Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

mercoledì 30 aprile 2014

La vita cristiana (Interventi 191)

Ecco una catechesi di Don Vincenzo Carone 

Se non hai ancora puntualizzato bene i principi fondamentali della vita spirituale, pensa che sei inesperto. Un giorno o l’altro prenderai delle decisioni che ti porteranno fuori strada. Il demonio sa bene come deve ingannarti. È capace di farti cadere facilmente negli errori che potrebbero risultare fatali per il tuo destino eterno. Leggi molto la vita e soprattutto le opere scritte dai Santi. Loro, mediante l’ubbidienza fedele alla parola di Dio, hanno interpretato le Scritture nel suo significato autentico. Fai bene la meditazione e trova un padre spirituale. La confessione non è il posto per “sfogare” i disagi psichici che opprimono la tua esistenza. Il confessore deve soltanto chiarire tutti gli aspetti della tua vita spirituale. Impara ad essere umile col confessore e riconosci le tue fragilità, se sei orgoglioso non accetterai mai i suoi consigli. Con una inspiegabile abilità, alcuni penitenti si studiano di portare il confessore a dire quello che essi vogliono che dica loro. La vita spirituale, come la vita umana, appartiene a te, tu devi trovare la soluzione di tutto quello che deve essere in qualche modo risolto. Il confessore se gli fai perdere tempo con argomenti che non sono attinenti alla vita spirituale, non si presenta mai in confessionale. Un sacerdote disse a una signora molto devota della Madonna: lei mi ha detto tutti i peccati di suo marito, mi ha detto i peccati sua suocera, mi ha detto i peccati della sua più cara amica, adesso per favore mi dica i suoi peccati. Se un’anima vuole essere veramente guidata, qualunque sacerdote accetta volentieri l’impegno della paternità spirituale. Devi assolutamente evitare qualsiasi forma di affetto verso il sacerdote, se è un sacerdote vero, appena se ne accorge, ti caccia via. Vai dal confessore come quando vai dal medico: attieniti ai consigli di cui hai bisogno. Non devi pretendere da lui l’affetto che non ti viene ricambiato dalla persona che ami. 
Dopo tanti discorsi che il Papa ha fatto al mondo, non è poi tanto difficile trovare sacerdoti disposti a sedere in confessionale. È difficile invece trovare penitenti che vanno esclusivamente per riconciliarsi con Dio, ed essere guidati sulla via della fede. Evita di ripetere l’esperienza di Adamo ed Eva: non ascoltarono Dio che li aveva avvertiti. È un segno di grande insensibilità rifiutare la lezione impartita dalla esperienza propria e degli altri. “in Paradiso non ci sarà matrimonio tra un uomo e una donna, disse Gesù, tutti saranno come gli Angeli del Cielo” Gesù Risorto ti ha redento da ogni forma di male e intende uguagliarti agli Angeli. Forse non ci pensi mai, eppure è vero che Colui il quale ha fatto il Cielo e la terra, ha creato te a sua immagine e somiglianza. Quando tu hai incominciato a camminare sulla strada sbagliata, Gesù Risorto ti è venuto incontro con la promessa della salvezza. 
La tua volontà di cambiare vita, gli ha dato la possibilità di restaurare tutti i guasti che tu hai fatto nel corso di tanti anni. Gesù ti vuole portare a realizzare quel progetto di perfezione che il Padre suo vuole per te. La tua collaborazione libera e generosa, gli è assolutamente necessaria. 
La tua volontà quindi deve diventare la strada per la quale devi camminare guidato dalla parola di Dio. 
Gesù Risorto ti guarisce volentieri, ma è necessario che voglia essere guarito. Gesù guarisce qualsiasi peccatore che non rifiuta la guarigione. Tu hai a portata di mano la salvezza eterna, perché dipende soltanto dalla tua volontà. Gesù Risorto si è fatto pane affinché dal Cielo possa venire dentro di te. Vai a prendere la Comunione per chiedergli perdono delle infedeltà, ingratitudini e oltraggi commessi da te e dagli altri. Non restare mai solo davanti a Lui, devi pregare sempre per te e per gli altri. Se esci fuori da questo schema, il Sacrificio della Croce che sull’altare si rende presente ed efficace per la nostra salvezza, diventa per te l’occasione affascinante per saldare l’amicizia con i partecipanti alla Messa, con canti e preghiere che suscitano forti emozioni. In quelle circostante vengono dette parole che fanno tremare il cuore dalla commozione, espressioni che incantano e creano la sensazione di aver sperimentato l’Amore e i doni dello Spirito Santo. Gesù non ha istituito il Sacramento della Eucarestia per dare a noi le sensazioni forti. La Messa va ascoltata nel silenzio del cuore, e nella meditazione della Passione, Morte e Risurrezione del Signore. Non è quello il posto della chitarra e delle danze attorno all’altare. L’Eucarestia infatti dona quella vita divina che ci consente di restaurare tutti i guasti che abbiamo provocato con i nostri peccati. È vero che Gesù è il Dio della gioia. È anche vero però che la gioia di cui la Chiesa parla, è una gioia profondamente spirituale che viene dal dono della salvezza, frutto del dolore della Morte e Risurrezione di Cristo e delle lacrime di Maria. Quel dolore e quelle lacrime si rendono presenti sull’altare. 
Durante la Messa noi tutti, mediante la fede, siamo presenti sul Calvario. La gioia nasce dalla preghiera fiduciosa, dai buoni propositi e da una profonda meditazione del Mistero della passione, Morte e Risurrezione del Signore. La musica, i canti, i balli e le emozioni forti suscitate da parole abilmente studiate per l’occasione, danno una gioia umana che viene dal sentirsi felici di stare insieme. 
La gioia che viene dall’Eucaristia nasce dalla volontà di cambiare vita, perché Gesù Risorto ci ha perdonato e vuole camminare con noi. Durante la Messa devi pensare a tutta la fatica che devi affrontare per liberarti dalle conseguenze dei peccati che hai commesso. A volte devi ricominciare daccapo, perché devi sempre fare i conti con le tue fragilità. Quando pensi che sei fragile e incapace a compiere la ricostruzione di tutto quello che è crollato nella tua vita cristiana, ti assicuro che non avrai la voglia di ballare e battere le mani davanti all’altare. 
Il Sacrificio del Figlio di Dio che si rinnova sull’altare è la sola riparazione possibile dei peccati del mondo e dei peccati di ciascuno che assiste alla Messa. Gesù ti propone una relazione di amore che per te è possibile soltanto quando la tua vita diventerà quella che Lui vuole da te. 
Don Vincenzo Carone
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martedì 29 aprile 2014

La santità è la chiave della continuità (Contributi 958)

Un articolo di Riccardo Cascioli da La Bussola 

«Sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa». Questo passaggio di papa Francesco nell'omelia della messa di canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, può apparire scontato e perfino banale, ma in realtà è la chiave per capire ciò che unisce personalità tanto diverse e in che senso si parla di continuità, concetto su cui si dilunga giustamente Massimo Introvigne nell'articolo odierno
La continuità di cui parliamo a proposito della Chiesa non ha infatti niente a che vedere con la “linea” di un partito o con le “tradizioni” di una tribù, ma è la fedeltà all'origine, cioè a Cristo. Il santo è definito proprio dall’adesione a Cristo, dall’immedesimazione con Lui, dal conformarsi a Lui: «Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me», dice San Paolo (Gal 2,20). Non è dunque un modello di perfezione, fosse pure morale, né una sorta di superuomo che fa tutte le cose giuste, ma un uomo vero la cui vita è dominata dal desiderio di Cristo. «Il santo è un uomo vero – diceva don Luigi Giussani – perché aderisce a Dio e quindi all'ideale per cui è stato costruito il suo cuore, e di cui è costituito il suo destino». 
Per questo si può fare una festa unica e parlare di continuità per due personalità così diverse, che hanno anche avuto storie personali ed ecclesiali molto diverse e con approcci pastorali altrettanto diversi. E il discorso dei due Papi può allargarsi a tutta la storia della Chiesa. La continuità di duemila anni di storia sta in questo incessante ritorno all'origine scandito dal fiorire della santità. 
Anche nell'Antico Testamento tutto il dramma del popolo ebraico è in questo allontanarsi e ritornare a Dio, all'origine. Così la storia della Chiesa: nei periodi di crisi sono i santi che “riformano” Chiesa e ordini religiosi. E la riforma consiste sempre in questo ritorno a Cristo, nell'adesione totale a Lui, anche se questa poi si manifesta in forme diverse, attraverso temperamenti diversi, con valutazioni storiche anche diverse. 
E’ anche ciò che rende affascinante la santità, e lo si vedeva dal milione e più di persone che ieri erano in piazza San Pietro e dintorni e che già dai giorni precedenti aveva invaso Roma e soprattutto le sue chiese. Non si era a celebrare delle star lontane dalla nostra vita quotidiana, ma uomini che avevano portato a compimento nella loro vita ciò per cui ognuno di noi è fatto, ciò a cui ognuno di noi si sente chiamato. Peraltro, proprio quella folla sta a dirci che la santità smuove il mondo, non è un fatto che si consuma al chiuso, ma esplode e genera un grande movimento. 
La santità è per tutti, e i santi come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II non sono anzitutto dei modelli ma dei compagni di strada, delle guide che ci sostengono nel cammino comune verso il compimento del destino. Amici che possiamo pregare perché il nostro cuore non si perda. 
Se nella società intorno a noi vediamo lo sfacelo, e anche nella Chiesa vediamo spesso trionfare la confusione quando non il tradimento, a maggior ragione non è il momento di perdersi in inutili intellettualismi o in guerre ideologiche, ma è il momento di chiedere con più forza la nostra conversione e il desiderio profondo di appartenere a Cristo.
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Il mio ricordo di san Giovanni Paolo II (Contributi 957)

Ecco un articolo/testimonianza di Massimo Camisasca, Arcivescovo di Reggio Emilia-Guastalla, tratto dal sito della Fraternità San Carlo:

Dopo il breve e provvidenziale mese in cui Giovanni Paolo I aprì la strada al passaggio, l’elezione di Giovanni Paolo II rappresentò subito un’aria nuova che entrava nella Chiesa. Egli non pensò di affrontare uno per uno i problemi che la Chiesa si trovava davanti per risolverli, ma partì da un punto sintetico: offrì attraverso la sua persona e le sue parole una fede che esaltava e non deprimeva l’umano. Ecco, la fede proposta come esaltazione dell’umano: questo è il cuore della riforma di Giovanni Paolo II. «Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!», fu una delle espressioni più ripetute all’inizio del suo pontificato.
Le sue doti umane
La caratteristica che ha colpito innanzitutto, anche se non la più profonda, era la poliedricità di quest’uomo. In lui si raccoglievano un insieme di doti umane straordinarie. Egli era tante cose in uno: era un poeta, usava un linguaggio poetico. Era un attore, e come un attore coglieva i drammi e il significato profondo delle vicende, si immedesimava facilmente con l’altro. Era un lavoratore, un uomo che aveva un forte senso della sacralità del tempo, che si preparava da lontano agli appuntamenti e non sprecava un attimo della sua giornata. Era un grande amante della vita: amava sciare, la natura, le montagne.
La sua realtà di poeta, di sportivo, di attore, di sacerdote che aveva attraversato il nazismo e il comunismo, venne a poco a poco conosciuta dalla gente. Egli non ostentava nessuna di queste sue doti, ma il tono della sua voce, i suoi gesti, la sicurezza della sua parola, trasmettevano una positività che sembrava essersi smarrita nella Chiesa. Ai dubbi, alle depressioni, alle incertezze, alle sudditanze al mondo, Wojtyła d’un colpo sostituiva ideali, traguardi, compiti, orizzonti nuovi e creativi. Nessuna tracotanza, nessuna apologia smodata. Ma l’esperienza viva di un’umanità realizzata nella sequela di Cristo. Niente di clericale in lui: il centro era posto sulla bellezza della vita familiare, sulla perennità e la giovinezza della fede, sull’apertura dei sistemi politici ed economici alle verità vivificanti del cristianesimo. Anche la riaffermazione del celibato ecclesiastico, della virtù dell’obbedienza, della necessità di vivere in modo autentico la liturgia, non era mai sottolineata come adesione chiusa a delle regole, ma come strada per una realizzazione della vita personale.
Come tutti i profeti, aveva un’alta considerazione del proprio compito, ma senza mai cadere in un’autoesaltazione, senza un briciolo di superbia. Amava la crescita di coloro che erano con lui, talvolta anche correndo il rischio di non vederne i difetti e i limiti.
La drammaticità della storia
Si vedeva come uno strumento nelle mani di Dio. Uno strumento chiamato a realizzare qualcosa di decisivo sul quadrante della storia del mondo. Nel suo dialogo interiore con Dio scopriva il suo compito storico, ma ne era sempre completamente libero. Alla sua missione era stato introdotto da molti eventi. Era un uomo che sapeva benissimo quali guerre si combattessero intorno a lui, ma non era mai piegato su di sé. Non teneva diari. Non sentiva il bisogno di parlare con sé stesso: parlava con Dio e con gli uomini. Non era portato dall’abito, ma lui portava quell’abito. Aveva un profondo rispetto degli altri, della curia, ma non era assolutamente determinato da essa. Da qui viene anche la sua considerazione della drammaticità positiva della storia. Egli avvertiva la storia come un campo di battaglia tra Dio e il demonio. Questo è il tema più frequente anche nei miei appunti dopo gli incontri con lui. Nell’attentato egli ha visto un atto di guerra del diavolo contro Dio. Aveva uno sguardo apocalittico, drammatico e insieme positivo, pacificato, anche nei tempi più terribili, come lo stato d’assedio in Polonia. Sapeva che la caduta del socialismo in Polonia avrebbe significato la caduta dell’Unione sovietica. La sua visione della storia era di amplissimo respiro. Lui si sentiva attore di questa storia, ma il protagonista era Dio.
Un rapporto diretto con la gente
La realtà dei suoi numerosi viaggi va compresa all’interno di questa logica apocalittica, di un compito urgente, improcrastinabile: annunciare Cristo a tutti i popoli. Essere dovunque per essere veramente a Roma.
Nella giovinezza aveva vissuto molto poveramente, aveva sempre dato i suoi abiti nuovi a chi ne mancava. Diventato papa conobbe le tavole dei grandi del mondo. Non fu per nulla strano per lui mettersi a viaggiare. Non ritenne troppo costosi quei viaggi, come gli veniva rimproverato da alcuni. Rispondeva: «Siamo stati comperati a caro prezzo» (Cfr. 1Cor 6, 20), ripetendo le parole di san Paolo. Scelse la strada del rapporto diretto con la gente, per comunicare a milioni di persone quel sentimento di sé come persona voluta e amata da Cristo, scelta per un’opera grande. In essa voleva fare entrare ogni uomo della terra.
Proprio perché preoccupato di mostrare la positività della sintesi cristiana, dedicò molte delle sue energie al laicato. Giovanni Paolo II fece dei movimenti laicali l’asse portante del suo pontificato. Questo spostamento di accento, forse, è il segno più profondo della riforma operata dal santo papa Wojtyła.
La malattia
La vera riforma che egli operò fu nella sintesi della vita cristiana che egli offrì a tutti gli uomini, nell’ideale alto e umano che egli presentò con la sua stessa persona. Tutto ciò apparve ancor più chiaramente nell’ultimo decennio della sua vita, segnato profondamente dalla malattia. Può essere quasi scontato affermare che il cristianesimo sia la realizzazione dell’uomo quando si è forti, felici, in salute. Giovanni Paolo II affermò questa positività anche negli anni del dolore e della solitudine. E le folle lo capirono e lo cercarono anche quando non aveva più la presenza scenica o la parola dei primi anni. Accorsero sempre più numerose, come apparve chiaramente durante i suoi funerali.
In Giovanni Paolo II appaiono così i diversi volti dell’unica vita cristiana: egli ci ha insegnato a riferirci a Dio e a ringraziarlo nei giorni della vigoria, nei tempi in cui le forze fisiche e spirituali sono nella loro pienezza. Ma ci è stato maestro anche nel portare i pesi delle molte malattie con umorismo e leggerezza. Senza gli ultimi anni la sua testimonianza sarebbe apparsa nel tempo quasi incompleta. Egli invece ha condiviso tutti i diversi aspetti dell’esistenza e ci ha mostrato come il Vangelo sia una luce per i tempi favorevoli e per quelli avversi. La prima parte del suo pontificato lo ha fatto ammirare, l’ultima lo ha fatto amare. Egli è stato certamente, insieme a san Giovanni XXIII, il papa più amato del Novecento.
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lunedì 28 aprile 2014

Domenica 2^ di Pasqua o della Divina Misericordia (Angelus 190)

Cari fratelli e sorelle,
prima di concludere questa festa della fede, desidero salutare e ringraziare tutti voi!
Ringrazio i fratelli Cardinali e i numerosissimi Vescovi e sacerdoti di ogni parte del mondo.
La mia riconoscenza va alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi, venute per rendere omaggio a due Pontefici che hanno contribuito in maniera indelebile alla causa dello sviluppo dei popoli e della pace. Uno speciale ringraziamento va alle Autorità italiane per la preziosa collaborazione.
Con grande affetto saluto i pellegrini delle Diocesi di Bergamo e di Cracovia! Carissimi, onorate la memoria dei due santi Papi seguendo fedelmente i loro insegnamenti.
Sono grato a tutti coloro che con grande generosità hanno preparato queste giornate memorabili: la Diocesi di Roma con il Cardinale Vallini, il Comune di Roma con il Sindaco Ignazio Marino, le forze dell’ordine e le varie Organizzazioni, le Associazioni e i numerosi volontari. Grazie a tutti!
Il mio saluto va a tutti i pellegrini - qui in Piazza San Pietro, nelle strade adiacenti e in altri luoghi di Roma -; come pure a quanti sono uniti a noi mediante la radio e la televisione; e grazie ai dirigenti e agli operatori dei media, che hanno dato a tante persone la possibilità di partecipare. Ai malati e agli anziani, verso i quali i nuovi Santi erano particolarmente vicini, giunga uno speciale saluto.
Ed ora ci rivolgiamo in preghiera alla Vergine Maria, che san Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II hanno amato come suoi veri figli.
Regina caeli…
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Omelia di Papa Francesco alla S.Messa di canonizzazione di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII

Al centro di questa domenica che conclude l’Ottava di Pasqua, e che san Giovanni Paolo II ha voluto intitolare alla Divina Misericordia, ci sono le piaghe gloriose di Gesù risorto.
Egli le mostrò già la prima volta in cui apparve agli Apostoli, la sera stessa del giorno dopo il sabato, il giorno della Risurrezione. Ma quella sera, come abbiamo sentito, non c’era Tommaso; e quando gli altri gli dissero che avevano visto il Signore, lui rispose che se non avesse visto e toccato quelle ferite, non avrebbe creduto. Otto giorni dopo, Gesù apparve di nuovo nel cenacolo, in mezzo ai discepoli: c’era anche Tommaso; si rivolse a lui e lo invitò a toccare le sue piaghe. E allora quell’uomo sincero, quell’uomo abituato a verificare di persona, si inginocchiò davanti a Gesù e disse: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
Le piaghe di Gesù sono scandalo per la fede, ma sono anche la verifica della fede. Per questo nel corpo di Cristo risorto le piaghe non scompaiono, rimangono, perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà. San Pietro, riprendendo Isaia, scrive ai cristiani: «Dalle sue piaghe siete stati guariti» (1 Pt 2,24; cfr Is 53,5).
San Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, di toccare le sue mani piagate e il suo costato trafitto. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di Lui, della sua croce; non hanno avuto vergogna della carne del fratello (cfr Is 58,7), perché in ogni persona sofferente vedevano Gesù. Sono stati due uomini coraggiosi, pieni della parresia dello Spirito Santo, e hanno dato testimonianza alla Chiesa e al mondo della bontà di Dio, della sua misericordia.
Sono stati sacerdoti, e vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio che si manifesta in queste cinque piaghe; più forte era la vicinanza materna di Maria.
In questi due uomini contemplativi delle piaghe di Cristo e testimoni della sua misericordia dimorava «una speranza viva», insieme con una «gioia indicibile e gloriosa» (1 Pt 1,3.8). La speranza e la gioia che Cristo risorto dà ai suoi discepoli, e delle quali nulla e nessuno può privarli. La speranza e la gioia pasquali, passate attraverso il crogiolo della spogliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino alla nausea per l’amarezza di quel calice. Queste sono la speranza e la gioia che i due santi Papi hanno ricevuto in dono dal Signore risorto e a loro volta hanno donato in abbondanza al Popolo di Dio, ricevendone eterna riconoscenza.
Questa speranza e questa gioia si respiravano nella prima comunità dei credenti, a Gerusalemme, di cui parlano gli Atti degli Apostoli (cfr 2,42-47), che abbiamo ascoltato nella seconda Lettura. E’ una comunità in cui si vive l’essenziale del Vangelo, vale a dire l’amore, la misericordia, in semplicità e fraternità.
E questa è l’immagine di Chiesa che il Concilio Vaticano II ha tenuto davanti a sé.Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa. Nella convocazione del Concilio san Giovanni XXIII ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; per questo a me piace pensarlo come il Papa della docilità allo Spirito Santo.
In questo servizio al Popolo di Dio, san Giovanni Paolo II è stato il Papa della famiglia. Così lui stesso, una volta, disse che avrebbe voluto essere ricordato, come il Papa della famiglia. Mi piace sottolinearlo mentre stiamo vivendo un cammino sinodale sulla famiglia e con le famiglie, un cammino che sicuramente dal Cielo lui accompagna e sostiene.
Che entrambi questi nuovi santi Pastori del Popolo di Dio intercedano per la Chiesa affinché, durante questi due anni di cammino sinodale, sia docile allo Spirito Santo nel servizio pastorale alla famiglia. Che entrambi ci insegnino a non scandalizzarci delle piaghe di Cristo, ad addentrarci nel mistero della misericordia divina che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama.
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venerdì 25 aprile 2014

Giovanni Paolo II, un ponte tra Cristo e il cuore dell'uomo (Contributi 956)

Ecco un articolo di Mons. Luigi Negri (Arcivescovo di Ferrara-Comacchio) da La Bussola:


E’ con profonda commozione e con grande gratitudine a Dio che riviviamo la grande testimonianza cristiana di magistero, di affezione agli uomini e al loro destino che si sintetizza nell'immagine dei 27 anni di pontificato del beato Giovanni Paolo II.
Si è presentato sulla scena del mondo con un amore incondizionato a Cristo presente nella Chiesa, un mistero di umiliazione che è diventato l’unica e reale possibilità di recupero dell’uomo e della sua dignità. Ma allo stesso tempo ha avuto una acutissima compassione dell’esperienza dell’umanità in quel triste passaggio dal secondo al terzo millennio che per la sua presenza e per il suo insegnamento sono stati un kairòs: una situazione eccezionale offerta da Dio alla fede dei cristiani, e offerta agli uomini nella temperie di una crisi della modernità che si era andata compiendo in modo inesorabile.

Giovanni Paolo II si è trovato di fronte al compito di dare una formulazione dell’incontro tra Cristo e il cuore dell’uomo. Questa fu la sua intuizione: la presenza della fede nel mondo non ha ragioni esclusivamente teologiche, ha ragioni profondamente antropologiche. L’affermazione della presenza di Dio in Cristo è la strada lungo la quale l'uomo Cristo rivela profondamente la sua verità e insieme insegna la verità di ogni uomo che vive in questo mondo.

A riaprire il dialogo fra Cristo e il cuore dell’uomo è il cuore annichilito ma non distrutto dalle grandi tragedie del totalitarismo moderno contemporaneo. Giovanni Paolo II ebbe la capacità di scoprire questo livello profondo della vita umana nella storia, quella tensione inesorabile dell’uomo verso il compimento della sua esperienza umana. Egli condivideva con Pascal la certezza che l’uomo supera infinitamente l’uomo.
A quest’uomo cominciò a parlare. E cominciò a parlare nella concretezza della sua esistenzialità quotidiana, andando oltre ogni formulazione ideologica, ogni tentazione umanistica, ogni tentazione di ridurre la vita umana a un problema di giustizia sociale, economica e politica. Ha parlato all’uomo scendendo con lui nelle profondità di quel cuore umano su cui l’insegnamento conciliare ha scritto pagine di straordinaria profondità che hanno trovato il loro radicale compimento teorico e pratico nelle grandi pagine della Redemptor Hominis, il grande manifesto programmatico del cristianesimo del Terzo millennio.
In Cristo l’uomo ritorna ad essere di Dio e per Dio. E mentre torna ad essere di Dio e per Dio si rivela in maniera adeguata quell’impegno antropologico che fa grande l’esperienza umana sulla terra. Solo nel mistero di Cristo e della Chiesa l’uomo è introdotto a comprendere e sperimentare quella antropologia adeguata che si è definitivamente compiuta nella Passione, nella Morte e nella Resurrezione di Gesù di Nazaret.
Quest’uomo, le cui radici sono nel mistero di Cristo, realizza la propria vocazione umana sulla Terra, nella concretezza, addirittura nella lacerazione, di una esperienza umana che senza Cristo rimane incomprensibile a se stessa. Come afferma il numero 10 della Redemptor Hominis: «L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente». 
Da qui la preoccupazione di rilanciare in maniera adeguata il mistero del matrimonio e il suo compimento nel matrimonio cristiano. La preoccupazione di insegnare agli uomini e ai cristiani una corretta grammatica dell’affezione, della sessualità, una corretta grammatica di quella paternità e maternità consapevoli e responsabili nella quale l’uomo esercita sulla terra il compito di reale e fondamentale collaborazione al mistero di Dio che genera ogni giorno figli all’umanità e alla Chiesa.
Il magistero di Giovanni Paolo II era sull’uomo, sul matrimonio, sulla sacralità della vita, sulla responsabilità della paternità e della maternità, sulla vocazione a realizzare nel mondo quel matrimonio cristiano che - come ricordava don Luigi Giussani in una delle sue ultime interviste - è la cosa più alta cui l’uomo possa accedere sulla terra, reale immagine ed esperienza della Trinità nel cuore dell’uomo e nei rapporti che caratterizzano la sua vita, personale e sociale.
La Chiesa riscoprì la grandezza dell’essere famiglia, famiglia di Dio per l’uomo, e la famiglia riscoprì la grandezza di essere Chiesa, di essere esperienza viva di quella comunione con Cristo e fra i fratelli che costituisce la novità della vita cristiana, cioè della vita umana redenta.
L’insegnamento sull’uomo, sulla sua vocazione matrimoniale si è articolato poi nella grande lezione della dottrina sociale, in cui l’identità dell’uomo e la sua dignità vennero insegnati nel concreto esercizio di quei fondamentali diritti umani che solo la fede cristiana rivela adeguatamente e solo l’educazione ecclesiale rende esperienza di vita nuova nel mondo.
La Veritatis Splendor, l’Evangelium Vitae, la Fides et Ratio, la Laborem Exercens, la Centesimus Annus, tutto il corpo delle encicliche sociali del Papa Giovanni Paolo II hanno ampiamente insegnato la responsabilità del cristiano e della Chiesa a calarsi dentro la storia e a costruire dentro la storia la novità umana e cristiana che il papa definì «la Civiltà della verità e dell’amore».
Rispondendo alle mie condoglianze il giorno della morte del beato Giovanni Paolo II, l’allora segretario del Papa e oggi cardinale Stanislao Dziwisz mi disse: «Giovanni Paolo II ha insegnato ai cristiani ad essere autenticamente cristiani, agli uomini ad essere uomini di buona volontà, aperti al Mistero che non escludono più dall’ambito della loro vita ma verso il quale anche misteriosamente muovono i passi in attesa dell’incontro gratificante e pacificante con il mistero di Dio che in Cristo si è fatto presenza umana, storica».
I 27 anni del pontificato di Giovanni Paolo II hanno chiuso in maniera irreversibile ogni tentazione di dualismo, estrema conseguenza del grande sbandamento del modernismo all’inizio del secolo XX. La fede genera nel cuore dell’uomo una cultura adeguata, consente la conoscenza profonda del mistero di Dio, del mistero dell’uomo nella realtà della storia, del loro reciproco connettersi ed articolarsi. Il cristiano di Giovanni Paolo II è un cristiano che è consapevole della grazia che gli è stata fatta, e che vive la fede non solo per se stesso ma per il mondo. Ecco la grande intuizione per cui la missione costituisce – come ebbe a definirla nei primi anni ’80 – l’identità e il movimento della Chiesa. La Chiesa non fa la missione come una delle possibili azioni, la Chiesa è missione, la Chiesa si autorealizza nella missione, perché nella missione la Chiesa diventa sempre più se stessa, «la fede si irrobustisce donandola», scrisse nella Redemptoris Missio.
La canonizzazione di Giovanni Paolo II è l’acquisizione definitiva nella Chiesa, di fronte a Dio e di fronte all’umanità, di un cammino cristiano e umano del quale tutto ciò che era stato operato contro Dio è stato inesorabilmente giudicato. Tutto ciò che era tensione al mistero di Dio è stato valorizzato, ma soprattutto è stata testimoniata la pienezza della fede, le condizioni della pienezza di libertà e di umanità per cui la redenzione è l’unica autentica possibilità di una antropologia adeguata, di una storia compiutamente vissuta, di una attesa piena di sacrificio e di letizia per l’instaurarsi di quel regno di Dio che nel mistero della Chiesa viene continuamente riproposto e autenticamente iniziato, portato di generazione in generazione verso il suo compimento. «Quel regno celesto – come diceva Iacopone da Todi – che compie omne festo che il cuore ha  bramato».
I cristiani che hanno seguito il Magistero e la testimonianza del Papa, hanno recuperato il senso del proprio essere uomini nuovi nel mondo, destinati proprio da questa novità a praticarla autenticamente e a comunicarla irresistibilmente, perché ogni uomo che incontra la testimonianza della Chiesa di Cristo, la testimonianza che ogni cristiano è chiamato a dare, possa se vuole accettare di inserire anche lui la sua vita e la sua libertà nel grande mistero della Chiesa in cui Cristo è continuamente presente, incontra l’uomo, riempie la sua vita di una proposta irresistibile. Soprattutto lo accompagna in quella azione educativa per cui le parole, le grandi parole della Chiesa, diventano carne e sangue, diventano esperienza reale, diventano una irresistibile fede in Dio e passione per ogni uomo che viene a questo mondo.
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lunedì 21 aprile 2014

La lettera d'amore per te scritta col sangue (Contributi 955)

Vi propongo questo articolo di Antonio Socci dal suo sito Lo Straniero per poter meglio comprendere l'immane sacrificio di Gesù e la prova certa della Sua Resurrezione

Il 9 aprile scorso, durante l’Udienza generale in Piazza San Pietro, una persona dalla folla ha gridato verso il Pontefice: “Papa Francesco, sei unico!”. Il Santo Padre gli ha risposto: “Anche tu, anche tu sei unico. Non ci sono due come te”. 
Con quella semplice battuta ha espresso una verità immensa, che caratterizza il cristianesimo. Infatti per il mondo il singolo è solo un numero, sostituibile con tanti altri, cioè sacrificabile al potere. 
Le ideologie moderne poi considerano come protagonisti della storia dei soggetti collettivi (la Razza, la Classe, la Nazione, l’Umanità) o entità astratte come il Mercato, il Capitale, il Partito e lo Stato. 

RIVOLUZIONE 
Invece con l’avvenimento cristiano accade qualcosa di rivoluzionario: l’unico Dio che scende sulla terra e ha pietà di ogni singola persona, specie del miserabile, del peccatore incallito, del malato, di ciascun uomo. 
Per compassione il Figlio di Dio lo abbraccia, lo risana, lo perdona, addirittura si inginocchia davanti a lui e gli lava i piedi (ovvero fa quello che facevano gli schiavi agli ospiti). Fino a morire per lui, per quel singolo essere (insignificante per il mondo). 
Davvero una rivoluzione, un totale capovolgimento dell’ordine costituito da millenni, da sempre basato sui sacrifici umani, in molte forme (a partire dallo schiavismo, fondamento delle economie antiche). 
Lo colse bene il più fiero avversario moderno del Nazareno, ovvero Friedrich Nietzsche che scrisse: “L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare, ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani… La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie – è dura, è piena di autosuperamento, perché abbisogna del sacrificio dell’uomo. E questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo, vuole giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato”. 
Noi neanche più ce ne rendiamo conto. Ma il cristianesimo è entrato nel mondo proclamando la fine di tutti i sacrifici umani. In quale modo lo ha fatto? Col sacrificio del Figlio di Dio. L’editto di liberazione è scritto sulla sua stessa carne. 
Lo ha spiegato il filosofo René Girard: Gesù è letteralmente “l’Agnello di Dio” (il capro espiatorio) che si offre in olocausto affinché tutti vengano liberati dalla schiavitù del male e nessun essere umano venga più sacrificato agli dèi della menzogna e della morte. 
Ma – attenzione – ancora una volta Gesù non si offre a quella morte orrenda per un’astratta Umanità, bensì per ogni singolo, per me che scrivo questo articolo, per te che leggi. 
La dottrina cattolica è arrivata ad affermare che, agli occhi di Dio, la salvezza di un singolo essere umano vale più dell’intero creato. 
E la mistica ci ha fatto scoprire che – in un modo misterioso – in quelle ore di atroci sofferenze Gesù pensò proprio a ognuno di noi, nome per nome, ai nostri volti. Uno per uno. Fa impressione accostare questa rivelazione dei mistici alle fasi del supplizio di Gesù.
La Sindone ci dà la perfetta immagine fisica di quelle atroci torture che il Vangelo elenca in modo scarno, quasi freddo. Vediamole. 

LETTERA DI SANGUE 
Le tante tumefazioni sul volto sono i segni dei pugni sopportati (con gli sputi e gli insulti) nelle fasi concitate dell’arresto. Però il naso rotto, l’occhio gonfio e i sopraccigli feriti (evidenti sulla Sindone) sono anche la traccia della bastonata in faccia subita da Gesù durante l’interrogatorio del Sinedrio (Gv 18, 22-23). 
Poi c’è quell’inedita macellazione dei 120 colpi di flagello romano (a tre punte) che gli hanno devastato tutto il corpo strappandogli la carne in più di trecento punti (un supplizio del tutto anomalo anche per i crocifissi). 
Ma una delle cose più dolorose per Gesù è il peso ruvido della traversa della croce che, lungo il tragitto del Calvario, letteralmente gli scopre le ossa delle spalle provocando sofferenze indicibili. 
Poi Gesù avrà la testa trafitta da circa 50 lunghe spine (la corona beffarda dei soldati romani), qualcosa che non è umanamente sopportabile. 
Ma la Sindone mostra anche ferite al volto e alle ginocchia dovute alle cadute mentre andava al Calvario (avendo le braccia legate alla traversa della Croce, non poteva ripararsi la faccia). 
Infine le ferite dei chiodi, per la crocifissione, e le ore trascorse a respirare dovendosi appoggiare proprio sugli arti inchiodati. 
Bisognerebbe fissare una per una queste atroci sofferenze ricordando che in quel momento Gesù pensava a me e a te, sopportava tutto per me e te, al posto mio e tuo, perché non fossimo sacrificati alle crudeli divinità delle tenebre. 

SCOPERTE RECENTI  
In questi giorni si è saputo che un'équipe di studiosi veneti, lavorando sulla Sindone, ha scoperto altri particolari impressionanti. 
I ricercatori Matteo Bevilacqua, direttore del reparto di Fisiopatologia Respiratoria dell’Ospedale di Padova e Raffaele De Caro, direttore dell’Istituto di Anatomia Normale dell’Università di Padova, hanno lavorato insieme con Giulio Fanti, professore del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Ateneo padovano che già in passato ha pubblicato studi sulla Sindone che ne accreditano l’antichità. 
Dunque questi specialisti hanno provato a riprodurre ciò che fu inflitto all'uomo della Sindone: la simulazione ha comportato due anni di lavoro.  
Hanno concluso che le mani del crocifisso probabilmente furono bucate dai chiodi due volte, evidentemente perché non si riusciva a fissarle ai solchi già prefissati sulla croce. 
“Per i piedi invece la situazione cambia”, spiega Bevilacqua (le sue dichiarazioni sono riportate dal Mattino di Padova). “Il piede di destra aveva sia due chiodi che due inchiodature: era stato infilato un chiodo a metà piede per assicurare l’arto sulla trave, poi è stato infilato un altro chiodo lungo due centimetri per riuscire ad accavallare il calcagno del piede sinistro sulla caviglia del piede destro”. 
Atrocità che si aggiungono a quelle già note, riferite dai Vangeli. Del resto la crocifissione, nel caso di Gesù, “è stata particolarmente brutale” affermano questi specialisti “perché fatta su un soggetto paralizzato che aveva perso molto sangue e che era stato abbondantemente flagellato”. 
Ma perché l’uomo della Sindone era in parte “paralizzato”? 
Questi specialisti spiegano che la traversa della croce, di una cinquantina di chili, in una delle cadute avrebbe provocato un grave trauma al collo, con una lesione dell’innervazione e una conseguenze paralisi del braccio destro. 
Per questo i soldati romani costrinsero Simone di Cirene a portare la croce che Gesù non poteva più sostenere. I ricercatori padovani – i quali aggiungono che l’uomo della Sindone aveva pure una lussazione della spalla – spiegano anche le cause cardiache della morte. 

PROVA DELLA RESURREZIONE 
Tutti dati reperibili sulla Sindone che però porta anche le tracce della resurrezione. Per la connessione di questi tre dati. 
Primo: i medici legali che hanno lavorato in passato su quel lenzuolo hanno appurato che esso ha sicuramente avvolto il cadavere di un uomo morto per crocifissione. 
Secondo: gli scienziati americani dello Sturp che analizzò la Sindone, con strumenti assai sofisticati, conclusero che quel corpo morto non rimase dentro al lenzuolo più di 40 ore perché non vi è alcuna traccia di putrefazione. 
Terzo: Costoro accertarono che i contorni della macchie di sangue provano che non vi fu alcun movimento fra il corpo e il lenzuolo. Il mancato strappo dei coaguli ematici rivela che il corpo non si spostò, né fu spostato, ma uscì dal lenzuolo come passandovi attraverso. 
E con il misterioso sprigionarsi, dal corpo stesso, di una energia sconosciuta che ha fissato quell'immagine (tuttora senza spiegazione scientifica). 
Arnaud-Aaron Upinsky osservò che “la Sindone porta la prova di un fatto metafisico”. In effetti è la resurrezione di Gesù. Che ha sconfitto il male e la morte per ciascuno di noi. Uno per uno. E ci regala l’immortalità.
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Lunedì dell'Angelo 21-apr-2014 (Angelus 189)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Buona Pasqua! “Cristòs anèsti! – Alethòs anèsti!”, “Cristo è risorto! – E’ veramente risorto!”. E’ fra noi, qui, in piazza! In questa settimana possiamo continuare a scambiarci l’augurio pasquale, come se fosse un unico giorno. È il grande giorno che ha fatto il Signore.
Il sentimento dominante che traspare dai racconti evangelici della Risurrezione è la gioia piena di stupore, ma uno stupore grande! La gioia che viene da dentro! E nella Liturgia noi riviviamo lo stato d’animo dei discepoli per la notizia che le donne avevano portato: Gesù è risorto! Noi lo abbiamo visto! 
Lasciamo che questa esperienza, impressa nel Vangelo, si imprima anche nei nostri cuori e traspaia nella nostra vita. Lasciamo che lo stupore gioioso della Domenica di Pasqua si irradi nei pensieri, negli sguardi, negli atteggiamenti, nei gesti e nelle parole… Magari fossimo così luminosi! Ma questo non è un maquillage! Viene da dentro, da un cuore immerso nella fonte di questa gioia, come quello di Maria Maddalena, che pianse per la perdita del suo Signore e non credeva ai suoi occhi vedendolo risorto. Chi fa questa esperienza diventa testimone della Risurrezione, perché in un certo senso è risorto lui stesso, è risorta lei stessa. Allora è capace di portare un “raggio” della luce del Risorto nelle diverse situazioni: in quelle felici, rendendole più belle e preservandole dall’egoismo; in quelle dolorose, portando serenità e speranza.
In questa settimana, ci farà bene prendere il Libro del Vangelo e leggere quei capitoli che parlano della Risurrezione di Gesù. Ci farà tanto bene! Prendere il Libro, cercare i capitoli e leggere quello. Ci farà bene, in questa settimana, anche pensare alla gioia di Maria, la Madre di Gesù. Come il suo dolore è stato intimo, tanto da trafiggere la sua anima, così la sua gioia è stata intima e profonda, e ad essa i discepoli potevano attingere. Passato attraverso l’esperienza di morte e risurrezione del suo Figlio, viste, nella fede, come l’espressione suprema dell’amore di Dio, il cuore di Maria è diventato una sorgente di pace, di consolazione, di speranza, di misericordia. Tutte le prerogative della nostra Madre derivano da qui, dalla sua partecipazione alla Pasqua di Gesù. Dal venerdì al mattino di domenica, Lei non ha perso la speranza: l’abbiamo contemplata Madre addolorata ma, al tempo stesso, Madre piena di speranza. Lei, la Madre di tutti i discepoli, la Madre della Chiesa, è Madre di speranza.
A Lei, silenziosa testimone della morte e della risurrezione di Gesù, chiediamo di introdurci nella gioia pasquale. Lo faremo con la recita del Regina Caeli, che nel tempo pasquale sostituisce la preghiera dell’Angelus.
Dopo il Regina Coeli:
Rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, cari pellegrini venuti dall’Italia e da vari Paesi per prendere parte a questo incontro di preghiera.
Ricordatevi questa settimana di prendere il Vangelo, cercare i capitoli dove si parla della Risurrezione e leggere, ogni giorno, un brano di quei capitoli. Ci farà bene, in questa settimana della Risurrezione di Gesù.
A ciascuno formulo l’augurio di trascorrere nella gioia e nella serenità questo Lunedì dell’Angelo, in cui si prolunga la gioia della Risurrezione di Cristo.
Buona e santa Pasqua a tutti! Buon pranzo e arrivederci!
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domenica 20 aprile 2014

Messaggio Urbi et Orbi di Papa Francesco - Pasqua 2014

Cari fratelli e sorelle, buona e santa Pasqua!
Risuona nella Chiesa sparsa in tutto il mondo l’annuncio dell’angelo alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. E’ risorto … venite, guardate il luogo dove era stato deposto» (Mt 28,5-6).
Questo è il culmine del Vangelo, è la Buona Notizia per eccellenza: Gesù, il crocifisso, è risorto! Questo avvenimento è alla base della nostra fede e della nostra speranza: se Cristo non fosse risorto, il Cristianesimo perderebbe il suo valore; tutta la missione della Chiesa esaurirebbe la sua spinta, perché è da lì che è partita e che sempre riparte. Il messaggio che i cristiani portano al mondo è questo: Gesù, l’Amore incarnato, è morto sulla croce per i nostri peccati, ma Dio Padre lo ha risuscitato e lo ha fatto Signore della vita e della morte. In Gesù, l’Amore ha vinto sull’odio, la misericordia sul peccato, il bene sul male, la verità sulla menzogna, la vita sulla morte.
Per questo noi diciamo a tutti: «Venite e vedete!». In ogni situazione umana, segnata dalla fragilità, dal peccato e dalla morte, la Buona Notizia non è soltanto una parola, ma è una testimonianza di amore gratuito e fedele: è uscire da sé per andare incontro all’altro, è stare vicino a chi è ferito dalla vita, è condividere con chi manca del necessario, è rimanere accanto a chi è malato o vecchio o escluso… “Venite e vedete!”: l’Amore è più forte, l’Amore dona vita, l’Amore fa fiorire la speranza nel deserto.
Con questa gioiosa certezza nel cuore, noi oggi ci rivolgiamo a te, Signore Risorto!
Aiutaci a cercarti affinché tutti possiamo incontrarti, sapere che abbiamo un Padre e non ci sentiamo orfani; che possiamo amarti e adorarti.
Aiutaci a sconfiggere la piaga della fame, aggravata dai conflitti e dagli immensi sprechi di cui spesso siamo complici.
Rendici capaci di proteggere gli indifesi, soprattutto i bambini, le donne e gli anziani, a volte fatti oggetto di sfruttamento e di abbandono.
Fa’ che possiamo curare i fratelli colpiti dall’epidemia di ebola in Guinea Conakry, Sierra Leone e Liberia, e quelli affetti da tante altre malattie, che si diffondono anche per l’incuria e la povertà estrema.
Consola quanti oggi non possono celebrare la Pasqua con i propri cari perché strappati ingiustamente ai loro affetti, come le numerose persone, sacerdoti e laici, che in diverse parti del mondo sono state sequestrate.
Conforta coloro che hanno lasciato le proprie terre per migrare in luoghi dove poter sperare in un futuro migliore, vivere la propria vita con dignità e, non di rado, professare liberamente la propria fede.
Ti preghiamo, Gesù glorioso, fa’ cessare ogni guerra, ogni ostilità grande o piccola, antica o recente!
Ti supplichiamo, in particolare, per la Siria, l’amata Siria, perché quanti soffrono le conseguenze del conflitto possano ricevere i necessari aiuti umanitari e le parti in causa non usino più la forza per seminare morte, soprattutto contro la popolazione inerme, ma abbiano l’audacia di negoziare la pace, ormai da troppo tempo attesa!
Gesù glorioso, ti domandiamo di confortare le vittime delle violenze fratricide in Iraq e di sostenere le speranze suscitate dalla ripresa dei negoziati tra Israeliani e Palestinesi.
Ti imploriamo che venga posta fine agli scontri nella Repubblica Centroafricana e che si fermino gli efferati attentati terroristici in alcune zone della Nigeria e le violenze in Sud Sudan.
Ti chiediamo che gli animi si volgano alla riconciliazione e alla concordia fraterna in Venezuela.
Per la tua Risurrezione, che quest’anno celebriamo insieme con le Chiese che seguono il calendario giuliano, ti preghiamo di illuminare e ispirare iniziative di pacificazione in Ucraina, perché tutte le parti interessate, sostenute dalla Comunità internazionale, intraprendano ogni sforzo  per impedire la violenza e costruire, in uno spirito di unità e di dialogo, il futuro del Paese. Che loro come fratelli possano oggi cantare Хрhctос Воскрес.
Per tutti i popoli della Terra ti preghiamo, Signore: tu che hai vinto la morte, donaci la tua vita, donaci la tua pace! Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua!
SALUTO
Cari fratelli e sorelle,
rinnovo il mio augurio di Buona Pasqua a tutti voi giunti in questa Piazza da ogni parte del mondo. Estendo gli auguri pasquali a quanti, da vari Paesi, sono collegati attraverso i mezzi di comunicazione sociale. Portate nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità il lieto annuncio che Cristo nostra pace e nostra speranza è risorto!
Grazie per la vostra presenza, per la vostra preghiera e per la vostra testimonianza di fede. Un pensiero particolare e riconoscente per il dono dei bellissimi fiori, che provengono dai Paesi Bassi. Buona Pasqua a tutti!
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venerdì 18 aprile 2014

Unti con l’olio della gioia (Contributi 954)

Omelia Papa Francesco Santa Messa del Crisma 2014:
Cari fratelli nel sacerdozio! Nell’Oggi del Giovedì Santo, in cui Cristo ci amò fino all’estremo (cfr Gv 13,1), facciamo memoria del giorno felice dell’Istituzione del sacerdozio e di quello della nostra Ordinazione sacerdotale. Il Signore ci ha unto in Cristo con olio di gioia e questa unzione ci invita a ricevere e a farci carico di questo grande dono: la gioia, la letizia sacerdotale. La gioia del sacerdote è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il popolo fedele di Dio: quel popolo fedele in mezzo al quale è chiamato il sacerdote per essere unto e al quale è inviato per ungere.
Unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia. La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre, e il Signore desidera che la gioia di questo Amore «sia in noi» e «sia piena» (Gv 15,11). A me piace pensare la gioia contemplando la Madonna: Maria, la «madre del Vangelo vivente, è sorgente di gioia per i piccoli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 288), e credo che non esageriamo se diciamo che il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze; perciò la nostra preghiera di difesa contro ogni insidia del Maligno è la preghiera di nostra Madre: sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza (cfr Lc 1,48). E a partire da tale piccolezza accogliamo la nostra gioia. Gioia nella nostra piccolezza!
Trovo tre caratteristiche significative nella nostra gioia sacerdotale: è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani.
Una gioia che ci unge. Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente. I segni della liturgia dell’ordinazione ci parlano del desiderio materno che ha la Chiesa di trasmettere e comunicare tutto ciò che il Signore ci ha dato: l’imposizione delle mani, l’unzione con il santo Crisma, il rivestire con i paramenti sacri, la partecipazione immediata alla prima Consacrazione… La grazia ci colma e si effonde integra, abbondante e piena in ciascun sacerdote. Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione.
Una gioia incorruttibile. L’integrità del Dono, alla quale nessuno può togliere né aggiungere nulla, è fonte incessante di gioia: una gioia incorruttibile, che il Signore ha promesso che nessuno potrà togliercela (cfr Gv 16,22). Può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata. La raccomandazione di Paolo a Timoteo rimane sempre attuale: Ti ricordo di ravvivare il fuoco del dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani (cfr 2 Tm 1,6).
Una gioia missionaria. Questa terza caratteristica la voglio condividere e sottolineare in modo speciale: la gioia del sacerdote è posta in intima relazione con il santo popolo fedele di Dio perché si tratta di una gioia eminentemente missionaria. L’unzione è in ordine a ungere il santo popolo fedele di Dio: per battezzare e confermare, per curare e consacrare, per benedire, per consolare ed evangelizzare.
E poiché è una gioia che fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge (anche nel silenzio della preghiera, il pastore che adora il Padre è in mezzo alle sue pecorelle) e per questo è una “gioia custodita” da questo stesso gregge. Anche nei momenti di tristezza, in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce, quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale (e attraverso i quali anch’io sono passato), persino in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata.
“Gioia custodita” dal gregge e custodita anche da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza.
La gioia del sacerdote è una gioia che ha come sorella la povertà. Il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé. Sappiamo che il nostro popolo è generosissimo nel ringraziare i sacerdoti per i minimi gesti di benedizione e in modo speciale per i Sacramenti. Molti, parlando della crisi di identità sacerdotale, non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza. Non c’è identità – e pertanto gioia di vivere – senza appartenenza attiva e impegnata al popolo fedele di Dio (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 268). Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono “uscita”: esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi. Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda. Uscire da sé stessi richiede spogliarsi di sé, comporta povertà.
La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella la fedeltà. Non tanto nel senso che saremmo tutti “immacolati” (magari con la grazia di Dio lo fossimo!) perché siamo peccatori, ma piuttosto nel senso di una sempre nuova fedeltà all’unica Sposa, la Chiesa. Qui è la chiave della fecondità. I figli spirituali che il Signore dà ad ogni sacerdote, quelli che ha battezzato, le famiglie che ha benedetto e aiutato a camminare, i malati che sostiene, i giovani con cui condivide la catechesi e la formazione, i poveri che soccorre… sono questa “Sposa” che egli è felice di trattare come prediletta e unica amata e di esserle sempre nuovamente fedele. E’ la Chiesa viva, con nome e cognome, di cui il sacerdote si prende cura nella sua parrocchia o nella missione affidatagli, è essa che gli dà gioia quando le è fedele, quando fa tutto ciò che deve fare e lascia tutto ciò che deve lasciare pur di rimanere in mezzo alle pecore che il Signore gli ha affidato: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,16.17).
La gioia sacerdotale è una gioia che ha come sorella l’obbedienza. Obbedienza alla Chiesa nella Gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare… bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità. Ma anche l’obbedienza alla Chiesa nel servizio: disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore, a immagine di “Nostra Signora della prontezza” (cfr Lc 1,39: meta spoudes), che accorre a servire sua cugina e sta attenta alla cucina di Cana, dove manca il vino. La disponibilità del sacerdote fa della Chiesa la Casa dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della prima Comunione… Dove il popolo di Dio ha un desiderio o una necessità, là c’è il sacerdote che sa ascoltare (ob-audire) e sente un mandato amoroso di Cristo che lo manda a soccorrere con misericordia quella necessità o a sostenere quei buoni desideri con carità creativa.
Colui che è chiamato sappia che esiste in questo mondo una gioia genuina e piena: quella di essere preso dal popolo che uno ama per essere inviato ad esso come dispensatore dei doni e delle consolazioni di Gesù, l’unico Buon Pastore che, pieno di profonda compassione per tutti i piccoli e gli esclusi di questa terra, affaticati e oppressi come pecore senza pastore, ha voluto associare molti al suo ministero per rimanere e operare Lui stesso, nella persona dei suoi sacerdoti, per il bene del suo popolo.
In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che faccia scoprire a molti giovani quell’ardore del cuore che fa ardere la gioia appena uno ha la felice audacia di rispondere con prontezza alla sua chiamata.
In questo Giovedì Santo chiedo al Signore Gesù che conservi il brillare gioioso negli occhi dei nuovi ordinati, che partono per “mangiarsi” il mondo, per consumarsi in mezzo al popolo fedele di Dio, che gioiscono preparando la prima omelia, la prima Messa, il primo Battesimo, la prima Confessione… E’ la gioia di poter condividere – meravigliati – per la prima volta come unti, il tesoro del Vangelo e sentire che il popolo fedele ti torna ad ungere in un’altra maniera: con le loro richieste, porgendoti il capo perché tu li benedica, stringendoti le mani, avvicinandoti ai loro figli, chiedendo per i loro malati… Conserva Signore nei tuoi giovani sacerdoti la gioia della partenza, di fare ogni cosa come nuova, la gioia di consumare la vita per te.
In questo Giovedì sacerdotale chiedo al Signore Gesù di confermare la gioia sacerdotale di quelli che hanno parecchi anni di ministero. Quella gioia che, senza scomparire dagli occhi, si posa sulle spalle di quanti sopportano il peso del ministero, quei preti che già hanno tastato il polso al lavoro, raccolgono le loro forze e si riarmano: “cambiano aria”, come dicono gli sportivi. Conserva Signore la profondità e la saggia maturità della gioia dei preti adulti. Sappiano pregare come Neemia: la gioia del Signore è la mia forza (cfr Ne 8,10).
Infine, in questo Giovedì sacerdotale, chiedo al Signore Gesù che risplenda la gioia dei sacerdoti anziani, sani o malati. E’ la gioia della Croce, che promana dalla consapevolezza di avere un tesoro incorruttibile in un vaso di creta che si va disfacendo. Sappiano stare bene in qualunque posto, sentendo nella fugacità del tempo il gusto dell’eterno (Guardini). Sentano, Signore, la gioia di passare la fiaccola, la gioia di veder crescere i figli dei figli e di salutare, sorridendo e con mitezza, le promesse, in quella speranza che non delude.
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martedì 15 aprile 2014

È in gioco l'uomo (Contributi 953)

Un articolo da La Bussola 

A volte basta poco per cambiare le cose. All'ospedale S. Orsola di Bologna sono state fondamentali 19 ore, 4 minuti e 19 secondi. Quelli che ha vissuto su questa terra Giacomo, attimi di vita che hanno cambiato le cose. 
Ora al S. Orsola si parla di “Percorso Giacomo”, un protocollo che vuole essere messo in pratica dal reparto di neonatologia per prendersi cura di quei bambini speciali che, come Giacomo, nascono e sono condannati a vivere pochi minuti. Il piccolo Giacomo, su cui pendeva una spietata diagnosi di anancefalia, è nato ed è stato accolto tra le braccia di mamma e papà, e dai suoi due fratelli. È stato con loro un tempo che può apparire insignificante e che, invece, è tempo pieno e denso. Questa esperienza ha messo d'accordo tutti al reparto sul fatto che bisognava fare qualcosa per affrontare queste situazioni. 
Il ginecologo aveva detto a mamma Natascia, che aveva già affrontato la stessa situazione undici anni fa: “Non faccia la pazzia dell'altra volta.” In prima battuta Natascia aveva anche pensato di mollare, poi con l'appoggio del marito ha deciso di fare come undici anni fa con Michela. In mezzo un dialogo con il Cardinale Caffarra. 
In un'intervista rilasciata a Massimo Pandolfi del Resto del Carlino, Natascia ha detto che è andata dal Cardinale per fargli tre domande: 1) il bimbo non ha il cervello. E' vita?; 2) è la seconda volta che capita. Non sarà un disegno del diavolo?; 3) dov'è adesso Michela? E dove andrà Giacomo? 
Il Cardinale non si è tirato indietro e non ha preso scorciatoie. E ha dato rispote. La prima: è un bambino vero, e soprattutto è tuo figlio. Seconda: è un dono di Dio, perché il Diavolo non può dare e togliere la vita. Può solo allontanarti dalla verità ed è quello che sta cercando di fare. Terza: Michela è tra le braccia di Dio, ci andrà anche Giacomo. 
Ma – dice Natascia – il Cardinale è andato oltre «mi ha preso le mani, me le ha strette forte e mi ha detto: io sarò sempre con te. Vai ogni giorno a San Luca, chiedi alla Madonna di aiutarti a correre come ti viene chiesto, ora non ce la fai perchè sei troppo lacerata. Ma chiedi aiuto! Chiedi, chiedi». 
E così si è arrivati fino a quelle 19 ore, 4 minuti e 19 secondi, tutta la vita di Giacomo che su mamma Natascia “hanno inciso di più di 40 anni della mia vita”. 
Di fronte alla recente sentenza della Consulta, che di fatto ha cancellato la Legge 40 aprendo il far west dei bambini in provetta, Caffarra non poteva che intervenire. Lo ha fatto con un comunicato dal titolo inequivocabile, “Perchè non posso tacere”. 
Per chi conosce l'Arcivescovo di Bologna sa che la sua sofferenza, e anche la sua insofferenza, sono autentiche e ben fondate. Per quanto i detrattori si ostinino, le sue non sono considerazioni di carattere confessionale. Lo aveva già detto l'estate scorso rivolgendosi al sindaco di Bologna: si stanno mettendo in discussione delle evidenze che “a doverle spiegare vien da piangere”. 
Nel comunicato pubblicato nell'inserto di Avvenire Bologna 7 Caffarra si riferisce non solo alla sentenza sulla fecondazione eterologa, ma anche a quella del tribunale di Grosseto che ha imposto l'iscrizione all'anagrafe di un matrimonio fra due uomini, e la decisione di un giudice di assolvere una coppia che era ricorsa alla pratica del cosiddetto “utero in affitto” in India per avere un figlio. 
"Non è di condotte ciò di cui stiamo discutendo. - ha scritto l'Arcivescovo di Bologna - È la persona umana come tale che è in pericolo, poiché si stanno ridefinendo artificialmente i vissuti umani fondamentali: il rapporto uomo- donna; la maternità e la paternità; la dignità e i diritti del bambino. Sono in questione le relazioni fondamentali che strutturano la persona umana". 
Sono temi da lui ben conosciuti, non a caso il Beato Giovanni Paolo II lo volle come primo preside dell'Istituto di studi su matrimonio e famiglia. E il caso di Giacomo dimostra concretamente come il Cardinale si metta in gioco fino in fondo, nel concreto. 
"Non mi interessa l'aspetto etico della cosa, e non è di temi etici che parlo - avverte Caffarra. Purtroppo la questione è molto più profonda. E' una questione antropologica". Il suo è anche il grido di un apostolo: "Perchè Dio si è fatto uomo? Perché è morto crocefisso?" si chiede l’arcivescovo. "Non c’è che una risposta: perché ha amato perdutamente l’uomo". Dunque "ogni volta che ferisci l’uomo, che lo depredi della sua umanità, tu ferisci il Dio-uomo. Ecco perché non ho potuto tacere. Perché non sia resa vana la Croce di Cristo".
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lunedì 14 aprile 2014

Un amico con cui pregare

Pregare è come parlare con un amico: per questo «la preghiera deve essere libera, coraggiosa, insistente», anche a costo di arrivare a “rimproverare” il Signore. Con la consapevolezza che lo Spirito Santo c’è sempre e ci insegna come fare. È lo stile della preghiera di Mosè quello che Papa Francesco ha riproposto nella messa celebrata giovedì 3 aprile, nella cappella della Casa Santa Marta.
Questo piccolo “manuale” della preghiera è stato suggerito al Pontefice dalla lettura del passo del libro dell’Esodo (32, 7-14), che racconta «la preghiera di Mosè per il suo popolo che era caduto nel peccato gravissimo dell’idolatria». Il Signore — ha spiegato il Papa — «rimprovera proprio Mosè» e gli dice: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito».
È come se in questo dialogo Dio volesse prendere le distanze, dicendo a Mosè: «Io non ho niente a che fare con questo popolo; è il tuo, non è più il mio». Ma Mosè risponde: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente?». E così, ha affermato il Santo Padre, «il popolo è come in mezzo a due padroni, a due padri: il popolo di Dio e il popolo di Mosè».
Ecco allora che Mosè inizia la sua preghiera, «una vera lotta con Dio». È «la lotta del capo del popolo per salvare il suo popolo, che è il popolo di Dio». Mosè «parla liberamente davanti al Signore». E così facendo «ci insegna come pregare: senza paura, liberamente, anche con insistenza». Mosè «insiste, è coraggioso: la preghiera deve essere così!».
Dire parole e niente più non vuol dire infatti pregare. Si deve anche saper «“negoziare” con Dio». Proprio «come fa Mosè, ricordando a Dio, con argomentazioni, il rapporto che ha con il popolo». Dunque «cerca di “convincere” Dio» che se scagliasse la sua ira contro il popolo farebbe «una brutta figura davanti a tutti gli egiziani». Nel libro dell’Esodo si leggono infatti queste parole di Mosè a Dio: «Perché dovranno dire gli Egiziani: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo».
In buona sostanza Mosè «cercava di “convincere” Dio a cambiare atteggiamenti con tante argomentazioni. E queste argomentazioni va a cercarle nella memoria». Così «dice a Dio: tu hai fatto questo, questo e questo per il tuo popolo, ma se adesso lo lasci morire nel deserto cosa diranno i nostri nemici?». Diranno — prosegue — «che tu sei cattivo, che tu non sei fedele». In questo modo Mosè «cerca di “convincere” il Signore», ingaggiando una «lotta» nella quale pone al centro due elementi: «il tuo popolo e il mio popolo».
La preghiera ha successo, perché «alla fine Mosè riesce a “convincere” il Signore». Il Papa ha rimarcato che «è bello come finisce questo brano» della Scrittura: «Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo». Certo, ha spiegato, «il Signore era un po’ stanco per questo popolo infedele». Ma «quando uno legge, nell’ultima parola del brano, che il Signore si pente» e «ha cambiato atteggiamento» deve porsi una domanda: Chi è cambiato davvero qui? È cambiato il Signore? «Io credo di no» è stata la risposta del vescovo di Roma: a cambiare è stato Mosè. Perché egli — ha affermato il Pontefice — credeva che il Signore avrebbe distrutto il popolo. E «cerca nella sua memoria com’era stato buono il Signore con il suo popolo, come lo aveva tolto dalla schiavitù dell’Egitto per portarlo avanti con una promessa».
È appunto «con queste argomentazioni che cerca di “convincere” Dio. In questo processo ritrova la memoria del suo popolo e trova la misericordia di Dio». Davvero, ha proseguito il Papa, «Mosè aveva paura che Dio facesse questa cosa» terribile. Ma «alla fine scende dal monte» con una grande consapevolezza nel cuore: «il nostro Dio è misericordioso, sa perdonare, torna indietro nelle sue decisioni, è un padre!».
Sono tutte cose che Mosè già «sapeva, ma le sapeva più o meno oscuramente. È nella preghiera che le ritrova». Ed è anche «questo che fa la preghiera in noi: ci cambia il cuore, ci fa capire meglio com’è il nostro Dio». Ma per questo, ha aggiunto il Pontefice, «è importante parlare al Signore non con parole vuote come fanno i pagani». Bisogna invece «parlare con la realtà: ma, guarda, Signore, ho questo problema nella famiglia, con mio figlio, con questo o quell’altro... Cosa si può fare? Ma guarda che tu non mi puoi lasciare così!».
La preghiera prende e richiede tempo. Infatti «pregare è anche “negoziare” con Dio per ottenere quello che chiedo al Signore» ma soprattutto per conoscerlo meglio. Ne viene fuori una preghiera «come da un amico a un altro amico». Del resto «la Bibbia dice che Mosè parlava al Signore faccia a faccia, come un amico». E «così deve essere la preghiera: libera, insistente, con argomentazioni». Persino «“rimproverando” un po’ il Signore: ma tu mi hai promesso questo e non l’hai fatto!». È come quando «si parla con un amico: aprire il cuore a questa preghiera».
Papa Francesco ha anche ricordato che, dopo il faccia a faccia con Dio, «Mosè è sceso dal monte rinvigorito. Ho conosciuto di più il Signore. E con quella forza che gli aveva dato riprende il suo lavoro di condurre il popolo verso la terra promessa». Dunque «la preghiera rinvigorisce».
Il Pontefice ha concluso chiedendo al Signore che «dia a tutti noi la grazia, perché pregare è una grazia». E ha invitato a ricordare sempre che «quando preghiamo Dio, non è un dialogo a due», perché «sempre in ogni preghiera c’è lo Spirito Santo». Dunque «non si può pregare senza lo Spirito Santo: è lui che prega in noi, è lui che ci cambia il cuore, è lui che ci insegna a dire a Dio “padre”».
È allo Spirito Santo, ha aggiunto il Papa, che dobbiamo chiedere di insegnarci a pregare «come ha pregato Mosè, a “negoziare” con Dio con libertà di spirito, con coraggio». E «lo Spirito Santo, che è sempre presente nella nostra preghiera, ci conduca per questa strada».
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