Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

sabato 30 aprile 2011

Dio ha posto nell'uomo il desiderio di verità (Articoli 47)

Un articolo di Giacomo Samek Lodovici sul rapporto fra fede e ragione e sul contributo ad esse delle filosofia:


Giacomo Samek Lodovici
 Molti credenti, quelli fideisti, ritengono che la fede sia (più o meno) irrazionale, cioè senza rapporto con il ragionamento, dicono che l’atto di fede è un sentimento, uno slancio, un trasporto. Essi, a volte, considerano l’atto di fede addirittura un salto nel buio (con ciò inserendosi nel solco di Lutero, secondo cui la ragione è «la prostituta del diavolo»); altre volte, meno radicalmente (ma sempre come i luterani), professano il “biblicismo”, cioè ritengono che l’unica conferma dell’atto di fede sia da trovare nella Bibbia.

Ora, il fideismo è in contrasto con l’insegnamento imperterrito della Chiesa che, fin dalla prima lettera di Pietro (3,15), ha affermato: «adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione».
Ora, tale insegnamento è stato ribadito in modo deciso da Giovanni Paolo II (nonché oggi da Benedetto XVI), che ha criticato molto chiaramente i fideisti: «Non mancano […] pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l'importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il biblicismo, che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura e della sua esegesi l'unico punto di riferimento veritativo» (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 55, d’ora in poi FR).

Del resto, un errore ancor più frequente è considerare la fede e la ragione come se fossero due distinte facoltà dell’essere umano, quando invece la ragione è una facoltà che esercita anche l’atto di fede: «la fede, infatti, è in qualche modo [un] “esercizio del pensiero”» (FR 43), a cui si accompagnano alcuni sentimenti (di slancio, devozione, affetto, talvolta di paura, ecc.), che però non ne costituiscono l’essenza, ed il credere è «pensare assentendo», cosicché «chiunque crede pensa» (FR 79). Infatti, l’atto di fede e l’atto di ragionamento filosofico sono due atti attraverso cui quella facoltà che è la ragione acquisisce una conoscenza, in sinergia con la volontà (FR 13). Può sembrare strano che anche l’atto di fede sia un atto realizzato dalla ragione, ma l’atto di fede è un’attività conoscitiva della ragione ed affermare «io credo a ciò che tu mi dici» equivale a dire «io considero vero ciò che tu mi dici». Ora, è la ragione che considera veri o falsi un’affermazione ed un giudizio, è la ragione che dà l’assenso ad un’affermazione: noi compiamo atti di fede quando la nostra ragione considera vera (dà il suo assenso) un’affermazione che qualcuno (un parente, un amico, un libro, un giornale, la Chiesa, ecc.) ha pronunciato o scritto. Il che vuol dire che c’è un atto di conoscenza della ragione credente ed un atto di conoscenza della ragione filosofante. Compiamo un atto di ragionamento filosofico quando con la nostra ragione acquisiamo direttamente una conoscenza senza ricorrere a qualcun altro; compiamo un atto di fede quando con la nostra ragione acquisiamo indirettamente una conoscenza e la riteniamo vera affidandoci a qualcun altro che la pronuncia.
Ora, per comprendere il rapporto tra fede e ragione i contributi più importanti di Papa Wojtyla sono due encicliche, la Veritatis Splendor (d’ora in poi VS) e, soprattutto, la Fides et ratio, quest’ultima dedicata appositamente a tale tema, che Giovanni Paolo II conosceva molto bene, essendo stato docente universitario di filosofia.
Il nesso tra VS e FR lo dichiara esplicitamente la stessa FR (al punto 6), spiegando che il tema della verità è il baricentro di queste due encicliche. In effetti, il Papa venuto dalla Polonia ha instancabilmente proclamato che l’uomo (cfr. per es. FR 24-29) è un cercatore della verità capace di conseguire, almeno in parte, la verità su stesso, sul senso della vita, sull’esistenza di Dio, sul senso della sofferenza, sul bene e sul male, cioè è capace di dare in una certa misura una risposta alle grandi domande che l’uomo da sempre si pone nel suo cuore, prima o poi, durante la sua vita. Nell’uomo c’è dunque un desiderio di verità, quella di cui parlano i grandi pensatori greci, per esempio Aristotele, che inizia la sua Metafisica rilevando che «tutti gli uomini, per natura desiderano sapere».
Ora, dice l’incipit di FR, «È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui». Precisamente, «Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l’uomo ha di lui, porta a compimento ogni altra vera conoscenza […] circa il senso della propria esistenza» (FR 7).
Infatti, sapere se Dio esista è essenziale per risolvere le domande sul senso della vita, sulla felicità umana, sulla sofferenza, sulla morte, ed è la chiave per giudicare eticamente ogni attività umana (politica, economica, scientifica, ecc.). Pertanto bisogna scongiurare quel «processo di secolarismo, nel quale tanti, troppi uomini pensano e vivono “come se Dio non esistesse”. […] Urge allora che i cristiani riscoprano la novità della loro fede e la sua forza di giudizio» (VS 88), cioè la capacità della fede di indicare dei criteri per orientare l’agire, invece che relegare la fede nell’ambito del privato e della sola coscienza interiore.
Con queste affermazioni Giovanni Paolo II ha voluto energicamente reagire al nichilismo (su cui cfr. FR 46 e 90), secondo cui l’esistenza umana è insensata, allo scientismo (cfr. FR 88), che squalifica tutte le conoscenze (per esempio quella religiosa) diverse da quella scientifica ed al relativismo (su cui cfr., per esempio, FR 5 e 48), che asserisce l’impossibilità di conoscere la verità su noi stessi e sul senso della nostra vita. Già Platone ribatteva al relativismo dei suoi tempi (quello dei sofisti) che chi afferma che «la verità è inconoscibile» cade in contraddizione perché, di fatto, sta inconsapevolmente affermando: «la verità è inconoscibile, ciò è conoscibile ed è una verità», cioè pretende di affermare come oggettivo che tutto è soggettivo (ci sono versioni più sofisticate di relativismo, ne sono state contate numerosissime varianti, ma si potrebbe dimostrare che nessuna riesce a sfuggire all’autocontraddizione).
Considerato che la verità è conoscibile, almeno in parte (senza mai essere squadernabile totalmente, come pretendeva presuntuosamente l’idealismo, non certo i pensatori di ispirazione cristiana), FR illustra il rapporto tra fede e ragione, e più precisamente tra Rivelazione cristiana e filosofia.

Da un lato la Rivelazione cristiana promuove ed incentiva la filosofia:
− «provoca la mente dell’uomo a non fermarsi mai» (FR 14);
– talvolta (FR 76) le sottopone dei temi da dimostrare (per esempio la filosofia greca non è riuscita comprendere la dignità di ogni essere umano o la nozione di persona, pur essendo esse accessibili di per sé alla ragione senza bisogno della Rivelazione);
– talvolta procede oltre il limite sul quale la ragione con le sue sole forze si deve arrestare (per esempio riguardo all’Incarnazione alla Trinità, cfr. FR 93), comunicando all’uomo quelle verità che la ragione umana da sola non può cogliere, ma su cui essa può cimentarsi (cfr. per es. FR 66, 73 e 93), per comprenderle meglio, una volta che le ha ricevute;
− talvolta (FR 49-50) la riporta sulla strada della verità quando la filosofia la sta smarrendo, perché quando la filosofia entra in contrasto con la Rivelazione i casi sono due: o la Rivelazione è stata mal interpretata e dunque ha ragione la filosofia, oppure l’interpretazione della parola di Dio, che è verace, è giusta e allora la filosofia si sta allontanando dalla verità.


Dall’altro la (buona) filosofia non collide con la Rivelazione, bensì ne aumenta la comprensione e rafforza di conseguenza l’atto di fede. Infatti, la filosofia:
− può anzitutto dimostrare con degli argomenti filosofici (che resistono alle note critiche di Kant e di altri) l’esistenza di Dio risalendo dal mondo a Dio (FR 19), dall’effetto alla causa (FR 22), dal contingente all’infinito (FR 24), «dal fenomeno al fondamento» (FR 83);
− può inoltre dimostrare alcune caratteristiche di Dio (può argomentare che Dio è Persona, Onnipotente, Eterno, Infinito, Perfetto, Somma Bellezza, Somma Verità, Somma Bontà, Sommo Amore, ecc.), perciò il Dio dei filosofi non è inconciliabile (pur essendo ovviamente meno “completo”, meno “ricco” di attributi) con il Dio della fede, anzi aiuta a comprenderlo e ad esercitare l’atto di fede;
− può dimostrare (FR 66 e 98) con la ragione la verità di certi principi etici («non commettere atti impuri», «non mentire», «non bestemmiare», «non divorziare», «non uccidere», «non rubare», ecc.) che si trovano nella Rivelazione e la verità di altre norme («non fabbricare uomini in provetta», «non abortire», ecc.) che si possono ricavare da essa.


Ora, le prove razionali dell’esistenza di Dio possono essere sottoposte anche a colui che non crede alla Rivelazione, perché ogni uomo possiede la ragione. In tal senso, attraverso la filosofia, chiunque, anche se non ha ricevuto il dono della fede (dono che peraltro bisognerebbe volere e cercare di ricevere; ma questo sarebbe un lungo discorso), può pervenire all’affermazione dell’esistenza di Dio.
Inoltre la filosofia può portare soccorso anche a chi è già credente, giacché persino i più grandi santi hanno vissuto periodi di “notte dello spirito”, di interiore aridità spirituale e di incertezza. In simili momenti la filosofia può sostenere l’atto di fede, aiutando un essere umano a superare i dubbi, a vincere le incertezze, a perseverare, ecc.


Insomma (per esemplificare ciò che non viene detto esplicitamente in FR, ma corrisponde fedelmente al discorso ivi svolto), gli esseri umani diventano cristiani:
− a volte perché amano e/o stimano qualcuno e perciò aderiscono alle sue affermazioni su Dio;
− a volte perché vengono convinti da dei ragionamenti;
− a volte perché percorrono simultaneamente entrambe le strade appena menzionate;
− a volte per un’irruzione speciale della grazia.


Per esempio, S. Agostino si convertì anche grazie alla lettura dei libri dei neoplatonici ed Edith Stein arrivò alla conversione anche attraverso una formazione filosofica. Un caso recente e significativo, riferito in un libro, è quello di Janne Haaland Matlary (autrice del libro Una scelta d'amore, Leonardo Mondadori Editore, 2004, prefazione di J. Ratzinger), già Viceministro degli Esteri e figura di grande rilievo in Norvegia, che era agnostica (in certi momenti atea) e che si è convertita grazie alla filosofia: «Si è trattato di una conversione intellettuale. […] mi sono imbattuta in Aristotele e San Tommaso d'Aquino. Nel momento in cui ho scoperto il realismo ontologico, ho pure trovato la Chiesa» (http://mascellaro.it/node/25419); e Magdi Allam ha raccontato che il discorso, fatto a Ratisbona da Benedetto XVI, sul contributo della filosofia alla fede, e la corrispondenza tra Rivelazione e ragione (filosofica) sono stati fondamentali nella sua conversione al cristianesimo (lo scrivente potrebbe aggiungere altri nomi di convertiti grazie alla filosofia, per esempio i nomi di alcuni lettori di una rivisitazione, per non addetti ai lavori, di una prova filosofica dell’esistenza di Dio, i quali si sono convinti dell’esistenza di Dio proprio dopo averla letta: cfr. G. Samek Lodovici, L’esistenza di Dio, edizioni Art 2004, http://iltimone.org/quaderni/A2.html).
Del resto, Gesù convertiva le persone amandole e facendo miracoli, ma anche facendo ragionamenti, che talvolta erano semplici e talvolta erano difficili (cfr. il vangelo di Giovanni).
E anche per quanto riguarda i miracoli, la gente credeva a Gesù dopo i suoi miracoli attraverso la mediazione di un ragionamento (talmente spontaneo da non rendersi conto di compierlo): quello che applica il principio di causalità al miracolo e risale dall’effetto (il miracolo) alla causa (Dio), dal fenomeno al fondamento. Il ragionamento è il seguente: «questo è un miracolo; per compiere miracoli bisogna essere Dio (o essere strumento attraverso cui Dio agisce); dunque Gesù è Dio».
Insomma (FR 100), tra atto di fede e (buona) filosofia non c’è contrapposizione o mutua esclusione, bensì una solidarietà reciproca ed una cooperazione benefica, che reca vantaggio ad entrambe.
Se nella filosofia medievale, specialmente con Tommaso d’Aquino (FR 43-44), filosofia e Rivelazione si erano progressivamente e sempre più perfettamente sposate, il successivo divorzio tra fede e ragione ha prodotto gravi conseguenze (FR 48): «La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale», cioè si è spesso dimenticata di cercare la verità e talvolta si è piegata (e oggi sempre più spesso si piega) agli interessi di parte, economici e/o ideologici. «La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza», cioè è diventata fideismo sentimentale, «correndo il rischio di non essere più una proposta universale», dato che i sentimenti interiori di ognuno sono soggettivi, possono essere raccontati ma non possono essere argomentati. «È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione».
Insomma, per i motivi ricostruiti nelle precedenti righe e per altri ancora (si legga per intero la FR), Giovanni Paolo II ha energicamente sottolineato che la filosofia ha un’importanza cruciale: «la Chiesa […] vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l’esistenza dell’uomo» e la considera, inoltre, «un aiuto indispensabile per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono» (FR 5). La filosofia, dunque, è «uno dei compiti più nobili dell’umanità» (FR 3).
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Morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato (Articoli 46)

Vi propongo un nuovo articolo di Ruggero Sangalli da La Bussola:

Molti ritengono che i racconti evangelici della resurrezione siano lacunosi ed incoerenti. È doveroso accettare questa sfida e affrontare con serenità e con metodo i quattro resoconti canonici della resurrezione di Gesù. Tranne Giovanni, gli evangelisti non hanno visto direttamente la scena: hanno perciò raccolto ed ordinato il racconto di chi ha riferito l’accaduto, dal proprio punto di vista (del testimone e del reporter). È il “terzo giorno” dal 14 nisan. Siamo già nel 16 nisan.

Il giorno è palesemente lo stesso nei quattro racconti: finito il sabato (Mt 28,1), passato il sabato (Mc 16,1), il primo giorno della settimana (Lc 24,1) e il primo giorno dopo il sabato (Gv 20,1).
L’ora della scoperta (che non necessariamente coincide con quella della resurrezione) è ben delineata: quando già albeggiava (Mt 28,1), di buon mattino, al levar del sole (Mc 16,2), prestissimo all’alba (Lc 24,1), la mattina che era ancora buio (Gv 20,1). In un precedente articolo è stato dettagliato il significato delle fasi in cui la luce del giorno subentra all’oscurità, dal “diluculum” (a Gerusalemme, inizio aprile, ore 4,30) al levar del sole (le 5,30). Quanto descritto dai vangeli avviene in questo lasso di tempo, per nulla vago. È in corso l’ultimo turno di guardia (la quarta veglia).
Il luogo è certo, a nemmeno duecento metri dalla cinta muraria cittadina, tra il Calvario ed il Gareb, in un giardino. Le donne si avviano al sepolcro, che si trova presso il Calvario. Sono Maria di Magdala e l’altra Maria (Mt 28,1). C’è anche Salome (Mc 16,1), madre di Giacomo e Giovanni; è citata Giovanna (Lc 24,10) e non è esclusa la presenza di “altre”.
Non sappiamo esattamente da dove partirono: da dentro le mura il tragitto deve aver superato di poco il chilometro e per compierlo si impiegano 10-15 minuti (dovevano anche portare tutto l’occorrente per le operazioni da fare sul cadavere di Gesù). Lungo il percorso la principale preoccupazione riguarda la possibilità di rimuovere la pietra (Mc 16,3) con la quale è stato sigillato il sepolcro il venerdì sera. Dai Vangeli (Mt 27,61 e Mc 15,47) si evince che erano presenti le stesse due donne, che possono perciò guidare le altre. Luca (Lc 23,55) dice la stessa cosa, senza fare nomi. Giovanni invece nomina solo gli uomini coinvolti: Giuseppe di Arimatea e Nicodemo.
Ciò che viene riferito dai Vangeli (e non è logico che lo sia stato solo qualche decennio dopo) inevitabilmente mescola i ricordi ed i sentimenti di più persone, nel rapido svolgersi dei fatti. Non è corretto confrontare i quattro resoconti come se si ponessero in alternativa, mentre è più logico cogliere i diversi particolari di ciascuno, ricavandone un quadro assai logico e trasparente, nonché realistico: non vende al lettore facili certezze ed opinioni al posto della cruda realtà, pur con le sue emozioni. E’ “il bello della diretta”, una freschezza che nessun “simbolismo” potrà mai eguagliare.
Torniamo alla domenica mattina, ancor prima delle 5,00: le donne per strada sentono una scossa di terremoto (Mt 28,2), di forte intensità. Difficile pensare che non abbia svegliato le guardie, caso mai si fossero appisolate. Le donne giungono tutte insieme al sepolcro. E’ ancora abbastanza buio.
La scena è questa: la grossa pietra è rotolata via, il sepolcro è aperto e le guardie sono come tramortite. Dai nomi riferiti le donne sono almeno quattro: Maria Maddalena, Maria di Cleofa, Salome e Giovanna. Pur nella semioscurità constatano l’assenza del corpo di Gesù all’interno del sepolcro (Lc 24,2). Sapevano perfettamente che cosa avrebbero dovuto trovare, dato che fino all’ultimo avevano osservato il luogo della sepoltura il venerdì sera.
Adesso, con il cuore già gonfio per il lutto prima e poi per lo spavento del terremoto, l’atteggiamento delle guardie, la sorpresa della pietra rotolata, la scoperta del sepolcro vuoto, lo sconcerto al pensiero che il cadavere di Gesù sia stato trafugato, le donne provano un misto di delusione, gioia, rabbia, sospetti ed indignazione. Con questo stato d’animo, sconvolte, vedono (le vedono davvero!) delle figure luminose (chi una, chi due) che ripetono loro (Mt 28,6; Mc 16,6 e Lc 24,6) che Gesù è già risorto (non si dice esattamente quando). E’ un’emozione da impazzire. Da brividi!
Le donne reagiscono secondo indole ed età. Non si sono sedute a confrontarsi: corrono! C’è chi scappa, allontanandosi quasi senza meta. La Maddalena invece scatta a perdifiato verso l’abitazione degli apostoli, probabilmente nel quartiere sede dell’ultima cena: un percorso di circa un chilometro. Scossi da questo annuncio, Pietro e Giovanni si precipitano a loro volta. Giovanni è più giovane e veloce, ma attende Pietro prima di accedere al sepolcro. Quando entrano Giovanni vede qualcosa che lo induce razionalmente a credere. I due poi si allontanano, pensierosi.
Fuori nel frattempo è sopraggiunta ancora la Maddalena. Il suo rapido andirivieni è durato meno di mezz’ora. Sono appena passate le 5 di mattina. La donna, piangente nel giardino, incontra Gesù risorto (Gv 20,11 e Mc 16,9). E lei corre ancora, per dirlo ai discepoli (Gv 20,18).
Gesù risorto incontra anche le altre donne (non ne sappiamo i nomi), forse ritornate sul luogo della sepoltura, mosse da una curiosità di capire superiore allo spavento iniziale. La Maddalena non è con loro. Esse non riferiscono subito di questa apparizione (Mc 16,8); evidentemente lo faranno in seguito (Lc 24,10), tanto che i vangeli ce ne danno notizia. Gesù ha detto loro di riferire ai discepoli che lo vedranno “in Galilea” (non è peregrina l’ipotesi, già formulata in un precedente articolo su La Bussola, che questo luogo fosse in realtà un’area così denominata a ridosso di Gerusalemme).
Tutto succede prima del sorgere del sole (a Gerusalemme il 3 di aprile, ora solare, alle 5,30) in nemmeno un’ora. I vangeli sono racconti indipendenti, ma coerenti: i dettagli si incastrano come in un puzzle, integrandosi e raramente ripetendosi. Non dovremmo sottovalutare che i racconti della resurrezione non si perdono a rilanciare vane discussioni o a privilegiare per esempio il punto di vista di Pietro o della Beata Vergine Maria. Difficile pensare che Gesù non sia apparso alla Madre, forse prima ancora della scoperta della tomba vuota. Eppure di questo non c’è menzione. I vangeli semplicemente spiegano come si è avuta la notizia: sono asciutti, ma non privi di logica e sono ricchi di dettagli. È la nuda cronaca dei fatti, nella sua immediatezza, senza opinioni e commenti, se non “nell’edizione della sera”, quando i due di discepoli di Emmaus fanno un primo punto della situazione. A loro volta verranno spiazzati da Gesù: e correranno verso gli apostoli, esattamente come tutti gli altri, che avevano corso al mattino.
Di fronte ad una notizia così non si fanno tanti ragionamenti: si corre a darla.
Nel corso della stesso “terzo giorno”, 16 nisan, 3 aprile (nel calendario gregoriano) del 33, Gesù è visto anche da Pietro («è apparso a Simone», scrive Lc 24,34), dai due di Emmaus (Lc 24 e Mc 16,24) e poi da tutti gli undici riuniti (Lc 24,36 e Gv 20,19). Non sappiamo nulla delle guardie, probabilmente dileguatesi. In Matteo (Mt 28,13-16) è ben spiegato come fu gestita la testimonianza delle guardie, pagate per accreditare la “versione ufficiale”.
Gesù non è contrario alla nostra volontà di verificare. Non rimprovera Tommaso, che vuole toccare con mano. Si lascia “constatare”. Loda piuttosto la felicità di chi crederà alla parola dei testimoni, pur senza poter fare la verifica che fu concessa a lui, a beneficio di tutti. Gesù l’aveva già detto (Gv 10,37-38): «se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre».
Con buona pace di chi farebbe della risurrezione solo un “simbolo” della nostra fede.
Una quarantina di anni fa, quando ancora il racconto del cronista era uno strumento di conoscenza più diffuso delle dirette TV, con il replay ed il melenso bla bla pallonaro, chi avesse letto gli articoli di una stessa partita scritti da quattro bravi giornalisti sportivi, avrebbe sicuramente trovato dettagli discordanti, anche se tutti riferivano quello che avevano visto.
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venerdì 29 aprile 2011

Wojtyla beato, una sfida all’uomo (Contributi 460)

Un articolo di Mons. Luigi Negri tratto da Il Sussidiario:

La beatificazione di Giovanni Paolo II - ampiamente favorita dal suo più stretto collaboratore, amico e successore Benedetto XVI - è la beatificazione di un grande uomo e di un grande cristiano, nella sintesi più mirabile di questi due fattori. Essere un grande uomo senza essere cristiano sarebbe una tensione inesaudita. Un cristianesimo senza umanità, infatti, è l’ideologia religiosa che più di una volta, nella storia della Chiesa, ha preteso di sostituirsi alla radicale semplicità e forza dell'esperienza della fede.
Giovanni Paolo è stato un grande uomo figlio di un grande popolo.
La sua grandezza è stata la profondità con cui ha percepito la grande domanda di senso - di verità, di bellezza, di bene, di giustizia -, l'ansia del cuore umano di cui ha parlato per tutta la sua vita don Luigi Giussani. Wojtyla ha percepito queste grandi domande all'interno di una eccezionale tradizione di cultura e di civiltà come quella della Polonia cristiana, di cui è stato un figlio devoto e appassionato innanzitutto nell’arte, culmine originale di ogni forma di cultura e civiltà.
Karol Wojtyla è stato poeta, artista e attore. Un fatto che non può essere separato dal suo diventare cristiano, sacerdote, vescovo e Papa, perché Giovanni Paolo II ha avuto sempre chiaro che solo nell'incontro con la presenza di Cristo morto e risorto e misteriosamente presente nella Sua Chiesa, l'umanità trova il suo compimento e la fede la sua concretezza storica ed esistenziale.
La sua vicenda di uomo e di cristiano ne fa il testimone inesausto dell'umanità che cerca Dio e di Dio che cerca e trova l'uomo, perché l'uomo possa diventare autenticamente se stesso. Perché è Cristo a rivelare tutta l'umanità sull'uomo: questa grande certezza il Papa ha declinato nei suoi 27 anni di insonne magistero, ma soprattutto nella testimonianza di una vita spesa di fronte al mondo senza mai farsi condizionare o frenare da nessuna considerazione di tipo naturale, scientifico o socio-politico.
Sin dai primi giorni del Suo pontificato, Giovanni Paolo II ha servito il rapporto tra Dio e l’uomo come dialogo fra Cristo, presente nel mistero della Chiesa, e il cuore umano. Che non può accontentarsi mai delle proprie misure, dei propri progetti e delle proprie ideologie; che - anzi - vive la tentazione permanente di eliminare Cristo e la Chiesa dall'orizzonte della sua coscienza e della storia, al prezzo di una sostanziale inconsistenza della sua identità e della perdita della sua libertà.
Il Beato Karol Wojtyla - grazie alla costanza della grande tradizione cristiana che da duemila anni urge la vita e la coscienza degli uomini nei punti anche drammatici o tragici della sua storia - è certamente un grande testimone del cattolicesimo del Terzo Millennio, un cattolicesimo che ha saputo liberarsi da tanti orpelli del passato, un cattolicesimo che proprio per il magistero del Papa Giovanni Paolo II è riuscito a liberarsi da riproposizioni di carattere sentimentale o moralistico che aggrediscono ancora oggi il cuore vivo della Chiesa.
Il cristiano oggi deve saper ritrovare la radicale semplicità della fede come esperienza di vita nuova, da vivere appassionatamente nelle circostanze di ogni giorno e verificando che la fede vale più della vita, perché solo la fede rende ragionevole e bella l'esistenza. Ma soprattutto, facendo esperienza di questa vita nuova, la Chiesa deve continuare l’opera sempre nuova di evangelizzazione che rende possibile l'incontro tra Cristo e il cuore, e con esso l'esperienza di una conversione totale. «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo», diceva Gaio Mario Vittorino.
In questo senso la beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II è la più grande sfida a tutti gli uomini di buona volontà.
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giovedì 28 aprile 2011

Lunedì dell'Angelo (Angelus 19)

Cari fratelli e sorelle!

Surrexit Dominus vere! Alleluja! La Risurrezione del Signore segna il rinnovamento della nostra condizione umana. Cristo ha sconfitto la morte, causata dal nostro peccato, e ci riporta alla vita immortale. Da tale evento promana l’intera vita della Chiesa e l’esistenza stessa dei cristiani. Lo leggiamo proprio oggi, Lunedì dell’Angelo, nel primo discorso missionario della Chiesa nascente: “Questo Gesù – proclama l’apostolo Pietro – Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire” (At 2,32-33). Uno dei segni caratteristici della fede nella Risurrezione è il saluto tra i cristiani nel tempo pasquale, ispirato dall’antico inno liturgico: “Cristo è risorto! / E’ veramente risorto!”.
È una professione di fede e un impegno di vita, proprio come è accaduto alle donne descritte nel Vangelo di san Matteo: “Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!». Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (28,9-10). “Tutta la Chiesa – scrive il Servo di Dio Paolo VI – riceve la missione di evangelizzare, e l’opera di ciascuno è importante per il tutto. Essa resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova presenza di Gesù, della sua dipartita e della sua permanenza. Essa la prolunga e lo continua” (Es. Ap. Evangelii Nuntiandi, 8 dicembre 1975, 15: AAS 68 [1976], 14).
In che modo possiamo incontrare il Signore e diventare sempre più suoi autentici testimoni? San Massimo di Torino afferma: “Chiunque vuole raggiungere il Salvatore, per prima cosa lo deve porre con la propria fede alla destra della divinità e collocarlo con la persuasione del cuore nei cieli” (Sermo XXXIX a, 3: CCL 23, 157), deve cioè imparare a rivolgere costantemente lo sguardo della mente e del cuore verso l’altezza di Dio, dove è il Cristo risorto.
Nella preghiera, nell’adorazione, dunque, Dio incontra l’uomo. Il teologo Romano Guardini osserva che “l’adorazione non è qualcosa di accessorio, secondario … si tratta dell’interesse ultimo, del senso e dell’essere. Nell’adorazione l’uomo riconosce ciò che vale in senso puro e semplice e santo” (La Pasqua, Meditazioni, Brescia 1995, 62). Solo se sappiamo rivolgerci a Dio, pregarLo, noi possiamo scoprire il significato più profondo della nostra vita, e il cammino quotidiano viene illuminato dalla luce del Risorto.
Cari amici, la Chiesa, in Oriente e in Occidente, oggi festeggia san Marco evangelista, sapiente annunciatore del Verbo e scrittore delle dottrine di Cristo – come in antico veniva definito. Egli è anche il Patrono della città di Venezia, dove, a Dio piacendo, mi recherò in visita pastorale il 7 e 8 maggio prossimo. Invochiamo ora la Vergine Maria, affinché ci aiuti a compiere fedelmente e nella gioia la missione che il Signore Risorto affida a ciascuno.
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sabato 23 aprile 2011

Buona Pasqua da Padre Aldo (Interventi 88)

Una lettera pasquale di Padre Aldo che un'amica mi ha trasmesso e che vi faccio conoscere..

Carissimi amici, buona Pasqua
Il Signore ha vinto il mio e il tuo male. Siamo creature nuove, qualunque sia la condizione in cui viviamo, pieni di miserie fino al collo. Noi che siamo preferiti dal Mistero siamo suoi, sua proprietà. Lui sapeva dall’eternità tutto di noi e ci ha scelti lo stesso. Che spettacolo di misericordia, che commozione, se in ogni istante vivessimo con questa certezza. Ve lo dico con tutto il mio cuore perchè per me è cosi. È lo spettacolo del vedere comosso cosa succede nella mia vita vivendo come Abramo: “ecco mi Signore, sono qui”. É il SI di Maria
Ringrazio quanti, con il loro sacrificio ci aiutano a portare avanti quest’opera di Dio. Condividere per Pasqua il dolore di Cristo che soffre e risorge è anche vivere il cap. 25 di s. Matteo. Dio è il padrone, noi le sue mani. Ricordiamoci sempre di sostenere anche con una caramella ciò che qui Dio sta facendo usando noi poveri uomini inmanorati di Lui e quindi dell’uomo che soffre. Buona Pasqua.
P. Aldo e comunità
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giovedì 21 aprile 2011

Omelia di Benedetto XVI alla S.Messa nella Cena del Signore (Contributi 459)

Cari fratelli e sorelle!

"Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione" (Lc 22,15): con queste parole Gesù ha inaugurato la celebrazione del suo ultimo convito e dell’istituzione della santa Eucaristia. Gesù è andato incontro a quell’ora desiderandola. Nel suo intimo ha atteso quel momento in cui avrebbe donato se stesso ai suoi sotto le specie del pane e del vino. Ha atteso quel momento che avrebbe dovuto essere in qualche modo le vere nozze messianiche: la trasformazione dei doni di questa terra e il diventare una cosa sola con i suoi, per trasformarli ed inaugurare così la trasformazione del mondo. Nel desiderio di Gesù possiamo riconoscere il desiderio di Dio stesso – il suo amore per gli uomini, per la sua creazione, un amore in attesa. L’amore che attende il momento dell’unione, l’amore che vuole attirare gli uomini a sé, per dare compimento con ciò anche al desiderio della stessa creazione: essa, infatti, è protesa verso la manifestazione dei figli di Dio (cfr Rm 8,19).
Gesù ha desiderio di noi, ci attende. E noi, abbiamo veramente desiderio di Lui? C’è dentro di noi la spinta ad incontrarLo? Bramiamo la sua vicinanza, il diventare una cosa sola con Lui, di cui Egli ci fa dono nella santa Eucaristia? Oppure siamo indifferenti, distratti, pieni di altro?
Dalle parabole di Gesù sui banchetti sappiamo che Egli conosce la realtà dei posti rimasti vuoti, la risposta negativa, il disinteresse per Lui e per la sua vicinanza. I posti vuoti al banchetto nuziale del Signore, con o senza scuse, sono per noi, ormai da tempo, non una parabola, bensì una realtà presente, proprio in quei Paesi ai quali Egli aveva manifestato la sua vicinanza particolare. Gesù sapeva anche di ospiti che sarebbero sì venuti, ma senza essere vestiti in modo nuziale – senza gioia per la sua vicinanza, seguendo solo un’abitudine, e con tutt’altro orientamento della loro vita. San Gregorio Magno, in una delle sue omelie, si domandava: Che genere di persone sono quelle che vengono senza abito nuziale? In che cosa consiste questo abito e come lo si acquista? La sua risposta è: Quelli che sono stati chiamati e vengono hanno in qualche modo fede. È la fede che apre loro la porta. Ma manca loro l’abito nuziale dell’amore. Chi vive la fede non come amore non è preparato per le nozze e viene mandato fuori. La comunione eucaristica richiede la fede, ma la fede richiede l’amore, altrimenti è morta anche come fede.
Da tutti e quattro i Vangeli sappiamo che l’ultimo convito di Gesù prima della Passione fu anche un luogo di annuncio. Gesù ha proposto ancora una volta con insistenza gli elementi portanti del suo messaggio. Parola e Sacramento, messaggio e dono stanno inscindibilmente insieme. Ma durante l’ultimo convito, Gesù ha soprattutto pregato. Matteo, Marco e Luca usano due parole per descrivere la preghiera di Gesù nel punto centrale della Cena: “eucharistesas” ed “eulogesas” – “ringraziare” e “benedire”. Il movimento ascendente del ringraziare e quello discendente del benedire vanno insieme. Le parole della transustanziazione sono parte di questa preghiera di Gesù. Sono parole di preghiera.
Gesù trasforma la sua Passione in preghiera, in offerta al Padre per gli uomini. Questa trasformazione della sua sofferenza in amore possiede una forza trasformatrice per i doni, nei quali ora Egli dà se stesso. Egli li dà a noi affinché noi e il mondo siamo trasformati. Lo scopo proprio e ultimo della trasformazione eucaristica è la nostra stessa trasformazione nella comunione con Cristo. L’Eucaristia ha di mira l’uomo nuovo, il mondo nuovo così come esso può nascere soltanto a partire da Dio mediante l’opera del Servo di Dio.
Da Luca e soprattutto da Giovanni sappiamo che Gesù nella sua preghiera durante l’Ultima Cena ha anche rivolto suppliche al Padre – suppliche che al tempo stesso contengono appelli ai suoi discepoli di allora e di tutti i tempi. Vorrei in quest’ora scegliere soltanto una supplica che, secondo Giovanni, Gesù ha ripetuto quattro volte nella sua Preghiera sacerdotale. Quanto deve averLo angustiato nel suo intimo! Essa rimane continuamente la sua preghiera al Padre per noi: è la preghiera per l’unità. Gesù dice esplicitamente che tale supplica non vale soltanto per i discepoli allora presenti, ma ha di mira tutti coloro che crederanno in Lui (cfr Gv 17,20). Chiede che tutti diventino una sola cosa “come tu, Padre, sei in me e io in te … perché il mondo creda” (Gv 17,21). L’unità dei cristiani può esserci soltanto se i cristiani sono intimamente uniti a Lui, a Gesù. Fede e amore per Gesù, fede nel suo essere uno col Padre e apertura all’unità con Lui sono essenziali. Questa unità non è dunque una cosa soltanto interiore, mistica. Deve diventare visibile, così visibile da costituire per il mondo la prova della missione di Gesù da parte del Padre. Per questo tale supplica ha un nascosto senso eucaristico che Paolo ha chiaramente evidenziato nella Prima Lettera ai Corinzi: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16s). Con l’Eucaristia nasce la Chiesa. Noi tutti mangiamo lo stesso pane, riceviamo lo stesso corpo del Signore e questo significa: Egli apre ciascuno di noi al di là di se stesso. Egli ci rende tutti una cosa sola. L’Eucaristia è il mistero dell’intima vicinanza e comunione di ogni singolo col Signore. Ed è, al tempo stesso, l’unione visibile tra tutti. L’Eucaristia è Sacramento dell’unità. Essa giunge fin nel mistero trinitario, e crea così al contempo l’unità visibile. Diciamolo ancora una volta: essa è l’incontro personalissimo col Signore e, tuttavia, non è mai soltanto un atto di devozione individuale. La celebriamo necessariamente insieme. In ogni comunità vi è il Signore in modo totale. Ma Egli è uno solo in tutte le comunità. Per questo, della Preghiera eucaristica della Chiesa fanno necessariamente parte le parole: “una cum Papa nostro et cum Episcopo nostro”. Questa non è un’aggiunta esteriore a ciò che avviene interiormente, bensì espressione necessaria della realtà eucaristica stessa. E menzioniamo il Papa e il Vescovo per nome: l’unità è del tutto concreta, ha dei nomi. Così l’unità diventa visibile, diventa segno per il mondo e stabilisce per noi stessi un criterio concreto.
San Luca ci ha conservato un elemento concreto della preghiera di Gesù per l’unità: “Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,31s). Oggi constatiamo con dolore nuovamente che a Satana è stato concesso di vagliare i discepoli visibilmente davanti a tutto il mondo. E sappiamo che Gesù prega per la fede di Pietro e dei suoi successori. Sappiamo che Pietro, che attraverso le acque agitate della storia va incontro al Signore ed è in pericolo di affondare, viene sempre di nuovo sorretto dalla mano del Signore e guidato sulle acque. Ma poi segue un annuncio e un incarico. “Tu, una volta convertito…”: Tutti gli esseri umani, eccetto Maria, hanno continuamente bisogno di conversione. Gesù predice a Pietro la sua caduta e la sua conversione. Da che cosa Pietro ha dovuto convertirsi? All’inizio della sua chiamata, spaventato dal potere divino del Signore e dalla propria miseria, Pietro aveva detto: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!” (Lc 5,8). Alla luce del Signore egli riconosce la sua insufficienza. Proprio così, nell’umiltà di chi sa di essere peccatore, egli viene chiamato. Egli deve sempre di nuovo ritrovare questa umiltà. Presso Cesarea di Filippo Pietro non aveva voluto accettare che Gesù avrebbe dovuto soffrire ed essere crocifisso. Ciò non era conciliabile con la sua immagine di Dio e del Messia. Nel cenacolo egli non ha voluto accettare che Gesù gli lavasse i piedi: ciò non si adattava alla sua immagine della dignità del Maestro. Nell’orto degli ulivi ha colpito con la spada. Voleva dimostrare il suo coraggio. Davanti alla serva, però, ha affermato di non conoscere Gesù. In quel momento ciò gli sembrava una piccola bugia, per poter rimanere nelle vicinanze di Gesù. Il suo eroismo è crollato in un gioco meschino per un posto al centro degli avvenimenti.
Tutti noi dobbiamo sempre di nuovo imparare ad accettare Dio e Gesù Cristo così come Egli è, e non come noi vorremmo che fosse.
Anche noi stentiamo ad accettare che Egli si sia legato ai limiti della sua Chiesa e dei suoi ministri. Anche noi non vogliamo accettare che Egli sia senza potere in questo mondo. Anche noi ci nascondiamo dietro pretesti, quando l’appartenenza a Lui ci diventa troppo costosa e troppo pericolosa. Tutti noi abbiamo bisogno di conversione che accoglie Gesù nel suo essere-Dio ed essere-Uomo. Abbiamo bisogno dell’umiltà del discepolo che segue la volontà del Maestro. In quest’ora vogliamo pregarLo di guardare anche a noi come ha guardato Pietro, nel momento opportuno, con i suoi occhi benevoli, e di convertirci.
Pietro, il convertito, è chiamato a confermare i suoi fratelli. Non è un fatto esteriore che questo compito gli venga affidato nel cenacolo. Il servizio dell’unità ha il suo luogo visibile nella celebrazione della santa Eucaristia. Cari amici, per il Papa è un grande conforto sapere che in ogni Celebrazione eucaristica tutti pregano per lui; che la nostra preghiera si unisce alla preghiera del Signore per Pietro. Solo grazie alla preghiera del Signore e della Chiesa il Papa può corrispondere al suo compito di confermare i fratelli – di pascere il gregge di Gesù e di farsi garante per quell’unità che diventa testimonianza visibile della missione di Gesù da parte del Padre.
“Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi”. Signore, tu hai desiderio di noi, di me. Tu hai desiderio di partecipare te stesso a noi nella santa Eucaristia, di unirti a noi. Signore, suscita anche in noi il desiderio di te. Rafforzaci nell’unità con te e tra di noi. Dona alla tua Chiesa l’unità, perché il mondo creda. Amen.
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martedì 19 aprile 2011

Per non vivere nel virtuale (Interventi 87)

Propongo dal sito Cultura Cattolica una riflessione di Elena Pagetti sul mondo internet:


Flannery O Connor

La scrittrice Flannery O’Connor si definiva “una cattolica singolarmente in possesso della coscienza moderna”, affermando di scrivere per un pubblico che non crede nell’Incarnazione, “formato da coloro che pensano che Dio sia morto”. Pertanto i suoi racconti mirano a risvegliare il senso religioso servendosi di un linguaggio realista, di immagini e di situazioni shoccanti, quasi incredibili, in cui l’incombere del Mistero apre uno squarcio improvviso: lo spazio della Grazia.
Per tutti valga il racconto “La schiena di Parker”, in cui il protagonista, si fa ricoprire il corpo di tatuaggi, senza però essere mai soddisfatto da questi, nel tentativo disperato di riscattare se stesso, di accettare il detestato nome di battesimo, cominciare a provare stupore verso di sé e attirare l’attenzione delle ragazze prima, poi della moglie. Finché si fece tatuare un Cristo bizantino sul dorso, per ottenere il favore della moglie “redenta” che non avrebbe potuto non apprezzare il disegno di Dio. In realtà la moglie reagì duramente. Tuttavia gli occhi di Dio avevano segnato Parker per sempre.
L’impegno della O’Connor a penetrare l’indifferenza del suo tempo di fronte a Dio e a Cristo colpisce per la sua originalità e per la forza con cui si esprime. È un compito che spetta anche a noi immersi nella stessa indifferenza. Senza questo impegno con la realtà del presente, anche la fede vissuta può essere un rifugiarsi in un mondo virtuale, nostalgico del passato e disarmato verso il futuro, perciò tristemente conservatore.
Per questo servono uomini impegnati con i fatti, gli avvenimenti grandi e piccoli che capitano nella storia, per scoprire in essi la traccia del Mistero, lo spazio della nostra adesione e della nostra responsabilità verso una realtà che non si chiude nella strettoia dell’apparenza.
L’Incarnazione è un fatto che nasconde un Mistero, così i fatti della vita di tutti.
In un recente intervento, il filosofo francese Hadjadj, ha sostenuto che la virtualità dell’informatica e dei videogiochi può costituire un binario parallelo rispetto all’incapacità di vivere il presente che porta a cercare scappatoie. La sfida che ogni tempo porta con sé deve essere affrontata “dal di dentro”. Significativo mi pare, a proposito, l’intervento di Benedetto XVI al Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali. Commentando il diffondersi delle nuove tecnologie ha osservato: “I rischi che si corrono sono sotto gli occhi di tutti: la perdita dell’interiorità, la superficialità nel vivere le relazioni, la fuga nell’emotività, il prevalere dell’opinione più convincente rispetto al desiderio di verità. E tuttavia essi sono la conseguenza di un’incapacità di vivere con pienezza e in maniera autentica il senso delle innovazioni.
Ecco perché la riflessione sui linguaggi sviluppati dalle nuove tecnologie è urgente.
Il punto di partenza è la stessa Rivelazione, che ci testimonia come Dio abbia comunicato le sue meraviglie proprio nel linguaggio e nell’esperienza reale degli uomini, «secondo la cultura propria di ogni epoca» (Gaudium et spes, 58), fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio Incarnato.
La fede sempre penetra, arricchisce, esalta e vivifica la cultura, e questa, a sua volta, si fa veicolo della fede, a cui offre il linguaggio per pensarsi ed esprimersi. E’ necessario quindi farsi attenti ascoltatori dei linguaggi degli uomini del nostro tempo, per essere attenti all’opera di Dio nel mondo”. Non fuga ma impegno dell’intelligenza e del cuore per comprendere ed entrare nei nuovi linguaggi di cui spesso, invece, ci si limita a denunciarne i limiti o a esaltarne i vantaggi. Comprendere “l’opera di Dio” è un passo in più per contribuire al servizio della persona nella sua interezza e a superare l’inevitabile impoverimento del virtuale.
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Una Giornata di preghiera per Asia Bibi (Interventi 86)

Facciamo nostro questo appello: Il 20 aprile Giornata di preghiera per Asia Bibi e per tutte le vittime della legge di blasfemia



Lahore (Agenzia Fides) - Tutto il mondo sarà in preghiera per Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte ingiustamente per blasfemia: il 20 aprile, mercoledì della Settimana Santa, si celebrerà in Pakistan, ma anche in tutte le nazioni del mondo che aderiranno all’iniziativa, una “Speciale Giornata di preghiera per Asia Bibi, e per le vittime della legge sulla blasfemia”.
L’iniziativa, lanciata dalla “Masihi Foundation”, che si occupa dell'assistenza legale della donna e del supporto materiale alla sua famiglia, è stata anticipata all’Agenzia Fides, e sarà diffusa in tutto il pianeta “perché tutti i credenti e tutti gli uomini di buona volontà possano unirsi in comunione di preghiera e accendere una candela, implorando da Dio la salvezza e la liberazione di questa donna e di tutti coloro che soffrono che per le conseguenze di false accuse di blasfemia”, dice a Fides Haroon Masih, Direttore della “Masihi Foundation”.
All'iniziativa ha già aderito Mons. Andrew Francis, Vescovo di Multan e Presidente della Commissione per il Dialogo Interreligioso nella Conferenza Episcopale del Pakistan, il quale nota a Fides che “la preghiera è una strumento importante per i fedeli del Pakistan, che confidano nell'opera di Dio”. Anche le Pontificie Opere Missionarie in Pakistan hanno dato la loro adesione, informando che “aiuteranno a sensibilizzare le comunità locali”.
Inoltre vi sono gli “angeli custodi di Asia Bibi” che hanno assicurato la loro preghiera: le monache di alcuni ordini di clausura. Si eleverà per Asia Bibi la preghiera delle suore del Monastero delle Francescane Concezioniste a Escalona (Toledo, Spagna); delle Benedettine del Monastero di Rosano (nei pressi di Firenze,in Italia); delle Clarisse francescane di Roasio e Sarzana (nel nord Italia) che riferiscono in un messaggio inviato a Fides: “Ricorderemo, davanti al Santissimo Sacramento esposto, Asia Bibi, nostra sorella in Cristo, e pregheremo per le vittime di ogni sopruso, compiuto in ogni parte del mondo: il Signore Crocifisso e Risorto apra i cuori di tutti perchè si edifichi il Suo Regno di pace e di giustizia”.
In Italia si pregherà per Asia Bibi e per le vittime della legge di blasfemia anche durante la Santa Messa che il Card. Jean Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, celebrerà il 20 aprile nella cappella del Parlamento. La Santa Messa è organizzata dall'Associazione Parlamentari Amici del Pakistan e dall'Associazione Pakistani Cristiani in Italia (già fra gli organizzatori di una manifestazione pro Asia Bibi il 26 gennaio scorso) per ricordare la figura di Shahbaz Bhatti, il Ministro per le minoranze ucciso, uomo politico cattolico che aveva difeso Asia Bibi, pagando con la vita.
La Fondazione Masihi lancia, tramite Fides, un appello a tutte le comunità, parrocchie, associazioni, scuole, congregazioni religiose, in tutte le Chiese cristiane del mondo, perchè si uniscano alla Giornata di Preghiera. Per informare sulle adesioni, che si auspica possano giungere numerose, dai cinque continenti, si può inviare un messaggio e-mail all’indirizzo specialprayerday@gmail.com. (PA) (Agenzia Fides 11/4/2011)
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domenica 17 aprile 2011

Domenica delle Palme e di Passione (Angelus 18)

Benedetto XVI ha scelto per quest'oggi di sostituire la tradizionale meditazione con la quale è solito introdurre l'Angelus domenicale, con un invito in tutte le lingue ai pellegrini presenti in piazza San Pietro, in vista della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) che si terrà questo agosto a Madrid. 

Je salue avec joie les pèlerins francophones. En suivant Jésus qui s’avance vers sa Passion et sa Résurrection, accueillons son enseignement au cœur de nos vies. Puisse sa lumière éclairer nos jugements et nos choix! Chers jeunes, demeurez enracinés dans le Christ et fermes dans la foi! Ainsi, vous serez les témoins joyeux et inlassables de l’amour infini de Dieu pour nous aujourd’hui. Que la Vierge Marie nous accompagne dans notre montée vers Pâques !
I welcome all the English-speaking pilgrims and visitors here in Rome this Palm Sunday, as the whole Church sings “Hosanna” to the Son of David, commemorating Our Lord’s solemn entry into Jerusalem in the days leading up to his Passion and death. In a special way I greet all the young people present and I look forward to celebrating World Youth Day in Madrid this summer with many thousands of others from around the world.
Von Herzen grüße ich alle Pilger und Besucher deutscher Sprache. In der Liturgie des Palmsonntags folgt auf den Jubelruf „Hosanna“ beim Einzug des Herrn in Jerusalem kurz darauf das Geschrei des „Kreuzige ihn“ im Leidensbericht. Beide Haltungen liegen nahe beisammen und machen die Unbeständigkeit des menschlichen Herzens sichtbar. Bitten wir den Herrn in dieser Heiligen Woche, daß er uns in der Treue zu ihm bewahre. Dazu möge er uns die Gnade schenken, die aus seinem Tod und seiner Auferstehung kommt. Euch allen wünsche ich eine gesegnete Karwoche!
Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española y los animo a vivir las celebraciones de la pasión del Rey de la Gloria, para alcanzar la plenitud de lo que estas fiestas significan y contienen. Me dirijo ahora en particular a vosotros, queridos jóvenes, para que me acompañéis en la Jornada Mundial de la Juventud, que tendrá lugar en Madrid el próximo mes de agosto, bajo el lema: “Arraigados y edificados en Cristo, firmes en la fe”.
Hoy pienso también en Colombia, donde el próximo Viernes Santo se celebra la Jornada de Oración por las Víctimas de la Violencia. Me uno espiritualmente a esta importante iniciativa y exhorto encarecidamente a los colombianos a participar en ella, al mismo tiempo que pido a Dios por cuantos en esa amada Nación han sido despojados vilmente de su vida y sus haberes. Renuevo mi urgente llamado a la conversión, al arrepentimiento y a la reconciliación. ¡No más violencia en Colombia, que reine en ella la paz!
Uma saudação amiga para os jovens e demais peregrinos de língua portuguesa, com votos de uma Semana Santa rica de frutos espirituais, vivendo-a unidos à Virgem Maria para aprender d’Ela a escutar Deus no silêncio interior, a olhar os outros com o coração puro e a seguir Jesus, com fé amorosa, pelo caminho do calvário que conduz à alegria da ressurreição. Até Madrid, se Deus quiser!
Serdeczne pozdrowienie kieruję do pielgrzymów z Polski, szczególnie do młodych, którzy przygotowują się do światowego spotkania w Madrycie. Pozwólcie, że dziś, w niedzielę Męki Pańskiej, powtórzę słowa z przesłania na ten dzień: Krzyż « jest Bożym „tak” dla człowieka, najwyższym wyrazem miłości i źródłem, z którego wypływa życie wieczne. (...) Mogę zatem jedynie ponaglić Was, byście przyjęli Krzyż Jezusa, znak Bożej miłości, jako źródło nowego życia». Niech Bóg wam błogosławi!
[Un cordiale saluto rivolgo ai pellegrini provenienti dalla Polonia, specialmente ai giovani che si preparano all’incontro mondiale a Madrid. Permettete che oggi, nella domenica della Passione del Signore, ripeta le parole dal messaggio per questa giornata: la Croce di Cristo “è il “sì” di Dio all’uomo, l’espressione massima del suo amore e la sorgente da cui sgorga la vita eterna. Dunque, non posso che invitarvi ad accogliere la Croce di Gesù, segno dell’amore di Dio, come fonte di vita nuova”. Dio vi benedica!]
Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, specialmente i giovani, ai quali do appuntamento a Madrid, per la Giornata Mondiale della Gioventù, nel prossimo mese di agosto.
Ed ora ci rivolgiamo in preghiera a Maria, affinché ci aiuti a vivere con fede intensa la Settimana Santa. Anche Maria esultò nello spirito quando Gesù fece il suo ingresso regale in Gerusalemme, compiendo le profezie; ma il suo cuore, come quello del Figlio, era pronto al Sacrificio. Impariamo da Lei, Vergine fedele, a seguire il Signore anche quando la sua via porta alla croce.
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Omelia di Benedetto XVI per 26^ giornata gioventù e Domenica Palme e Passione (Contributi 458)

Cari fratelli e sorelle, cari giovani!
Ci commuove nuovamente ogni anno, nella Domenica delle Palme, salire assieme a Gesù il monte verso il santuario, accompagnarLo lungo la via verso l’alto. In questo giorno, su tutta la faccia della terra e attraverso tutti i secoli, giovani e gente di ogni età Lo acclamano gridando: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”
Ma che cosa facciamo veramente quando ci inseriamo in tale processione – nella schiera di coloro che insieme con Gesù salivano a Gerusalemme e Lo acclamavano come re di Israele? È qualcosa di più di una cerimonia, di una bella usanza? Ha forse a che fare con la vera realtà della nostra vita, del nostro mondo? Per trovare la risposta, dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa Gesù stesso abbia in realtà voluto e fatto. Dopo la professione di fede, che Pietro aveva fatto a Cesarea di Filippo, nell’estremo nord della Terra Santa, Gesù si era incamminato come pellegrino verso Gerusalemme per le festività della Pasqua. È in cammino verso il tempio nella Città Santa, verso quel luogo che per Israele garantiva in modo particolare la vicinanza di Dio al suo popolo. È in cammino verso la comune festa della Pasqua, memoriale della liberazione dall’Egitto e segno della speranza nella liberazione definitiva. Egli sa che Lo aspetta una nuova Pasqua e che Egli stesso prenderà il posto degli agnelli immolati, offrendo se stesso sulla Croce. Sa che, nei doni misteriosi del pane e del vino, si donerà per sempre ai suoi, aprirà loro la porta verso una nuova via di liberazione, verso la comunione con il Dio vivente. È in cammino verso l’altezza della Croce, verso il momento dell’amore che si dona. Il termine ultimo del suo pellegrinaggio è l’altezza di Dio stesso, alla quale Egli vuole sollevare l’essere umano.
La nostra processione odierna vuole quindi essere l’immagine di qualcosa di più profondo, immagine del fatto che, insieme con Gesù, c’incamminiamo per il pellegrinaggio: per la via alta verso il Dio vivente. È di questa salita che si tratta. È il cammino a cui Gesù ci invita.
Ma come possiamo noi tenere il passo in questa salita? Non oltrepassa forse le nostre forze?
Sì, è al di sopra delle nostre proprie possibilità.
Da sempre gli uomini sono stati ricolmi – e oggi lo sono quanto mai – del desiderio di “essere come Dio”, di raggiungere essi stessi l’altezza di Dio. In tutte le invenzioni dello spirito umano si cerca, in ultima analisi, di ottenere delle ali, per potersi elevare all’altezza dell’Essere, per diventare indipendenti, totalmente liberi, come lo è Dio. Tante cose l’umanità ha potuto realizzare: siamo in grado di volare. Possiamo vederci, ascoltarci e parlarci da un capo all’altro del mondo. E tuttavia, la forza di gravità che ci tira in basso è potente. Insieme con le nostre capacità non è cresciuto soltanto il bene. Anche le possibilità del male sono aumentate e si pongono come tempeste minacciose sopra la storia. Anche i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità.
I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione.
C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso – verso l’egoismo, verso la menzogna e verso il male; la gravità che ci abbassa e ci allontana dall’altezza di Dio.
Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto. L’uomo si trova in mezzo a questa duplice forza di gravità, e tutto dipende dallo sfuggire al campo di gravitazione del male e diventare liberi di lasciarsi totalmente attirare dalla forza di gravità di Dio, che ci rende veri, ci eleva, ci dona la vera libertà.
Dopo la liturgia della Parola, all’inizio della Preghiera eucaristica durante la quale il Signore entra in mezzo a noi, la Chiesa ci rivolge l’invito: “Sursum corda – in alto i cuori!” Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima.
Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui.
Questo “cuore” deve essere elevato. Ma ancora una volta: noi da soli siamo troppo deboli per sollevare il nostro cuore fino all’altezza di Dio. Non ne siamo in grado. Proprio la superbia di poterlo fare da soli ci tira verso il basso e ci allontana da Dio. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce. Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile, dice oggi la seconda lettura. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto.
Il Salmo processionale 24, che la Chiesa ci propone come “canto di ascesa” per la liturgia di oggi, indica alcuni elementi concreti, che appartengono alla nostra ascesa e senza i quali non possiamo essere sollevati in alto: le mani innocenti, il cuore puro, il rifiuto della menzogna, la ricerca del volto di Dio. Le grandi conquiste della tecnica ci rendono liberi e sono elementi del progresso dell’umanità soltanto se sono unite a questi atteggiamenti – se le nostre mani diventano innocenti e il nostro cuore puro, se siamo in ricerca della verità, in ricerca di Dio stesso, e ci lasciamo toccare ed interpellare dal suo amore. Tutti questi elementi dell’ascesa sono efficaci soltanto se in umiltà riconosciamo che dobbiamo essere attirati verso l’alto; se abbandoniamo la superbia di volere noi stessi farci Dio. Abbiamo bisogno di Lui: Egli ci tira verso l’alto, nell’essere sorretti dalle sue mani – cioè nella fede – ci dà il giusto orientamento e la forza interiore che ci solleva in alto. Abbiamo bisogno dell’umiltà della fede che cerca il volto di Dio e si affida alla verità del suo amore.
La questione di come l’uomo possa arrivare in alto, diventare totalmente se stesso e veramente simile a Dio, ha da sempre impegnato l’umanità. È stata discussa appassionatamente dai filosofi platonici del terzo e quarto secolo. La loro domanda centrale era come trovare mezzi di purificazione, mediante i quali l’uomo potesse liberarsi dal grave peso che lo tira in basso ed ascendere all’altezza del suo vero essere, all’altezza della divinità.
Sant’Agostino, nella sua ricerca della retta via, per un certo periodo ha cercato sostegno in quelle filosofie. Ma alla fine dovette riconoscere che la loro risposta non era sufficiente, che con i loro metodi egli non sarebbe giunto veramente a Dio. Disse ai loro rappresentanti: Riconoscete dunque che la forza dell’uomo e di tutte le sue purificazioni non basta per portarlo veramente all’altezza del divino, all’altezza a lui adeguata. E disse che avrebbe disperato di se stesso e dell’esistenza umana, se non avesse trovato Colui che fa ciò che noi stessi non possiamo fare; Colui che ci solleva all’altezza di Dio, nonostante la nostra miseria: Gesù Cristo che, da Dio, è disceso verso di noi e, nel suo amore crocifisso, ci prende per mano e ci conduce in alto.
Noi andiamo in pellegrinaggio con il Signore verso l’alto. Siamo in ricerca del cuore puro e delle mani innocenti, siamo in ricerca della verità, cerchiamo il volto di Dio. Manifestiamo al Signore il nostro desiderio di diventare giusti e Lo preghiamo: Attiraci Tu verso l’alto! Rendici puri! Fa’ che valga per noi la parola che cantiamo col Salmo processionale; cioè che possiamo appartenere alla generazione che cerca Dio, “che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe” (Sal 24,6). Amen.
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La Settimana Santa è seguire una Persona (Contributi 457)

Un testo di Mons. Nicola Bux per comprendere meglio la Settimana Santa:

La liturgia della Settimana Santa, e nello stesso tempo la vita cristiana, vuol dire seguire Cristo nel suo culmine, l’offerta di sé al padre Onnipotente per salvare l’umanità dal peccato. Seguire i riti della Settimana Santa vuol dire seguire le orme di Cristo. Non si possono seguire i riti e nello stesso tempo non vivere quello che Cristo stesso è, cioè seguire la sua persona.

La Settimana santa, che è chiamata così perché è il cuore di tutto l’anno, vuol dire che Gesù non è un’idea ma è una persona da seguire. E il fatto che noi scorriamo attraverso la liturgia i momenti drammatici, conclusivi della vicenda terrena di Gesù, vuol dire che per ottenere da Cristo la vita bisogna seguirne le orme ed essere così guariti, come dice san Pietro: “Egli ci ha dato l’esempio perché ne seguiamo le orme”. Non è soltanto un messaggio o uno sguardo esteriore ma significa guardare Cristo e unirsi a lui nella medesima offerta totale nel sacrificio di sé.
Questo comincia già con la Domenica di Passione, chiamata comunemente delle Palme, ma che è domenica di Passione perché è il primo termine del binomio, il secondo è la domenica pasquale. La domenica di Passione sta alla domenica di Pasqua come la morte di Cristo sta alla sua Glorificazione. Sin dall’antichità il racconto della Passione ha impressionato profondamente la comunità cristiana e viene considerato un unicum che non si può frazionare. Viene proposto già alla domenica perché la domenica della Passione è la domenica che introduce Cristo non solo in Gerusalemme, ma anche nel Sacrificio. Nella liturgia bizantina l’ingresso in Gerusalemme viene evocato al momento dell’offertorio, quando si portano i doni del pane e del vino per l’eucarestia; si fa una processione che nel simbolismo orientale sta ad indicare l’ingresso di Cristo in Gerusalemme, perché Cristo è entrato a Gerusalemme per dare compimento al suo sacrificio.
E’ anche il senso del trionfo delle palme, perché la palma vuol dire vittoria: la vittoria è quella del martirio, i martiri vengono rappresentati in genere con la palma. Cristo è il martire per eccellenza, entra nel santuario per dare testimonianza dell’offerta totale di sé, è l’immolazione sacrificale per i peccati del mondo.
Giustamente quindi la Chiesa ha trattenuto nella domenica – e non solo il venerdì - che precede la Resurrezione la meditazione sulla Passione di Cristo, che così è davanti allo sguardo di tutta la Chiesa. La Passione del Signore, dice la preghiera di colletta della scorsa domenica, deve portare a vivere e agire secondo la carità che spinse il figlio di Dio a dare la vita per noi. Quindi guardare a Cristo significa proprio questo: vivere e agire in quella carità che lo spinse a dare la vita per noi. Per fare questo c’è bisogno del suo aiuto, della sua grazia. Anche la colletta delle Palme ha un significato simile: si prega il Signore onnipotente che avendoci dato come modello Cristo nostro salvatore che si è fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, noi possiamo sempre aver presente l’insegnamento della sua Passione per partecipare alla gloria della Resurrezione. Qui si dimostra la natura esemplare della Passione di Cristo, ma non solo. Non è solo un esempio da seguire ma anche una grazia da ricevere, perché attraverso la sua Passione, la sua efficacia, noi siamo fatti partecipi della gloria, della Resurrezione.
Ancora una volta, come dice il Papa nel libro “Gesù di Nazaret”, si rivela che l’onnipotenza di Dio, il suo essere vicino al mondo, il suo salvare il mondo, non passa attraverso i criteri mondani o la potenza o la forza del mondo, ma attraverso quella debolezza, quella discrezione, quella vicinanza che è propria di un essere che è libero e ci ha creati liberi, che vuole vincere convincendoci con il suo amore.
Questo è il senso della apertura della Domenica delle Palme e della Settimana Santa, che possiamo descrivere come una grande sinfonia, usando un linguaggio musicale. Si passa dalla gioia dell’ingresso in Gerusalemme alla tristezza della Passione per poi tornare, dopo la gioia della mistica cena, all’angoscia del Getsemani, poi ancora al dramma che sfiora quasi la tragedia del Venerdì Santo, la morte di Cristo che sarebbe una tragedia se Cristo non fosse resuscitato; e quindi poi alla speranza, l’attesa del sabato e alla gioia prorompente, ma tutta profonda e interiore, della Domenica di Resurrezione.
Il triduo pasquale richiama i tre giorni promessi da Cristo, in cui avrebbe sofferto, sarebbe stato crocifisso, sepolto, però al terzo giorno sarebbe resuscitato. Il triduo, il terzo giorno visto come il giorno creato dal Signore, terzo giorno che coincide con l’ottavo della Creazione: il primo giorno dopo il sabato, ovvero dopo i sette giorni della Creazione, l’ottavo è la nuova Creazione.
All’interno di questo grande affresco si colloca il triduo pasquale che ha un anticipo il Giovedì santo, perché il triduo pasquale strettamente inteso è venerdì, sabato e domenica. Però nella liturgia latina c’è un inizio il giovedì sera con la commemorazione della Cena del Signore, per cui i tre giorni vanno dal vespro del giovedì fino al vespro della domenica. E’ l’unico momento dell’anno in cui si celebra una messa per commemorare la Cena del Signore, perché – contrariamnete a quanto molti credono - la messa non commemora l’ultima cena. La messa è la ripresentazione del sacrificio di Cristo sulla croce e quindi la cena di Cristo, l’ultima cena, in realtà non è più celebrata perché i gesti che Gesù ha compiuto in quella cena sono stati trasfigurati nell’offerta del suo corpo e del suo sangue sulla Croce.
Una nota va dedicata alla lavanda dei piedi, che si ricorda nella messa del Giovedì santo. Solo Giovanni parla della lavanda dei piedi, con cui vuole sottolineare che quanto Cristo ha fatto e ha detto, cioè l’eucarestia ovvero l’offerta di sé, ha un simbolo nel gesto della purificazione compiuta. E’ un servizio che egli fa perché vuole indicare che l’eucarestia è un culto che implica un servizio, l’eucarestia deve essere obbedita, non può essere creata, inventata, manipolata. Bisogna obbedire. Siamo in un’epoca di grande anarchia liturgica, invece proprio la lavanda dei piedi è un atto sacro che è tranquillamente speculare a quello della consacrazione del pane e del vino. Gesù ha voluto dire: guardate che dovete lasciarvi lavare i piedi da me, dovete lasciarvi fare da me, non dovete mettere voi davanti a me. Lo ha detto chiaramente quando Pietro gli disse che giammai si sarebbe fatto lavare i piedi, e sappiamo come Gesù gli ha risposto. Aldilà di riduzionismi di natura caritatevole o sociologica, la lavanda dei piedi ha un profondo significato sacramentale, richiama che il sacramento dell’eucarestia è il sacramento dell’obbedienza dell’uomo a Dio perché Cristo ha obbedito al padre facendosi – come lui dice – battezzare con un battesimo di sangue. Battesimo che a nessuno è dato di poter ricevere se non lo vuole, se non lo decide lui, il Signore. E quindi ogni sacramento non è un bene disponibile, nemmeno da parte della Chiesa. La Chiesa non dispone dei sacramenti, li amministra. Tantomeno un prete o un laico può immaginare di manipolare i sacramenti. Egli deve servirli – servire la messa, si diceva una volta – deve servirli come Cristo ha servito i discepoli.
Poi il Venerdì santo è dedicato tutta alla Passione di Cristo, non c’è nemmeno la messa. Già la messa del Giovedì santo si celebra solo in Occidente, ma si è introdotta come un momento commemorativo, mentre la vera grande messa è quella della veglia pasquale, l’unica messa che ricorda tutto il mistero pasquale: dall’eucarestia alla morte sulla croce, alla sepoltura, alla Resurrezione. Il Venerdì santo non c’è messa ma è tutto dedicato alla commemorazione liturgica attraverso le preghiere, il centro è l’adorazione della Croce dopo aver meditato sulla Passione secondo San Giovanni.
Il Sabato santo è un giorno senza alcuna liturgia perché dedicato alla meditazione e all’attesa. Meditazione su Cristo sepolto e attesa della sua Resurrezione. E’ il giorno del silenzio dove Dio parola tace. Ma parla attraverso il figlio che è sceso fino nel profondo della terra per mostrare la sua condivisione con la condizione umana. Morto e sepolto. Ed è proprio colui che parola eterna si è incarnato, venuto nella nostra carne, sceso in terra, che è sceso anche sotto terra, “agli inferi” come dice il Credo apostolico. Cioè è sceso laddove secondo la tradizione ebraica c’erano le ombre dei morti, coloro che l’avevano preceduto ma non erano entrati in Paradiso perché il Paradiso era serrato dopo la cacciata di Adamo. Cristo, morendo, ha riaperto il Paradiso ed è sceso agli inferi: ha preso per mano i progenitori Adamo ed Eva, e poi tutti i patriarchi e tutti i giusti che, pur essendo stati giusti, non avevano potuto entrare nel Paradiso perché chiuso, Paradiso che invece la morte di Cristo ha riaperto.
Cristo scende fino agli inferi, un mistero poco conosciuto anche perché non ha una sua rappresentazione liturgica; ce l’ha iconografica ma non liturgica. Il Sabato santo è la discesa dell’anima di Cristo fino agli inferi, mentre il corpo rimane sepolto in attesa del ricongiungimento anima, corpo e spirito per risorgere. Questo viene celebrato nella notte di Pasqua quando tanta gente (celebrare vuol dire numerosi) accorre per ricordare, per vivere l’avvenimento che certamente è avvenuto nella storia, come ricorda Benedetto XVI, ma che ha superato la storia. La resurrezione di Cristo è un avvenimento storico ma nello stesso tempo ha superato la storia, ha inaugurato una nuova storia, la storia di Dio aperta al compimento futuro. E quindi viene celebrata la veglia attraverso alcuni elementi fondamentali anche per la stessa natura: il fuoco, la luce, l’acqua, il vino, il pane, l’olio: tutti i sacramenti entrano in gioco la notte di Pasqua per indicare che Cristo ha fatto nuove tutte le cose. Attraverso il rinnovamento delle cose, anche quelle materiali, fa passare la potenza della sua resurrezione.
Dall’efficacia della Croce alla potenza della Resurrezione nella notte della domenica. Efficacia e potenza, sono due termini piuttosto dimenticati oggi perché nella pastorale e nella catechesi ormai Cristo è ridotto a un’idea, a un progetto, addirittura a un sogno, come si può leggere in tanti titoli, anche ecclesiastici. Ma Cristo non è un progetto e neanche un sogno, Cristo è una persona, un fatto presente con il quale noi siamo chiamati a vivere.
Non solo a condividere un’idea o seguire un esempio, ma vivere per ricevere una vita, che noi chiamiamo con una parola tradizionale: Grazia, cioè una vita donata gratis. A motivo dell’offerta sacrificale Cristo ha reso efficace ogni offerta, ogni pur minima azione umana, e quindi da questa efficacia si passa alla potenza della Resurrezione perché se Cristo non fosse risorto la nostra fede non esisterebbe, come ricorda l’apostolo Paolo.
Quindi il prorompere del fuoco all’inizio della veglia indica proprio questa potenza divina che dalla Creazione passa attraverso la liberazione di Israele dall’Egitto, giunge fino alla Resurrezione e alla Pentecoste, il fuoco dello Spirito Santo. E poi naturalmente tutto è meditato con quella trilogia di lettura-salmo-preghiera che caratterizza la liturgia della Parola, la lunga liturgia della Parola della notte pasquale. Si passa quindi all’acqua – terza parte della veglia - che distrugge il peccato e regala una vita che salva, che rigenera. E dalla rigenerazione del Battesimo si passa al quarto momento della veglia che è l’Eucarestia, il Signore risorto che con le sue cicatrici si mostra spezzando il pane e consacrando il vino. E quindi tutti sono riconciliati e tutti sono veramente gioiosi, quella gioia che l’exultet, questo celebre inno che apre la veglia pasquale, fa risalire al cielo, agli angeli e a tutte le schiere degli angeli per la Resurrezione che viene partecipata anche ai mortali. In un certo senso in questa unione di angeli e uomini si riprende anche il tema della notte di Natale, il Gloria in excelsis deo.
Ecco così che si arriva alla domenica di Pasqua che vede le donne di primo mattino andare al sepolcro, trovarlo vuoto, non poter compiere, pur premurose, quell’atto di compassione che non avevano potuto fare per l’imminenza della festa il venerdì al tramonto. Ma quella premura questa volta è stata preceduta da un’altra premura sorprendente, quella del Padre onnipotente che ha visto il sacrificio del Figlio e gli ha restituita una vita più bella e più grande, come dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis: la Resurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma è una vita più grande, una vita che nasce dall’amore. Così la ragione eterna, il logos eterno coincide con l’amore indistruttibile, perché Dio è il logos, è il vero, è parola, è ragione, perché Dio è essenzialmente amore.
E così si chiude con il vespro di Pasqua il triduo, che poi ovviamente riecheggia per ben otto giorni nell’ottava di Pasqua e poi per 50 giorni fino alla Pentecoste, come se fosse – dice Sant’Agostino - una sola grande domenica.
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