quando il regime comunista chiuse tutte le opere cattoliche, affrontò le persecuzioni con coraggio, e fu ucciso a 39 anni. Ci uniamo al rendimento di grazie della Famiglia salesiana e della Chiesa ungherese. 
Desidero esprimere la mia vicinanza alle popolazioni delle Filippine colpite da un forte terremoto, e vi invito a pregare per quella cara Nazione, che di recente ha subito diverse calamità. 
Saluto con affetto tutti i pellegrini presenti, incominciando dai ragazzi che hanno dato vita alla manifestazione “100 metri di corsa e di fede”, promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura. Grazie, perché ci ricordate che il credente è un atleta dello spirito! Grazie tante! 
Accolgo con gioia i fedeli delle Diocesi di Bologna e di Cesena-Sarsina, guidati dal Cardinale Caffarra e dal Vescovo Regattieri; come pure quelli di Corrientes, in Argentina, e di Maracaibo e Barinas, in Venezuela. E oggi in Argentina si celebra la Festa della mamma, rivolgo un affettuoso saluto alle mamme della mia terra! 
Saluto il gruppo di preghiera “Raio de Luz”, dal Brasile; e le Fraternità dell’Ordine Secolare Trinitario. 
Le parrocchie e le associazioni italiane sono troppe, non posso nominarle, ma saluto e ringrazio tutti con affetto! 
Buona domenica! Arrivederci e buon pranzo!
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giovedì 17 ottobre 2013

Dove sono gli adulti? (Contributi 907)

Il 18 ottobre Mons. Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio riceverà il Premio Cultura Cattolica a Bassano del Grappa. Ecco un articolo tratto da Tempi: 

Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara e Comacchio, riceverà domani il 31esimo premio internazionale Cultura Cattolica a Bassano del Grappa. Un riconoscimento prestigioso, in passato assegnato a Augusto Del Noce, don Divo Barsotti, Joseph Ratzinger, Luigi Giussani, Angelo Scola, Giacomo Biffi, Camillo Ruini e Carlo Caffarra.

Oggi, in un’intervista ad Avvenire, l’arcivescovo Negri spiega che, grazie ai suoi maestri – don Giussani, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI – ha imparato che «una cultura cattolica nasce se c’è maturità nella fede. Una fede matura produce criteri di interpretazione della realtà, capacità di giudizio, di spirito critico. Ecco, io la fede e la cultura le ho vissute così sin dal liceo. Poi questa fede e questa cultura sono state investite dal laicismo e dall'ideologia marxista, così sono entrate in dialettica con queste che sono presto divenute mentalità dominante».
LA MISSIONE E’ LA VITA NELLA FEDE. «Oggi si parla spesso di dialogo fra fede e cultura – dice Negri – e devo dire che sono avvilito perché nei fatti si è affermato un dualismo per cui la fede si vive come esperienza individualistica e soggettiva, mentre la cultura scorre su ritmi propri. In questo modo la cultura cattolica, o quello che ne resta, rischia di rimanere subalterna o di avere bisogno di una certificazione resa altrove. E mi sembra di percepire una difficoltà in tanti cristiani per i quali la cultura è stata ed è frutto di un cammino nella fede».
La scissione tra fede e cultura, prosegue l’arcivescovo, è oggi simile a quella che visse «ai tempi del liceo, quando incontravo professori per i quali un conto era la fede che si vive nel privato, un altro era la cultura che è il frutto delle conoscenze scientifiche». Un errore perché la cultura e la Chiesa «si realizzano insieme nella missione. Adesso però la parola missione rischia di essere rimandata a un’azione di carattere ecclesiale nei confronti di coloro che non conoscono il cristianesimo… Ma la missione è la vita della fede nel mondo in cui siamo, nella testimonianza; è una visione specifica della vita costruita su Cristo e per Cristo. In questo senso non c’è una cultura cattolica senza identità ecclesiale. La presenza e la testimonianza di papa Francesco col suo annunzio fondato su Cristo e aperto all'uomo costituisce sotto i nostri occhi un esempio di evangelizzazione». 
RIFORMA NELLA CHIESA. Parlando poi delle difficoltà a formare nuovi cristiani nelle università e nelle facoltà teologiche («credo che prevalga un po’ di relativismo teorico»), Negri pensa che serva «una riforma culturale nella Chiesa e di conseguenza anche nella formazione. Tutto il resto verrà di conseguenza, anche una rinnovata visione morale, un movimento di vita innescato da una concezione chiara della vita. Don Giussani amava ripetere che non si può riconoscere la verità senza desiderare di viverla, che poi è una frase di Platone».
DOVE SONO I NOSTRI ADULTI? Oggi «esiste un’emergenza educativa», ma questa riguarda «gli adulti, non i giovani. Dove sono i nostri adulti? Sono educatori questi genitori, queste famiglie scombinate con più padri, più madri e una molteplicità di nonni? Sono educatori questi insegnanti…».
Oggi, «in un sistema culturale che non offre alcuna ragione per vivere», che non accetta il «pluralismo culturale» e che fa coincidere lo Stato con il Popolo e la Nazione, occorre «ripartire dal confronto vero, dal dialogo, che come diceva Aristotele, sono le motivazioni della democrazia».
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mercoledì 16 ottobre 2013

Affidarsi a Maria (Contributi 906)

Riporto dal sito de La Bussola questo articolo di Massimo Introvigne 

Il 13 ottobre Papa Francesco ha rinnovato in Piazza San Pietro, di fronte a una grande folla, l'affidamento dell'umanità alla Madonna di Fatima, già compiuto dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005) nel 1982 e 1984 rispondendo alle richieste stesse della Vergine, nel corso di un week-end dell'Anno della fede tutto dedicato alla devozione mariana. Il week-end è stato occasione per un'ampia riflessione sulla Vergine Maria. 
Nella storia della Chiesa gli affidamenti e le consacrazioni alla Madonna non sono mai gesti comuni. Segnalano momenti gravi, svolte della storia. Mettono in contatto, ha detto il Papa nell'omelia di domenica, con un Dio che ci sorprende, ci chiede fedeltà e alla fine si rivela la nostra forza. 
Primo: ci sorprende. Francesco ha commentato l'episodio biblico di Naaman, e lo ha fatto con accenti simili a quelli usati da Benedetto XVI il 15 giugno 2011, quando propose una meditazione sulla sfida fra Elia e i profeti di Baal. Protagonista del brano commentato da Francesco non è Elia, ma il suo discepolo diretto Eliseo. Anche lui, come Elia e a differenza dei sacerdoti pagani del tempo, non fa nessuna magia, nulla di spettacolare. Quando Naaman si ammala di lebbra, Eliseo «non compie riti magici, né gli chiede cose straordinarie, ma solo di fidarsi di Dio e di immergersi nell'acqua del fiume; non però dei grandi fiumi di Damasco, ma del piccolo fiume Giordano». Naaman, confrontando la semplicità di Eliseo con gli elaborati rituali dei sacerdoti pagani, si stupisce: «che Dio può essere quello che chiede qualcosa di così semplice? Vuole tornare indietro, ma poi fa il passo, si immerge nel Giordano e subito guarisce». 
A differenza dei falsi profeti che con grande strepito ci portano ad adorare gli idoli, Dio «è proprio nella povertà, nella debolezza, nell'umiltà che si manifesta». Così avviene con la Vergine Maria: «Dio ci sorprende sempre, rompe i nostri schemi, mette in crisi i nostri progetti, e ci dice: fidati di me, non avere paura, lasciati sorprendere, esci da te stesso e seguimi!». E ognuno di noi può chiedersi: «Mi lascio sorprendere da Dio, come ha fatto Maria, o mi chiudo nelle mie sicurezze, sicurezze materiali, sicurezze intellettuali, sicurezze ideologiche, sicurezze dei miei progetti? Lascio veramente entrare Dio nella mia vita? Come gli rispondo?». 
Secondo: Dio ci chiede fedeltà, ci chiede memoria. San Paolo chiede a Timoteo: «ricordati di Gesù Cristo, se con Lui perseveriamo, con Lui anche regneremo» (cfr 2 Tm 2,8-13). Ecco il secondo aspetto che scorgiamo nel volto di Maria: «ricordarsi sempre di Cristo, la memoria di Gesù Cristo, e questo è perseverare nella fede; Dio ci sorprende con il suo amore, ma chiede fedeltà nel seguirlo». Oggi c'è molta carenza di fedeltà, ha detto il Papa, anche «nelle scelte fondamentali, come quella del matrimonio. La difficoltà di essere costanti, di essere fedeli alle decisioni prese, agli impegni assunti. Spesso è facile dire “sì”, ma poi non si riesce a ripetere questo “sì” ogni giorno. Non si riesce ad essere fedeli». Maria, sempre fedele nelle piccole cose e nelle grandi, ci chiede di domandarci: «sono un cristiano “a singhiozzo”, o sono un cristiano sempre? La cultura del provvisorio, del relativo entra anche nel vivere la fede» e «uccide», ha affermato Francesco. 
Terzo: se però siamo fedeli a Dio, Egli si rivela come la nostra forza. Se capiamo che tutto è dono di Dio, nulla ci può turbare. Dio però apprezza il nostro ringraziamento. Ma oggi è difficile dire grazie a Dio perché sta venendo meno anche l'elementare buona educazione, che per il Papa è tanto importante. «Quante volte ci diciamo grazie in famiglia? È una delle parole chiave della convivenza. “Permesso”, “scusa”, “grazie”: se in una famiglia si dicono queste tre parole, la famiglia va avanti». 
Il week-end dell'Anno della Fede dedicato alla Madonna era iniziato il 12 ottobre 2013 con un incontro - imprevisto e fuori programma, come ha spiegato il Pontefice - tra il Papa e i partecipanti al seminario sul venticinquesimo anniversario della lettera apostolica del beato Giovanni Paolo II «Mulieris dignitatem», del 15 agosto 1988. Francesco aveva già ricordato la straordinaria importanza di questo documento altre volte, e ha tenuto a tornarci sottolineando la nozione, tipica del beato Giovanni Paolo II, dello «speciale affidamento dell’essere umano alla donna». «Tante cose possono cambiare e sono cambiate nell'evoluzione culturale e sociale - ha detto il Papa -, ma rimane il fatto che è la donna che concepisce, porta in grembo e partorisce i figli degli uomini. E questo non è semplicemente un dato biologico, ma comporta una ricchezza di implicazioni», che appunto Papa Wojtyla riassumeva nella nozione di «affidamento». 
Ci sono però, ha detto Francesco, due pericoli da evitare: il primo, «ridurre la maternità ad un ruolo sociale», confinando la donna nel suo solo compito, pure importantissimo, di madre ed evitando di valorizzarla nella vita economica, culturale, politica ed ecclesiale, riducendola a meri ruoli di servizio; il secondo, «promuovere una specie di emancipazione che, per occupare gli spazi sottratti dal maschile, abbandona il femminile». La differenza sessuale non è una prigione, è una ricchezza. E il modo di mantenere questo equilibrio, che evita sia il maschilismo sia il femminismo, è guardare alla «grande donna», la Madonna. 
Chi sia la Madonna è stato ulteriormente approfondito nel corso della veglia mariana in Piazza San Pietro di sabato 12 ottobre, di fronte alla statua della Vergine giunta da Fatima - e già venerata privatamente anche dal Papa emerito Benedetto XVI - e a oltre centomila persone. Papa Francesco ha anzitutto fatto allusione a una sua devozione particolare di cui molti giornalisti avevano parlato, e che aveva sollevato in vasto interesse, quella alla «Madonna che scioglie i nodi», raffigurata in un quadro che si trova nella chiesa di Sankt Peter am Perlach ad Augsburg (Augusta), in Baviera. Il Papa ha ricordato che lo stesso Vaticano II, nella Costituzione dogmatica «Lumen gentium» afferma che «la fede di Maria scioglie il nodo del peccato». E in realtà le origini della devozione sono ancora più antiche: i Padri conciliari «hanno ripreso un’espressione di sant'Ireneo» (130-202), il quale scriveva: «Il nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione con l’obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva aveva legato con la sua incredulità, la vergine Maria l’ha sciolto con la sua fede». 
Ecco di che nodi si tratta: « il “nodo” della disobbedienza, il “nodo” dell’incredulità. Quando un bambino disobbedisce alla mamma o al papà, potremmo dire che si forma un piccolo “nodo"». Succede lo stesso nella nostra relazione con Dio. Quando gli disubbidiamo, «si forma come un nodo nella nostra interiorità. E questi nodi ci tolgono la pace e la serenità. Sono pericolosi, perché da più nodi può venire un groviglio, che è sempre più doloroso e sempre più difficile da sciogliere». Per sciogliere questi nodi, la misericordia di Dio ha affidato un ruolo speciale a Maria, «che con il suo “sì” ha aperto la porta a Dio per sciogliere il nodo dell’antica disobbedienza», e che oggi «con pazienza e tenerezza ci porta a Dio perché Egli sciolga i nodi della nostra anima con la sua misericordia». Non c'è nodo che Maria non possa aiutarci a sciogliere. 
Il popolo cristiano lo sa, ha aggiunto Francesco nel video-messaggio inviato alle veglie di preghiera al Santuario del Divino Amore e in altri dieci santuari mariani del mondo. Sente su di sé lo sguardo di Maria, uno sguardo dolcissimo ma anche esigente, il quale vuole e chiede «che non siamo cristiani “di vetrina”, ma che sanno “sporcarsi le mani” per costruire con il suo Figlio Gesù, il suo Regno». 
Una seconda caratteristica della Madonna sottolineata nella veglia di Piazza San Pietro è che, grazie al suo sì, in lei il Verbo si è fatto carne. Questo naturalmente è avvenuto, ha precisato Francesco, «in modo unico» e irripetibile. Ma, in senso analogico e metaforico, possiamo dire che «quando accogliamo la Parola di Dio» e la osserviamo succede «come se Dio prendesse carne in noi, Egli viene ad abitare in noi, perché prende dimora in coloro che lo amano e osservano la sua Parola. Non è facile capire questo, ma, sì, è facile sentirlo nel cuore». 
Il terzo aspetto che il Papa ha voluto sottolineare nella veglia è «la fede di Maria come cammino»: ancora la «Lumen gentium» afferma che Maria «ha camminato nel pellegrinaggio della fede». «Cammino» significa, molto semplicemente, seguire Gesù. «Progredire nella fede, avanzare in questo pellegrinaggio spirituale che è la fede, non è altro che seguire Gesù; ascoltarlo, lasciarsi guidare dalle sue parole; vedere come Lui si comporta e mettere i nostri piedi nelle sue orme, avere i suoi stessi sentimenti e atteggiamenti». Questo implica «umiltà, misericordia, vicinanza, ma anche fermo rifiuto dell’ipocrisia, della doppiezza, dell’idolatria». Seguire Gesù, come ha fatto Maria, comporta molti dolori: ma finalmente è la più grande esperienza di gioia che ci sia dato vivere su questa Terra. Maria è «la Madre della gioia», e ci guida alla gioia.
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domenica 13 ottobre 2013

Atto di affidamento a Maria di Papa Francesco

Beata Maria Vergine di Fatima, con rinnovata gratitudine per la tua presenza materna uniamo la nostra voce a quella di tutte le generazioni che ti dicono beata. 
Celebriamo in te le grandi opere di Dio, che mai si stanca di chinarsi con misericordia sull'umanità, afflitta dal male e ferita dal peccato, per guarirla e per salvarla. 
Accogli con benevolenza di Madre l’atto di affidamento che oggi facciamo con fiducia, dinanzi a questa tua immagine a noi tanto cara. 
Siamo certi che ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi e che nulla ti è estraneo di tutto ciò che abita nei nostri cuori. 
Ci lasciamo raggiungere dal tuo dolcissimo sguardo e riceviamo la consolante carezza del tuo sorriso. 
Custodisci la nostra vita fra le tue braccia: benedici e rafforza ogni desiderio di bene; ravviva e alimenta la fede; sostieni e illumina la speranza; suscita e anima la carità; guida tutti noi nel cammino della santità. 
Insegnaci il tuo stesso amore di predilezione per i piccoli e i poveri, per gli esclusi e i sofferenti, per i peccatori e gli smarriti di cuore: raduna tutti sotto la tua protezione e tutti consegna al tuo diletto Figlio, il Signore nostro Gesù. 
Amen.

Domenica XXVIII t. ord."C" 13-ott-2013 (Angelus 158)

Cari fratelli e sorelle, 
oggi, a Tarragona, in Spagna, vengono proclamati Beati circa cinquecento martiri, uccisi per la loro fede durante la guerra civile spagnola degli anni Trenta del secolo scorso. Lodiamo il Signore per questi suoi coraggiosi testimoni, e per loro intercessione supplichiamolo di liberare il mondo da ogni violenza. 
Ringrazio tutti voi che siete venuti numerosi da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo per questa festa della fede dedicata a Maria nostra Madre. 
Saludo con afecto al grupo de panameños que se encuentran hoy en Roma y los confío a la protección de Nuestra Señora de la Antigua, celestial patrona de esa querida nación. 
Saluto i bambini dell’Orchestra Internazionale per la Pace “Piccole Impronte”, e l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro. 
Saluto i giovani di Roma che nei giorni scorsi si sono impegnati nella missione “Gesù al centro”: siate sempre missionari del Vangelo, ogni giorno e in ogni luogo! E volentieri rivolgo un saluto anche ai detenuti del carcere di Castrovillari. 
Ed ora preghiamo insieme l’Angelus: Angelus Domini… 
Vi auguro buona domenica, buon pranzo. E arrivederci!
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sabato 12 ottobre 2013

Chi sceglie la parte migliore

Martedì, 8 ottobre 2013
Pregare significa aprire la porta al Signore affinché possa fare qualcosa per risistemare le nostre cose. Il sacerdote che fa il suo dovere, ma non apre la porta al Signore, rischia di diventare solo un “professionista”. Papa Francesco, durante la messa celebrata questa mattina martedì 8 ottobre, nella cappella di Santa Marta, si è soffermato sul valore della preghiera: non quella “a pappagallo” ma quella “fatta con il cuore” che porta «a guardare il Signore, ad ascoltare il Signore, a chiedere al Signore».
La riflessione si è sviluppata a partire dalle letture della liturgia, tratte dal libro di Giona (3, 1-10) e dal Vangelo di Luca (10, 38-42). In particolare, facendo riferimento al brano evangelico il Pontefice ha proposto come modello da seguire l’atteggiamento di Maria, una delle due donne che avevano ospitato Gesù nella loro casa. Maria infatti si ferma ad ascoltare e a guardare il Signore, mentre Marta, la sorella, continua a occuparsi delle faccende di casa.
«La parola del Signore — ha esordito il Papa — è chiara: Maria ha scelto la parte migliore, quella della preghiera, quella della contemplazione di Gesù. Agli occhi della sorella era perdere tempo». Maria si ferma a guardare il Signore come una bambina meravigliata, «invece di lavorare come faceva lei».
L’atteggiamento di Maria è quello giusto perché, ha spiegato il Pontefice, ella «ascoltava il Signore e pregava con il suo cuore». Ecco cosa «vuole dirci il Signore. Il primo compito nella vita è questo: la preghiera. Ma non la preghiera delle parole come i pappagalli, ma la preghiera del cuore», attraverso la quale è possibile «guardare il Signore, ascoltare il Signore, chiedere al Signore. E noi sappiamo che la preghiera fa dei miracoli».
La stessa cosa insegna l’episodio narrato nel libro di Giona: un “testardo” lo ha definito il Santo Padre perché «non voleva fare quello che il Signore gli chiedeva». Solo dopo che il Signore lo ebbe salvato dal ventre di una balena, ha ricordato il Pontefice, Giona si decise: «Signore farò quello che tu dici. E andò per le strade di Ninive» annunciando la sua profezia: la città sarebbe stata distrutta da Dio se i cittadini non avessero cambiato in meglio il loro modo di vivere. Giona «era un profeta “professionista” — ha precisato il vescovo di Roma — e diceva: ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. Lo diceva seriamente, con forza. E questi niniviti si sono spaventati e hanno cominciato a pregare con le parole, con il cuore, con il corpo. La preghiera ha fatto il miracolo».
Anche in questo racconto, ha affermato Papa Francesco, «si vede quello che Gesù dice a Marta: Maria ha scelto la parte migliore. La preghiera fa miracoli, davanti ai problemi» che ci sono nel mondo. Ma ci sono anche quelli che il Papa ha definito «pessimisti». Queste persone «dicono: niente si può cambiare, la vita è così. Mi fa pensare a una canzone triste della mia terra che dice: lasciamo perdere. Laggiù nel forno ci incontreremo tutti».
Certo, ha sottolineato, è una visione «un po’ pessimista della vita» che ci porta a chiederci: «Perché pregare? Ma lascia perdere, la vita è così! Andiamo avanti. Facciamo quello che possiamo». È questo l’atteggiamento avuto da Marta, ha spiegato il Pontefice, la quale «faceva cose, ma non pregava». E poi c’è il comportamento di altri, come quel «testardo Giona». Questi sono «i giustizieri». Giona «andava e profetizzava; ma nel suo cuore diceva: se la meritano, se la meritano, se la sono cercata. Lui profetizzava, ma non pregava, non chiedeva al Signore perdono per loro, soltanto li bastonava». Questi, ha sottolineato il Santo Padre, «si credono giusti». Ma alla fine, come è capitato con Giona, si rivelano degli egoisti.
Giona, per esempio, ha spiegato ancora il Papa, quando Dio ha salvato il popolo di Ninive, «si è arrabbiato con il Signore: ma tu sempre sei così, sempre perdoni!». E «anche noi — ha commentato il Pontefice — quando non preghiamo, quello che facciamo è chiudere la porta al Signore» cosicché «lui non possa fare nulla. Invece la preghiera davanti a un problema, a una situazione difficile, a una calamità, è aprire la porta al Signore, perché venga»: lui, infatti, sa «risistemare le cose».
In conclusione Papa Francesco ha esortato a pensare a Maria, la sorella di Marta, che «ha scelto la parte migliore e ci fa vedere la strada, come si apre la porta al Signore», al re di Ninive «che non era un santo», a tutto il popolo: «Facevano cose brutte. Ma quando hanno pregato, digiunato e hanno aperto la porta al Signore, il Signore ha fatto il miracolo del perdono. E pensiamo a Giona che non pregava, fuggiva da Dio sempre. Profetizzava, era forse un buon “professionista”, possiamo dire oggi un buon prete che faceva i suoi compiti, ma mai apriva la porta al Signore con la preghiera. Chiediamo al Signore che ci aiuti a scegliere sempre la parte migliore».
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Il coraggio della preghiera

Giovedì, 10 ottobre 2013

La nostra preghiera deve essere coraggiosa, non tiepida, se vogliamo non solo ottenere le grazie necessarie ma soprattutto, attraverso essa, conoscere il Signore. Se lo chiediamo, sarà lui stesso a portarci la sua grazia. Papa Francesco questa mattina, 10 ottobre, durante la messa celebrata a Santa Marta, è tornato a parlare della forza e del coraggio della preghiera.
Alla necessità di pregare con insistenza se necessario, ma sempre lasciandosi coinvolgere da essa, richiama il brano liturgico del Vangelo di Luca (11, 5-13) «con questa parabola — ha spiegato il Pontefice — dell’amico invadente, l’amico inopportuno», che a notte fonda va a chiedere a un altro amico del pane per sfamare un conoscente appena giunto in casa sua e al quale non aveva nulla da offrire. «Con questa richiesta — ha notato — l’amico deve alzarsi dal letto e dargli il pane. E Gesù in un’altra occasione ci parla di questo: nella parabola della vedova che andava dal giudice corrotto, il quale non la sentiva, non voleva sentirla; ma lei era tanto importuna, infastidiva tanto, che alla fine, per allontanarla in modo che non le desse troppo fastidio, ha fatto giustizia, quello che lei chiedeva. Questo ci fa pensare alla nostra preghiera. Come preghiamo noi? Preghiamo così per abitudine, pietosamente, ma tranquilli, o ci mettiamo con coraggio davanti al Signore per chiedere la grazia, per chiedere quello per il quale preghiamo?».
L’atteggiamento è importante perché «una preghiera che non sia coraggiosa — ha affermato il Pontefice — non è una vera preghiera». Quando si prega ci vuole «il coraggio di avere fiducia che il Signore ci ascolta, il coraggio di bussare alla porta. Il Signore lo dice, perché chiunque chiede riceve e a chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto».
Ma, si è chiesto il Santo Padre, la nostra preghiera è così? Oppure ci limitiamo a dire: «Signore ho bisogno, fammi la grazia»? In una parola, «ci lasciamo coinvolgere nella preghiera? Sappiamo bussare al cuore di Dio?». Per rispondere il vescovo di Roma è tornato al brano evangelico, alla fine del quale «Gesù ci dice: quale padre tra voi se il figlio gli chiede un pesce gli darà una serpe? O se gli chiede un uovo gli darà uno scorpione? Se voi siete padri darete il bene ai figli. E poi va avanti: se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo... E ci aspettiamo che prosegua dicendo: darà cose buone a voi. Invece no, non dice quello! Darà lo Spirito Santo a quelli che lo chiedono. E questa è una cosa grande».
Perciò «quando noi preghiamo coraggiosamente, il Signore non solo ci dà la grazia, ma ci dà anche se stesso nella grazia». Perché «il Signore — ha spiegato il Papa con un’espressione incisiva — mai dà o invia una grazia per posta: la porta lui, è lui la grazia!».
«Oggi — ha detto in conclusione — nella preghiera, nella colletta, abbiamo detto al Signore di darci quello che anche la preghiera non osa chiedere. E che cosa è quello che noi non osiamo chiedere? Lui stesso! Noi chiediamo una grazia, ma non osiamo dire: vieni tu a portarmela. Sappiamo che una grazia sempre è portata da lui: è lui che viene e ce la dà. Non facciamo la brutta figura di prendere la grazia e non riconoscere che quello che ce la porta, quello che ce la dà, è il Signore».
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