Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

domenica 29 settembre 2013

Chi è il catechista?

Omelia di Papa Francesco per la Giornata dei Catechisti


1. «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri, … distesi su letti d’avorio» (Am 6,1.4), mangiano, bevono, cantano, si divertono e non si curano dei problemi degli altri.
Parole dure queste del profeta Amos, ma che ci mettono in guardia da un pericolo che tutti corriamo. Che cosa denuncia questo messaggero di Dio, che cosa mette davanti agli occhi dei suoi contemporanei e anche davanti ai nostri occhi oggi? Il rischio di adagiarsi, della comodità, della mondanità nella vita e nel cuore, di avere come centro il nostro benessere. E’ la stessa esperienza del ricco del Vangelo, che indossava vestiti di lusso e ogni giorno si dava ad abbondanti banchetti; questo era importante per lui. E il povero che era alla sua porta e non aveva di che sfamarsi? Non era affare suo, non lo riguardava. Se le cose, il denaro, la mondanità diventano centro della vita ci afferrano, ci possiedono e noi perdiamo la nostra stessa identità di uomini: guardate bene, il ricco del Vangelo non ha nome, è semplicemente “un ricco”. Le cose, ciò che possiede sono il suo volto, non ne ha altri.
Ma proviamo a domandarci: come mai succede questo? Come mai gli uomini, forse anche noi, cadiamo nel pericolo di chiuderci, di mettere la nostra sicurezza nelle cose, che alla fine ci rubano il volto, il nostro volto umano? Questo succede quando perdiamo la memoria di Dio. “Guai agli spensierati di Sion”, diceva il profeta. Se manca la memoria di Dio, tutto si appiattisce, tutto va sull’io, sul mio benessere. La vita, il mondo, gli altri, perdono la consistenza, non contano più nulla, tutto si riduce a una sola dimensione: l’avere. Se perdiamo la memoria di Dio, anche noi stessi perdiamo consistenza, anche noi ci svuotiamo, perdiamo il nostro volto come il ricco del Vangelo! Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità – dice un altro grande profeta, Geremia (cfr Ger 2,5). Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, non a immagine e somiglianza delle cose, degli idoli!
2. Allora, guardandovi, mi chiedo: chi è il catechista? E’ colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri. E’ bello questo: fare memoria di Dio, come la Vergine Maria che, davanti all’azione meravigliosa di Dio nella sua vita, non pensa all’onore, al prestigio, alle ricchezze, non si chiude in se stessa. Al contrario, dopo aver accolto l’annuncio dell’Angelo e aver concepito il Figlio di Dio, che cosa fa? Parte, va dall’anziana parente Elisabetta, anch’essa incinta, per aiutarla; e nell’incontro con lei il suo primo atto è la memoria dell’agire di Dio, della fedeltà di Dio nella sua vita, nella storia del suo popolo, nella nostra storia: «L’anima mia magnifica il Signore … perché ha guardato l’umiltà della sua serva … di generazione in generazione la sua misericordia» (Lc 1,46.48.50). Maria ha memoria di Dio.
In questo cantico di Maria c’è anche la memoria della sua storia personale, la storia di Dio con lei, la sua stessa esperienza di fede. Ed è così per ognuno di noi, per ogni cristiano: la fede contiene proprio la memoria della storia di Dio con noi, la memoria dell’incontro con Dio che si muove per primo, che crea e salva, che ci trasforma; la fede è memoria della sua Parola che scalda il cuore, delle sue azioni di salvezza con cui ci dona vita, ci purifica, ci cura, ci nutre. Il catechista è proprio un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà. Parlare e trasmettere tutto quello che Dio ha rivelato, cioè la dottrina nella sua totalità, senza tagliare né aggiungere.
San Paolo raccomanda al suo discepolo e collaboratore Timoteo soprattutto una cosa: Ricordati, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, che io annuncio e per il quale soffro (cfr 2 Tm 2,8-9). Ma l’Apostolo può dire questo perché lui per primo si è ricordato di Cristo, che lo ha chiamato quando era persecutore dei cristiani, lo ha toccato e trasformato con la sua Grazia.
Il catechista allora è un cristiano che porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri. E’ impegnativo questo! Impegna tutta la vita! Lo stesso Catechismo che cos’è se non memoria di Dio, memoria della sua azione nella storia, del suo essersi fatto vicino a noi in Cristo, presente nella sua Parola, nei Sacramenti, nella sua Chiesa, nel suo amore? Cari catechisti, vi domando: siamo noi memoria di Dio? Siamo veramente come sentinelle che risvegliano negli altri la memoria di Dio, che scalda il cuore?
3. «Guai agli spensierati di Sion», dice il profeta. Quale strada percorrere per non essere persone “spensierate”, che pongono la loro sicurezza in se stessi e nelle cose, ma uomini e donne della memoria di Dio? Nella seconda Lettura san Paolo, scrivendo sempre a Timoteo, dà alcune indicazioni che possono segnare anche il cammino del catechista, il nostro cammino: tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza (cfr 1 Tm 6,11).
Il catechista è uomo della memoria di Dio se ha un costante, vitale rapporto con Lui e con il prossimo; se è uomo di fede, che si fida veramente di Dio e pone in Lui la sua sicurezza; se è uomo di carità, di amore, che vede tutti come fratelli; se è uomo di “hypomoné”, di pazienza, di perseveranza, che sa affrontare le difficoltà, le prove, gli insuccessi, con serenità e speranza nel Signore; se è uomo mite, capace di comprensione e di misericordia.
Preghiamo il Signore perché siamo tutti uomini e donne che custodiscono e alimentano la memoria di Dio nella propria vita e la sanno risvegliare nel cuore degli altri. Amen.
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Domenica XXVI t. ord."C" 29-set-2013 (Angelus 156)

Cari fratelli e sorelle, 
prima di concludere questa celebrazione, voglio salutarvi tutti e ringraziarvi della vostra partecipazione, specialmente i catechisti venuti da tante parti del mondo. 
Un saluto particolare rivolgo al mio Fratello Sua Beatitudine Youhanna X, Patriarca greco ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente. La sua presenza ci invita a pregare ancora una volta per la pace in Siria e nel Medio Oriente. 
Saluto i pellegrini venuti da Assisi a cavallo; come pure il Club Alpino Italiano, nel 150° della sua fondazione. 
Saludo con afecto a los peregrinos de Nicaragua, recordando que los pastores y fieles de esa querida Nación celebran con alegría el centenario de la fundación canónica de la Provincia eclesiástica. 
Con gioia ricordiamo che ieri, in Croazia, è stato proclamato Beato Miroslav Bulešić, sacerdote diocesano, morto martire nel 1947. Lodiamo il Signore, che dona agli inermi la forza dell’estrema testimonianza. 
Ci rivolgiamo ora a Maria con la preghiera dell’Angelus.
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sabato 28 settembre 2013

Per conoscere Gesù

26 settembre 2013 

Per conoscere veramente Gesù bisogna parlare con lui, dialogare con lui mentre lo seguiamo sulla sua strada. Papa Francesco ha incentrato proprio sulla conoscenza di Gesù l’omelia della messa celebrata questa mattina, giovedì 26 settembre, nella cappella di Santa Marta. Il Pontefice ha preso spunto dal brano del Vangelo di Luca (9, 7-9) nel quale Erode si interroga su chi sia quel Gesù di cui sente tanto parlare. La persona di Gesù, ha ricordato il Pontefice, ha suscitato spesso domande del tipo: «Chi è costui? Da dove viene? Pensiamo a Nazareth, per esempio, nella sinagoga di Nazareth, quando se n’è andato per la prima volta: ma dove ha imparato queste cose? Noi lo conosciamo bene: è il figlio del falegname. Pensiamo a Pietro e agli apostoli dopo quella tempesta, quel vento che Gesù ha fatto tacere. Ma chi è costui al quale obbediscono il cielo e la terra, il vento, la pioggia, la tempesta? Ma chi è?». 
Domande, ha spiegato il Papa, che si possono fare per curiosità o per avere sicurezze sul modo di comportarsi davanti a lui. Resta comunque il fatto che chiunque conosca Gesù si fa queste domande. Anzi, «alcuni — ha proseguito il Papa tornando all'episodio evangelico — incominciamo a sentire paura di quest’uomo, perché li può portare a un conflitto politico con i romani»; e dunque pensano di non tenere maggiormente in considerazione «quest’uomo che crea tanti problemi». 
E perché, si è chiesto il Pontefice, Gesù crea problemi? «Non si può conoscere Gesù — è stata la sua risposta — senza avere problemi». Paradossalmente, ha aggiunto, «se tu vuoi avere un problema, vai per la strada che ti porta a conoscere Gesù» e allora di problemi ne sorgeranno tanti. In ogni caso, Gesù non si può conoscere «in prima classe» o «nella tranquillità», tantomeno «in biblioteca». Gesù lo si conosce solo nel cammino quotidiano della vita. 
E lo si può conoscere, ha affermato il Santo Padre, «anche nel catechismo. È vero! Il catechismo — ha precisato — ci insegna tante cose su Gesù e dobbiamo studiarlo, dobbiamo impararlo. Così impariamo che il Figlio di Dio è venuto per salvarci e capiamo dalla bellezza della storia della salvezza l’amore del Padre». Resta comunque il fatto che anche la conoscenza di Gesù attraverso il catechismo «non è sufficiente»: conoscerlo con la mente è già un passo in avanti, ma «Gesù è necessario conoscerlo nel dialogo con lui. Parlando con lui, nella preghiera, in ginocchio. Se tu non preghi, se tu non parli con Gesù — ha detto — non lo conosci». 
C’è infine una terza strada per conoscere Gesù: «È la sequela, andare con lui, camminare con lui, percorrere le sue strade». E mentre si cammina con lui, si conosce «Gesù con il linguaggio dell’azione. Se tu conosci Gesù con questi tre linguaggi: della mente, del cuore, dell’azione, allora puoi dire di conoscere Gesù». Fare questo tipo di conoscenza comporta il coinvolgimento personale. «Non si può conoscere Gesù — ha ribadito il Pontefice — senza coinvolgersi con lui, senza scommettere la vita per lui». Dunque per conoscerlo davvero è necessario leggere «quello che la Chiesa ti dice di lui, parlare con lui nella preghiera e camminare nella sua strada con lui». Questa è la strada e «ognuno — ha concluso — deve fare la sua scelta». 
(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIII, n. 221, Ven. 27/09/2013) 
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giovedì 26 settembre 2013

La teologia è scienza, l'ateismo è fantascienza (Contributi 898)

Ecco un articolo di Massimo Introvigne da La Bussola: 

A ciascuno la sua lettera. Se Eugenio Scalfari ha ricevuto posta da Papa Francesco, il matematico e propagandista dell'ateismo Piergiorgio Odifreddi, dopo avere pubblicato un libro intitolato «Caro Papa ti scrivo», si è visto arrivare una risposta dal Papa Emerito Benedetto XVI. Le undici pagine saranno pubblicate in integro da Mondadori in una nuova edizione del libro di Odifreddi: le leggeremo con interesse, non senza rilevare che il matematico diventerà il primo ateo che farà un po' di soldi vendendo la lettera di un Papa. Ma intanto Odifreddi ha pubblicato un corposo estratto - non un riassunto, tutte le frasi sono di Papa Ratzinger - sulla casa madre di tutti gli atei che si rispettino, Repubblica, che di questi tempi ogni tanto assomiglia all'Osservatore Romano. 
Al di là del dato curioso, la lettera è una piccola lezione di apologetica. Benedetto XVI ringrazia Odifreddi per avere letto «fin nel dettaglio» i suoi libri su Gesù di Nazaret - non è poco, considerando quanti criticano senza leggere -, comunica al matematico che anche lui, Ratzinger, ha letto il suo testo, e gli confessa che «il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell’avventatezza dell’argomentazione». Di questa sorta di recensione critica di Benedetto XVI al libro di Odifreddi, «Repubblica» pubblica quattro parti. 
La prima attiene alla teologia, che per Odifreddi non sarebbe scienza ma fantascienza. Dopo un bonario commento ironico su perché mai, se si tratta di mera fantascienza, Odifreddi passa tanto tempo a occuparsene, il Papa emerito sviluppa la sua replica su due piani. Anzitutto, osserva che se pure «è corretto affermare che “scienza” nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l’aritmetica e la geometria», in senso ampio parliamo di scienza per qualunque disciplina che «applichi un metodo verificabile, escluda l’arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità». La teologia corrisponde a questi criteri, e dunque è scienza. Inoltre, ha contribuito in modo notevole alla cultura occidentale, e ha mantenuto vivo il dialogo fra fede e ragione. Questo dialogo è essenziale anche per i non credenti: «esistono patologie della religione e – non meno pericolose – patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l’una dell’altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia». 
In secondo luogo, Papa Ratzinger osserva che «la fantascienza esiste, d'altronde, nell'ambito di molte scienze». Esiste «nel senso buono»: Benedetto XVI cita scienziati come Werner Heisenberg (1901-1976) e Erwin Schrödinger (1887-1961) che hanno proposto «visioni ed anticipazioni», «immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà», una fantascienza che però è stata utile alla scienza. Ma gli scienziati, afferma il Papa emerito, producono talora «fantascienza in grande stile» in senso meno buono, per esempio «all’interno della teoria dell’evoluzione» usata per cercare di fornire un'impossibile prova scientifica dell'ateismo. 
Con un po' di malizia Papa Ratzinger cita le teorie del biologo e divulgatore scientifico Richard Dawkins, infaticabile propagandista dell'ateismo e amico di Odifreddi, come «un esempio classico di fantascienza» spacciata per scienza. Uno dei padri dell'evoluzionismo, Jacques Monod (1910-1976), nota ancora non senza umorismo Benedetto XVI, nel suo fin troppo famoso «Il caso e la necessità», «ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza». Papa Ratzinger ne cita una: «La comparsa dei Vertebrati tetrapodi... trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo “scelse” di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari...». Non potendo dimostrare questa storiella, Monod, come tanti evoluzionisti, ha prodotto tecnicamente fantascienza, e neppure della migliore qualità. 
Secondo capitolo della risposta di Benedetto XVI. Odifreddi insiste sui preti pedofili. È una tragedia che da Pontefice Ratzinger, dice, ha affrontato «con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall'altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano». Per quanto questo non consoli né le vittime né il Papa emerito, questo fa però osservare a Odifreddi che «secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili». 
Dunque «non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo». E, se «non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli» e continua a lasciare oggi. Basti pensare alle «grandi e nobili figure della Torino dell’Ottocento» che, insegnando a Torino, Odifreddi dovrebbe conoscere. 
Terzo estratto: Papa Ratzinger bacchetta Odifreddi per «quanto dice sulla figura di Gesù [che] non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po’ più competente da un punto di vista storico». Benedetto XVI fornisce al matematico un po' di bibliografia accademica, neppure cattolica, da cui Odifreddi potrà facilmente ricavare che «ciò che dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere». 
Forse lo studioso ateo si è fatto fuorviare, insinua il Papa emerito, dalle «molte cose di scarsa serietà» pubblicate da esegeti progressisti, i quali - il Pontefice emerito cita un commento di Albert Schweitzer (1875-1965), che non fu solo un missionario protestante della carità ma anche un celebre teologo - confermano solo che spesso «il cosiddetto “Gesù storico” è per lo più lo specchio delle idee degli autori». Ma «tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l’importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l'annuncio e la figura di Gesù». E Odifreddi ha capito male Benedetto XVI se pensa che egli proponga un rifiuto del metodo storico-critico: al contrario, per il Papa emerito «l'esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico». 
Il quarto estratto va al cuore della visone del mondo atea. Per Odifreddi, come per Dawkins, non c'è bisogno di Dio perché tutto si spiega con la Natura. La risposta di Benedetto XVI è antica, ma sempre persuasiva: «Se Lei, però, vuole sostituire Dio con “La Natura”, resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla». Ma soprattutto nella religione atea di Odifreddi «tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male». Dell'amore e del male Odifreddi non parla, e la libertà è liquidata come un'illusione che sarebbe smascherata come tale dalla neurobiologia. Ma «qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione». E un religione che rifiuta la libertà e non dà risposte sull'amore e sul male «resta vuota». 
Interessa anche a pochi: le statistiche sociologiche confermano che Odifreddi potrà anche vendere tanti libri, ma queste vendite e tutto il foklore dei vari autobus atei non fanno aumentare il numero degli atei. A Odifreddi interessano solo i fatti misurabili. È un fatto misurabile che Papa Francesco, e anche Papa Benedetto, persuadono molte più persone degli atei militanti. 
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martedì 24 settembre 2013

L’Occidente non vuole vedere che ci hanno dichiarato guerra (Contributi 897)

Intervista a Domenico Quirico da Tempi 

«Noi non vogliamo capire che l’islam moderato non esiste, che la Primavera araba è finita e che la sua nuova fase consiste nel progetto islamista e jihadista di costruire il Grande califfato islamico. Neanche a dirlo, il principale ostacolo alla sua costruzione siamo noi». Domenico Quirico, inviato della Stampa, rapito in Siria e rimasto nelle mani dei ribelli per cinque mesi, riassume in una grande «dichiarazione di guerra» dell’islam all'Occidente gli attentati in Siria, Pakistan, Nigeria, Egitto e Kenya a cui stiamo assistendo in questi giorni. [..] racconta «quello che ci sfugge, perché ci fa comodo far finta di non vedere». 

Cos'è che non vogliamo vedere? 
Che esiste un jihadismo internazionale che ha dichiarato guerra all'Occidente, strutturato militarmente e con un progetto politico che viene sistematicamente messo in atto in diverse parti del globo. Qual è il loro obiettivo? Ricreare il Grande califfato islamico del sesto secolo, che è stato il momento di massima espansione militare e politica dell’islam nel mondo. Allora, andavano dall'Europa all'Asia. È chiaro quindi che il principale ostacolo nella costruzione di questo progetto politico siamo noi. 
Ma Al Qaeda non stava perdendo terreno? 
Le cose sono cambiate. Al Qaeda oggi propone una sfida molto radicale: costruire uno Stato islamico che faccia da nucleo per un successivo sviluppo militare e politico che inglobi il Medio Oriente, il Maghreb, il Sahel e arrivi fino alla Spagna. 
La Spagna? 
Sì, è considerata terra musulmana da riconquistare. E tutto questo viene detto con grande chiarezza e sincerità. Non sono trame oscure che si muovono nella testa di qualche nostalgico del Medioevo, è un progetto politico preciso che ha armi, eserciti e soldi. E che si sta realizzando a partire dalla Siria. 
In un articolo ha definito l’Occidente «debole e brutale». Perché? 
Perché alterniamo una vigliaccheria che ci contraddistingue da decenni a momenti di apparente energia come l’intervento franco-inglese in Libia. Prendiamo la Siria: siamo passati dall’immobilismo, quando intervenire sarebbe stato politicamente intelligente ed eticamente obbligatorio, cioè quando la rivoluzione era ancora laica e democratica e non islamica, a progetti totalmente idioti come quello degli Stati Uniti di Obama di bombardare l’esercito di Assad, dando così ad Al Qaeda l’unica cosa che ancora gli manca: l’aviazione. 
Pakistan, Nigeria, Egitto, Kenya: gli attentati terroristici si moltiplicano dovunque. 
Questa nuova “internazionale islamica” è in grado di spostarsi su tanti fronti nuovi con grande rapidità. Perché all'Occidente sfugge questo progetto politico? Ci sfugge perché ci fa comodo far finta di non capire. Se noi capissimo la natura del problema, dovremmo prendere decisioni pratiche e siccome le classi dirigenti dell’Occidente alternano vigliaccheria a momenti di totale obnubilamento mentale, ci attacchiamo come ostriche allo scoglio di questa illusione adatta per i conventi e i salotti televisivi. 
Che tipo di illusione? 
Quella secondo cui l’islam radicale sarebbe un’appendice secondaria di pochi pazzi che girano il mondo per esercitare la loro follia mentre invece l’islam è tollerante, illuminista, pronto ad accogliere le novità che gli porge l’Occidente come internet o Facebook. E noi non ci accorgiamo che invece l’islam moderato ed educato che ci piace tanto è una piccola percentuale di élites collegate all'Occidente. Mentre la maggioranza è un’altra cosa. 
Parla per esperienza personale? 
I signori che ho incontrato in Siria erano tutti giovani ragazzi, certamente non folli di Dio che stavano tutto il giorno a salmodiare nelle moschee, ma che sapevano fare la guerra e avevano un progetto politico preciso. 
Eppure la cosiddetta Primavera araba aveva suscitato grandi speranze. 
La Primavera araba è un periodo che i giornalisti possono ormai consegnare agli storici. È definitivamente tramontata. Siamo in una seconda fase che deriva dalla Primavera araba ma che non è più quella dei giovani di piazza Tahrir o di Avenue Bourghiba. L’islamismo ha raccolto il loro testimone e intelligentemente ha preso l’eredità di qualche cosa che non ha contribuito a costruire, perché bisogna ricordare che gli islamici non hanno partecipato alle rivoluzioni né in Egitto, né in Tunisia né tantomeno in Libia o in Siria. 
Ora invece? 
Ora invece Al Qaeda è la forza maggiore e meglio armata sul territorio e ha cancellato il Free Syrian Army, che raggruppava i rivoluzionari veri. Oggi la Primavera araba si è trasformata nel progetto del Califfato, anche per colpa dei governi occidentali che prima hanno sostenuto le dittature e poi sono stati sorpresi dal movimento rivoluzionario e hanno cercato di fare una conversione ipocrita di 360 gradi. 
Assad è un brutale dittatore, i ribelli hanno dimostrato di non poter garantire un futuro democratico alla Siria. Che cosa può fare adesso l’Occidente? 
Non credo che ora sia possibile e intelligente dal punto di vista politico intervenire in alcun modo in Siria. Il regime è inaccettabile, mentre la nuova rivoluzione non è altro se non jihaidsimo e banditismo, perché ci sono gruppi di criminali che non hanno alcuna ideologia se non quella di riempirsi le saccoccie con estorsioni. Bisogna vedere se il regime avrà le forze necessarie per contenere lo jihadismo, che è ancora possibile. 
Ma i ribelli non stanno avanzando? 
I giornali scrivono curiose storie sul fatto che la rivoluzione avanza ovunque, ma la verità è che Assad controlla ancora le grandi città e finché è così resisterà, anche grazie ai suoi potenti appoggi internazionali. Lei ha detto che l’islam moderato non esiste: un’affermazione molto poco politically correct. Noi vogliamo credere all'islam moderato. Io ho girato tutte le rivoluzioni arabe dal 2011 ad oggi. Quando facevo il corrispondente da Parigi ho trovato moltissimi islamisti moderati che possono andare in televisione a fare dibattiti strappando applausi e facendo commuovere la platea. Poi sono andato sul terreno e ho trovato ben altra realtà. In fondo, è come il bolscevismo. 
Cioè? 
Ha mai conosciuto un bolscevico moderato? No, perché non esiste in natura. Uguale per l’islam. 
Un islamista moderato non può esistere? 
Esatto, perché l’islam è una religione totalizzante e guerriera. Dobbiamo dirlo chiaro: è nata con le guerre di Maometto e ha nella lotta e nella conversione uno dei principi fondamentali del suo esistere. Anche quando diventasse una religione moderata e illuminista non sarebbe più islam, ma un’altra cosa. 
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lunedì 23 settembre 2013

Nostra Segnora ‘e Bonaria bos acumpanzet sempre in sa vida

Omelia di Papa Francesco al Santuario di N.S. di Bonaria, Cagliari 

Oggi si realizza quel desiderio che avevo annunciato in Piazza San Pietro, prima dell’estate, di poter visitare il Santuario di Nostra Signora di Bonaria. 

1. Sono venuto per condividere con voi gioie e speranze, fatiche e impegni, ideali e aspirazioni della vostra Isola, e per confermarvi nella fede. Anche qui a Cagliari, come in tutta la Sardegna, non mancano difficoltà, - ce ne sono tante - problemi e preoccupazioni: penso, in particolare, alla mancanza del lavoro e alla sua precarietà, e quindi all’incertezza per il futuro. La Sardegna, questa vostra bella Regione, soffre da lungo tempo molte situazioni di povertà, accentuate anche dalla sua condizione insulare. E’ necessaria la collaborazione leale di tutti, con l’impegno dei responsabili delle istituzioni - anche la Chiesa - per assicurare alle persone e alle famiglie i diritti fondamentali, e far crescere una società più fraterna e solidale. Assicurare il diritto al lavoro, il diritto a portare pane a casa, pane guadagnato col lavoro! Vi sono vicino! Vi sono vicino, vi ricordo nella preghiera, e vi incoraggio a perseverare nella testimonianza dei valori umani e cristiani così profondamente radicati nella fede e nella storia di questo territorio e della popolazione. Mantenete sempre accesa la luce della speranza! 
2. Sono venuto in mezzo a voi per mettermi con voi ai piedi della Madonna che ci dona il suo Figlio. So bene che Maria, nostra Madre, è nel vostro cuore, come testimonia questo Santuario, dove molte generazioni di Sardi sono salite – e continueranno a salire! – per invocare la protezione della Madonna di Bonaria, Patrona Massima dell’Isola. Qui voi portate le gioie e le sofferenze di questa terra, delle sue famiglie, e anche di quei figli che vivono lontani, spesso partiti con grande dolore e nostalgia per cercare un lavoro e un futuro per sé e per i loro cari. Oggi, noi tutti qui riuniti, vogliamo ringraziare Maria perché ci è sempre vicina, vogliamo rinnovare a Lei la nostra fiducia e il nostro amore. La prima Lettura che abbiamo ascoltato ci mostra Maria in preghiera, nel Cenacolo, insieme agli Apostoli. Maria prega, prega insieme alla comunità dei discepoli, e ci insegna ad avere piena fiducia in Dio, nella sua misericordia. Questa è la potenza della preghiera! Non stanchiamoci di bussare alla porta di Dio. Portiamo al cuore di Dio, attraverso Maria, tutta la nostra vita, ogni giorno! Bussare alla porta del cuore di Dio! 
Nel Vangelo invece cogliamo soprattutto l’ultimo sguardo di Gesù verso sua Madre (cfr Gv 19,25-27). Dalla croce Gesù guarda sua Madre e le affida l’apostolo Giovanni, dicendo: Questo è tuo figlio. In Giovanni ci siamo tutti, anche noi, e lo sguardo di amore di Gesù ci affida alla custodia materna della Madre. Maria avrà ricordato un altro sguardo di amore, quando era una ragazza: lo sguardo di Dio Padre, che aveva guardato la sua umiltà, la sua piccolezza. Maria ci insegna che Dio non ci abbandona, può fare cose grandi anche con la nostra debolezza. Abbiamo fiducia in Lui! Bussiamo alla porta del suo cuore! 
3. E il terzo pensiero: oggi sono venuto in mezzo a voi, anzi siamo venuti tutti insieme per incontrare lo sguardo di Maria, perché lì è come riflesso lo sguardo del Padre, che la fece Madre di Dio, e lo sguardo del Figlio dalla croce, che la fece Madre nostra. E con quello sguardo oggi Maria ci guarda. Abbiamo bisogno del suo sguardo di tenerezza, del suo sguardo materno che ci conosce meglio che chiunque altro, del suo sguardo pieno di compassione e di cura. Maria, oggi vogliamo dirti: Madre, donaci il tuo sguardo! Il tuo sguardo ci porta a Dio, il tuo sguardo è un dono del Padre buono, che ci attende ad ogni svolta del nostro cammino, è un dono di Gesù Cristo in croce, che carica su di sé le nostre sofferenze, le nostre fatiche, il nostro peccato. E per incontrare questo Padre pieno di amore, oggi le diciamo: Madre, donaci il tuo sguardo! Lo diciamo tutti insieme: “Madre, donaci il tuo sguardo!”. “Madre, donaci il tuo sguardo!”. 
Nel cammino, spesso difficile, non siamo soli, siamo in tanti, siamo un popolo, e lo sguardo della Madonna ci aiuta a guardarci tra noi in modo fraterno. Guardiamoci in modo più fraterno! Maria ci insegna ad avere quello sguardo che cerca di accogliere, di accompagnare, di proteggere. Impariamo a guardarci gli uni gli altri sotto lo sguardo materno di Maria! Ci sono persone che istintivamente consideriamo di meno e che invece ne hanno più bisogno: i più abbandonati, i malati, coloro che non hanno di che vivere, coloro che non conoscono Gesù, i giovani che sono in difficoltà, i giovani che non trovano lavoro. Non abbiamo paura di uscire e guardare i nostri fratelli e sorelle con lo sguardo della Madonna, Lei ci invita ad essere veri fratelli. E non permettiamo che qualcosa o qualcuno si frapponga tra noi e lo sguardo della Madonna. Madre, donaci il tuo sguardo! Nessuno ce lo nasconda! Il nostro cuore di figli sappia difenderlo da tanti parolai che promettono illusioni; da coloro che hanno uno sguardo avido di vita facile, di promesse che non si possono compiere. Non ci rubino lo sguardo di Maria, che è pieno di tenerezza, che ci dà forza, che ci rende solidali tra noi. Tutti diciamo: Madre, donaci il tuo sguardo! Madre, donaci il tuo sguardo! Madre, donaci il tuo sguardo! 
Nostra Segnora ‘e Bonaria bos acumpanzet sempre in sa vida.
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Domenica XXV t. ord."C" 22-set-2013 (Angelus 155)

Piazzale antistante il Santuario di Nostra Signora di Bonaria, Cagliari 

Cari fratelli e sorelle, 
prima di concludere questa celebrazione, vi saluto con affetto, in particolare i miei confratelli Vescovi della Sardegna, che ringrazio. Qui, ai piedi della Madonna, vorrei ringraziare tutti e ciascuno di voi, cari fedeli, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, le Autorità e in modo speciale quanti hanno collaborato per organizzare questa visita. Soprattutto voglio affidarvi a Maria, Nostra Signora di Bonaria. Ma in questo momento penso a tutti i numerosi santuari mariani della Sardegna: la vostra terra ha un legame forte con Maria, un legame che esprimete nella vostra devozione e nella vostra cultura. Siate sempre veri figli di Maria e della Chiesa, e dimostratelo con la vostra vita, seguendo l’esempio dei santi! 
A questo proposito, ricordiamo che ieri, a Bergamo, è stato proclamato Beato Tommaso Acerbis da Olera, frate Cappuccino, vissuto tra i secoli sedicesimo e diciassettesimo. Rendiamo grazie per questo testimone dell’umiltà e della carità di Cristo! 
Ora recitiamo insieme la preghiera dell’Angelus. 
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Vi auguro buona domenica e buon pranzo!
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venerdì 20 settembre 2013

3 passi nel ridicolo (Contributi 896)

Un articolo di Antonio Socci 

Quasi cent’anni fa il grande Gilbert K. Chesterton prevedeva che la deriva della moderna mentalità nichilista sarebbe stata – di lì a poco – il ridicolo. Cioè la guerra contro la realtà. 
Intendeva dire che ciò che fino ad allora era stata un’affermazione di buon senso e di razionalità – per esempio che tutti nasciamo da un uomo e da una donna – in futuro sarebbe diventata una tesi da bigotti, un dogmatismo da condannare e sanzionare. Sosteneva che ci dovevamo preparare alla grande battaglia in difesa del buon senso. 
Chesterton infatti scriveva: 
“La grande marcia della distruzione culturale proseguirà. Tutto verrà negato. Tutto diventerà un credo… Accenderemo fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Sguaineremo spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Non ci resterà quindi che difendere non solo le incredibili virtù e saggezze della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso, impossibile universo che ci guarda dritto negli occhi. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Saremo tra coloro che hanno visto eppure hanno creduto”

SPREZZO DEL RIDICOLO 
 Viene da ricordarlo con una certa tristezza in questi giorni nei quali – seguendo la bislacca trovata del governo francese – anche in Italia sta cominciando a dilagare l’idea di sostituire, nella modulistica della burocrazia scolastica, le categorie “padre” e “madre” con la formula “genitore 1” e “genitore 2”. 
Tutto questo perché – secondo l’ideologia “politically correct” – si deve “desessualizzare la genitorialità”. Cioè perché la dizione “padre” e “madre” potrebbe essere sentita come discriminatoria da qualcuno. 
Resistendo allo sconcerto e al ridere vorrei provare a ragionare pacatamente con chi si fa alfiere di questo tipo di trovate. Anzitutto va sottolineato che “i fatti hanno la testa dura” e – con buona pace di certi opinionisti – tutti sulla terra siamo stati generati da un uomo e da una donna. In qualunque modo sia avvenuto il concepimento. 
Quindi la realtà contraddice le opinioni e soprattutto mostra che nessuno può sentirsi “discriminato” da quella formulazione perché tutti, proprio tutti, siamo stati generati da un padre e da una madre e dunque siamo loro figli. 
Ma oggi purtroppo la mentalità dominante afferma che se i fatti contraddicono le opinioni, tanto peggio per i fatti. Così, non potendo “abolire” la natura per legge, si decide di abolire le parole che “dicono” la natura delle cose (domani si potrà decretare per legge che due più due fa sette e che si deve chiamare notte il giorno e giorno la notte).

DISCRIMINAZIONE PEGGIORE 
Torniamo al genitore 1 e al genitore 2. Il fatto è che con questa formula i “politicamente corretti” finiscono pure per creare discriminazioni peggiori. 
Anzitutto discriminano la stragrande maggioranza delle persone che continuano a sentirsi padri e madri – e non genitore 1 e genitore 2 – e continuano farsi chiamare dai figli “papà” e “mamma” (finché non verrà proibito). 
In secondo luogo con la nuova formulazione si discrimina il “genitore 2” che inevitabilmente diventerà secondario. 
Infatti per ovviare a questo problema al Comune di Bologna pare abbiano pensato di adottare un’altra dizione: “genitore” e “altro genitore”. 
Vorrei sommessamente notare che è egualmente discriminatoria verso uno dei genitori. E che entrambe poi sono formule fortemente sessiste, perché sia la “soluzione” veneziana che quella bolognese, usano il termine genitore al maschile, mentre la madre – se vogliamo usare un linguaggio non discriminatorio – è casomai “genitrice”. 
Ma, a quanto pare, in questo caso la discriminazione contro le donne viene ignorata e tenuta in non cale. Alla fine della fiera è evidente che i soli termini che non discriminano nessuno sarebbero “padre” e “madre”. 
Ma ormai l’ideologia dominante ha dichiarato guerra a padri e madri, alla famiglia naturale, alla realtà. E quindi dovremo subire la loro progressiva cancellazione linguistica.
Non solo. L’epurazione del linguaggio andrà avanti (per esempio la parola “matrimonio”, che rimanda evidentemente alla mater, quindi alla generazione) e si dovrà estendere alla letteratura. 

DESESSUALIZZARE TUTTO 
Si dovrà censurare quasi tutto, dall'Odissea, dove Telemaco ha la sfrontatezza di aspettare il padre anziché il genitore 1, all'Amleto dove il protagonista vive anch'esso il dramma della morte del padre. 
Dalla Bibbia, dove la paternità di Abramo dà inizio all'Alleanza e dove Gesù insegna a pregare col “Padre nostro”, indicando in Maria la Madre, fino alla psicoanalisi.
Anche la psicoanalisi dovrà cadere sotto i colpi del politically correct. 
Sigmund Freud nella “Prefazione alla seconda edizione” di “L’interpretazione dei sogni” scrive testualmente: “Questo libro ha infatti per me anche un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro solo dopo averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all'avvenimento più importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo”. 
Come ha notato Hermann Lang “se Freud è da considerare il padre della psicanalisi” da questa citazione “risulterebbe che questa psicanalisi la deve essenzialmente alla relazione con il padre”. 
La psicoanalisi infatti ci spiega che il “padre” e la “madre” non sono soltanto l’ineludibile realtà umana da cui tutti siamo nati e nasciamo, coloro che hanno generato il nostro corpo biologico: essa ci svela che le loro diverse figure permeano pure la nostra psiche, fondano, in modo complementare, la nostra identità profonda e la nostra relazione con tutte le cose. Abolire il padre e la madre dunque rischia di portare all'abolizione (psicologica) dei figli. 
Ricordo solo un pensiero di Freud: “Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre” (da “Il disagio della civiltà”, in Opere, X, Boringhieri, Torino 1978, p. 565). 
Qua, come pure dove parla della madre, come si può “correggere” Freud? Non si può sostituire padre e madre con genitore 1 o genitore 2. Perché non sono intercambiabili. Padre e madre sono complementari. E ineliminabili. 
Ma tutto questo sembra non importare a questo o quell'assessore o politico o ministro o opinionista. Pare che nemmeno ci si accorga dell’enormità e della delicatezza di ciò che si va a spazzar via. Cosa volete che sia la cancellazione di una civiltà millenaria e della stessa natura umana. Basta una delibera del sindaco.
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giovedì 19 settembre 2013

Come una mamma che difende i suoi figli

17/9/2013 
Come una mamma che ci ama, ci difende, ci dà la forza per andare avanti nella lotta contro il male. È questa l’immagine della Chiesa tratteggiata da Papa Francesco oggi, martedì 17 settembre, durante la messa celebrata di prima mattina a Santa Marta. 
Commentando il brano del vangelo di Luca che narra la risurrezione del figlio della vedova di Nain (7, 11-17), il Pontefice ha descritto Gesù che, vedendo la donna davanti al cadavere del suo unico figlio morto, «fu preso da grande compassione». E ha definito il sentimento di Cristo come «la capacità di patire con noi, di essere vicino alle nostre sofferenze e farle sue». Del resto egli sapeva bene «cosa significasse una donna vedova in quel tempo», quando le madri rimaste sole a crescere i propri figli dovevano affidarsi all'aiuto e alla carità di altri. Per questo i precetti di allora vi insistono tanto: «Aiutare gli orfani e le vedove, perché in quel tempo erano i più soli, i più abbandonati». 
Il pensiero del vescovo di Roma è poi andato ad altre figure di vedove di cui si parla nella Bibbia. Verso di loro il Signore mostra una particolare «cura, uno speciale amore», al punto che esse finiscono con il costituire «un’icona della Chiesa, perché — ha spiegato — anche la Chiesa è in un certo senso vedova: il suo sposo se n’è andato e lei cammina nella storia sperando di ritrovarlo, di incontrarsi con lui. Allora lei sarà la sposa definitiva». Ma, ha avvertito, «in questo frattempo la Chiesa è sola», e il Signore non è per lei visibile: dunque, «ha una certa dimensione di vedovanza». 
La prima conseguenza di questa vedovanza è che la Chiesa diventa «coraggiosa», a somiglianza di una madre «che difende i figli», proprio come la vedova del Vangelo «che andava dal giudice corrotto per difendere i figli e alla fine ha vinto». Perché, ha sottolineato il Papa, «la nostra madre Chiesa ha quel coraggio di una donna che sa che i figli sono suoi e deve difenderli e portarli all'incontro con il suo sposo». 
Dal coraggio deriva poi un secondo elemento, la forza, come testimoniano altre vedove descritte nelle Scritture: tra queste Noemi, bisnonna di Davide, «che non aveva paura di rimanere sola», o la vedova maccabea con sette figli, «che per non rinnegare Dio, per non rinnegare la legge di Dio sono stati martirizzati dal tiranno». Di questa donna un particolare ha colpito Papa Francesco: il fatto che la Bibbia sottolinei «che parlava in dialetto, nella prima lingua», proprio come fa «la nostra Chiesa madre», che ci parla «in quella lingua della vera ortodossia che tutti noi capiamo, quella lingua del catechismo, quella lingua forte, che ci fa forti e ci dà anche la fortezza per andare avanti nella lotta contro il male». 
Riassumendo le proprie riflessioni il Pontefice ha dunque ribadito «la dimensione di vedovanza della Chiesa, che cammina nella storia sperando di incontrare, trovare il suo sposo». Del resto, ha evidenziato, «la nostra madre Chiesa è così: è una Chiesa che quando è fedele sa piangere, piange per i suoi figli e prega». Anzi, «quando la Chiesa non piange, qualcosa non va bene»; mentre la Chiesa funziona quando «va avanti e fa crescere i suoi figli, dà loro fortezza, li accompagna fino all'ultimo congedo, per lasciarli nelle mani del suo sposo, che alla fine anche ella incontrerà». 
E poiché il Papa vede la «nostra madre Chiesa in questa vedova che piange», bisogna chiedersi cosa dice il Signore a questa madre per consolarla. La risposta è nelle stesse parole di Gesù riportate da Luca: «Non piangere!». Parole che sembrano dire: non piangere perché «io sono con te, ti accompagno, ti aspetto là, nelle nozze, le ultime nozze, quelle dell’agnello»; smetti di piangere, «questo tuo figlio che era morto adesso vive». E a quest’ultimo, terza figura presente nella scena evangelica, il Signore si rivolge intimandogli: «Ragazzo, dico a te: alzati!». Per il Pontefice sono le stesse parole che il Signore rivolge agli uomini nel sacramento della riconciliazione, «quando noi quando siamo morti per il peccato e andiamo a chiedergli perdono». 
Il racconto di Luca si conclude con la descrizione del giovinetto morto che si leva a sedere e comincia a parlare, e di Gesù che lo restituisce a sua madre. Proprio come fa con noi — ha fatto notare il Papa — «quando ci perdona, quando ci ridà la vita», perché «la nostra riconciliazione non finisce nel dialogo», con il prete che ci dà il perdono, ma si completa «quando lui ci restituisce alla nostra madre». Infatti, ha concluso, «non c’è cammino di vita, non c’è perdono, non c’è riconciliazione fuori della madre Chiesa», tanto che occorre sempre «chiedere al Signore la grazia di essere fiduciosi in questa mamma che ci difende, ci insegna, ci fa crescere».
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Preghiamo per i politici perché ci governino bene

16/9/2013 
Un buon cristiano partecipa attivamente alla vita politica e prega perché i politici amino il loro popolo e lo servano con umiltà. È la riflessione proposta da Papa Francesco, lunedì 16 settembre, durante la messa celebrata nella cappella di Santa Marta. 

Commentando il brano del vangelo di Luca (7, 1-10) dove è narrata la guarigione, a opera di Gesù, del servo del centurione a Cafarnao, il Pontefice ha sottolineato «due atteggiamenti del governante». Egli deve innanzitutto «amare il suo popolo. Gli anziani ebrei dicono a Gesù: egli merita quello che chiede perché ama il nostro popolo. Un governante che non ama non può governare. Al massimo può mettere un po’ d’ordine ma non può governare». E per spiegare il significato dell’amore che il governante deve al suo popolo il Santo Padre ha ricordato l’esempio di Davide che disobbedisce alle regole del censimento sancite dalla legge mosaica per sottolineare l’appartenenza della vita di ogni uomo al Signore (cfr. Esodo 30, 11-12). Davide però, una volta compreso il suo peccato, ha fatto di tutto per evitare la punizione al suo popolo. E questo perché, anche se peccatore, amava il suo popolo. 
Per Papa Francesco il governante deve essere anche umile come il centurione del Vangelo, che avrebbe potuto vantarsi del suo potere se avesse chiesto a Gesù di andare da lui, ma «era un uomo umile e ha detto al Signore: non disturbarti, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto. E con umiltà: dì una parola e il mio servo sarà guarito. Queste sono le due virtù di un governante, così come ci fa pensare la parola di Dio: amore al popolo e umiltà». 
Dunque «ogni uomo e ogni donna che assume responsabilità di governo deve porsi queste due domande: io amo il mio popolo per servirlo meglio? E sono umile da sentire le opinioni degli altri per scegliere la migliore strada?». Se costoro — ha sottolineato il Pontefice — «non si fanno queste domande, il loro governo non sarà buono». 
Anche i governati però devono fare le loro scelte da compiere. Cosa dunque bisogna fare? Dopo aver notato che noi «come popolo abbiamo tanti governanti», il Papa ha ricordato una frase di san Paolo tratta dalla prima lettera a Timoteo (2, 1-8): «Raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio». 
Questo significa — ha puntualizzato Papa Francesco — che «nessuno di noi può dire: ma io non c’entro, sono loro che governano. No, io sono responsabile del loro governo e devo fare del mio meglio perché loro governino bene, partecipando alla politica come posso. La politica, dice la dottrina sociale della Chiesa, è una delle più alte forme della carità, perché è servire il bene comune. E io non posso lavarmene le mani: ciascuno di noi deve fare qualcosa. Ma ormai abbiamo l’abitudine di pensare che dei governanti si deve solo chiacchierare, parlare male di loro e delle cose che non vanno bene». 
In proposito il Santo Padre ha notato che in televisione e sui giornali ricorrono soprattutto “bastonate” per i politici: difficilmente si trovano osservazioni come «questo governante in questo ha fatto bene; questo governante ha questa virtù. Ha sbagliato in questo, in questo e in questo, però in questo ha fatto bene». Dei politici invece si parla «sempre male e si è sempre contro. Forse il governante è un peccatore, come lo era Davide. Ma io devo collaborare, con la mia opinione, con la mia parola, anche con la mia correzione: non sono d’accordo per questo, per questo. Dobbiamo partecipare al bene comune. A volte abbiamo sentito dire: un buon cattolico non si interessa di politica. Ma non è vero: un buon cattolico si immischia in politica offrendo il meglio di sé perché il governante possa governare». 
Qual è allora «la cosa migliore che noi possiamo offrire» ai governanti? «È la preghiera» ha risposto il Pontefice, spiegando: «È quello che Paolo dice: pregate per il re e per tutti quelli che hanno potere». Ma «si dirà: quello è una cattiva persona, deve andare all’inferno. No, prega per lui, prega per lei, perché possa governare bene, perché ami il suo popolo, perché sia umile. Un cristiano che non prega per i governanti non è un buon cristiano. Bisogna pregare. E questo — ha precisato — non lo dico io. Lo dice san Paolo. I governanti siano umili e amino il loro popolo. Questa è la condizione. Noi, i governati, diamo il meglio. Soprattutto la preghiera». 
«Preghiamo per i governanti — ha concluso Papa Francesco — perché ci governino bene. Perché portino la nostra patria, la nostra nazione avanti, e anche il mondo; e ci sia la pace e il bene comune. Questa parola di Dio ci aiuti a partecipare meglio alla vita comune di un popolo: quelli che governano, con il servizio dell’umiltà e con l’amore; i governati, con la partecipazione, e soprattutto con la preghiera».
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Don Giussani è sempre stato un uomo libero, mai ribelle (Contributi 895)

Tratto da Tempi, un articolo di Gianfranco Morra: 

L’ultimo sgarbo a Rimini. Cinque ex sindaci, tutti comunisti o post, hanno chiesto di intitolare a Luigi Giussani una rotonda. Il sindaco in carica (stessa parrocchia) non l’ha voluto. Eppure Rimini è sui media di tutto il mondo non solo per le vacanze balneari, ma anche per il Meeting della Amicizia tra i popoli, da lui voluto, che dal 1980 porta a una città cultura (ne ha bisogno!) e anche soldi.
Ma Giussani, agli sgarri, c’era abituato, tanti ne ha avuti in vita. Non se n’è mai preoccupato, tanto meno risentito. Ora possiamo conoscerlo meglio da un ampia documentatissima ricerca, che ne ripercorre la vita, dalla nascita a Desio alla sua Milano, dove operò e si spense (Vita di don Giussani, Rizzoli, pp. 1350, euro 25). Molto sapevamo di lui. Ora Alberto Savorana vi aggiunge, con «intelletto d’amore», nuovi elementi, tratti da documenti interviste, lettere, carteggi, testimonianze. La mole del volume può impensierire, ma lo stile, agile e vivace, è un gradevole misto di rispetto e familiarità. Le tappe di una vita si succedono come limpidi fotogrammi: la famiglia col padre socialista e la madre devota; gli studi in seminario sino alla ordinazione da parte del card. Schuster; l’insegnamento in Cattolica e a Venegono; i rapporti non sempre facili con gli arcivescovi Montini, Colombo e Martini. Ma la sua vocazione fu l’educazione dei giovani, prima come insegnante nel Liceo Berchet di Milano, poi come assistente della Gioventù Studentesca dell'Ac, infine come fondatore di Comunione e liberazione (1969). Un movimento estesosi dai giovani a tutte le età, da Milano all'Italia e al mondo. E divenuto anche Compagnia delle Opere e Fraternità «Memores Domini». Eppure non sempre compreso o appoggiato dalla Chiesa ufficiale, troppo preoccupata nella difesa del vecchio associazionismo, un tempo luogo di formazione della futura classe dirigente, anche sul piano politico (Dc). Accuse e denunce non mancarono e il card. Colombo spedì Giussani negli Stati Uniti, per un periodo di studio. Impegnato nel rendere difficile la presenza di CL nella Cattolica fu il rettore Lazzati. Egli aveva assunto posizioni di apertura alla proposta cattocomunista, sostenuta dai «cattolici del no» (favorevoli al divorzio) e dalle Acli, allora su posizioni di estrema sinistra. Gli avversari di don Gius furono soprattutto nella Chiesa: particolarmente duri i padri Turoldo e Fabbretti.
Nessuno ignora che la resistenza cattolica contro la contestazione nella scuola e nell'università fu fatta soprattutto da CL, mentre le altre presenze cristiane si spegnevano o si ponevano a rimorchio: «fanalini di coda dei treni altrui». Così sul divorzio, sull'aborto, sulle scelte politiche: CL era, anche nella sigla, l’antitesi di Lotta Continua (LC). L’impegno, insieme fermo e dialogico di Giussani fu rivolto al superamento del gap tra cristianesimo di stato civile e indifferentismo nella vita. La proposta da lui enunciata, centro unificatore di mille iniziative, fu di procedere nel rinnovamento proposto dal Concilio, senza incrinare i principi della religione tradizionale. Indipendente sempre, ribelle mai. Necessario ascoltare la provocazione della modernità, ma insieme dare ad essa una risposta oltre le sue conclusioni nichilistiche. Ma ciò appare a Giussani possibile solo sul fondamento della fede, che costituisce il punto di partenza dell’esperienza religiosa.
Una fede che è, in primo luogo, un incontro con una Persona: con colui che si è incarnato nella storia, Cristo come contemporaneo di ogni uomo («Non fu ieri, è oggi»), che lo trasforma interiormente e gli dà quella «liberazione», che si traduce in «comunione» con i fratelli. Non una idea, ma un «fatto». La fede è sempre «prima», ma non primaria o esclusiva. L’attività di Giussani (1922-2005) si è svolta, anche cronologicamente, parallela a quella di Giovanni Paolo II (1920-2005; morto 43 giorni più tardi). Tanto che il libro è anche un affresco di tutta la Chiesa di quel periodo. 
Di papa Wojtyla Don Gius ha precorso e realizzato i due supremi imperativi. Anzitutto l’armonia di «fides et ratio». La religione non è un semplice catechismo o un compendio di dogmi, è una realtà vivente che parte dall'io, ma si realizza nella comunità ecclesiale, che non è una istituzione, ma un perenne movimento. Il primato della fede non esclude, anzi impone la sua traduzione a livello di razionalità. Inoltre il «fare della fede cultura»: la religione nasce nel «dentro» più profondo, ma non può restare intimismo o narcisismo, deve tradursi in un «con» che unisce gli uomini e produce la civiltà. Non è un hobby per il tempo libero, ma un mutamento radicale. La ripetuta accusa di «integralismo» sarà una fotografia sfuocata, Gius ha proposto solo l’«integralità», cioè identità e coerenza: «Una fede che non c’entri con la vita è inutile».
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lunedì 16 settembre 2013

Non sono un fantasma, sono il Papa

Un episodio raccontato da Pippo Corigliano 

Sono in Sicilia ed è con me un sorridente signore che ha avuto la fortuna di accompagnare spesso Giovanni Paolo II nelle sue sortite in Abruzzo, assieme agli uomini della sicurezza. Ha episodi da raccontare.
Una volta, in piena notte, il mio amico si accorge che è mancata la corrente elettrica e va a smanettare sul quadro di controllo. Avverte dietro di sé un’ombra che passa e una voce inconfondibile: «Non sono un fantasma, sono il Papa». Erano le quattro del mattino. Dopo, la spiegazione: «Vado da Lui. Io non chiedo di essere aiutato a fare quello che decido io, vado a chiederGli cosa devo fare, perché è Lui che mi ha messo qui».
Un episodio che fa riflettere. Il Papa si rendeva conto di cosa pensassero gli altri e li preveniva con buon umore: non sono un fantasma… E poi subito la confidenza che fa bene, il racconto su come pregava. Interessante questo modo di vivere la cosiddetta grazia di stato: se mi hai messo qui, dimmi tu cosa devo fare. Nessuno di noi è il papa e non abbiamo il diritto di pretendere istruzioni, come fa il vicario di Cristo. Ma ognuno di noi ha delle responsabilità e non sa come farvi fronte in modo completo.
Ecco il consiglio del Papa: non devo chiedere aiuto per realizzare ciò che desidero, devo chiedere cosa vuole Lui che io faccia. Questo piccolo episodio mi aiuta tanto. 
Non posso essere un vero cristiano se non sosto davanti al Tabernacolo ad ascoltare. 
Che fretta sciocca quella che m’impedisce d’investire il mio tempo migliore davanti a Lui!
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domenica 15 settembre 2013

Domenica XXIV t. ord."C" 15-set-2013 (Angelus 154)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! 
Nella Liturgia di oggi si legge il capitolo 15 del Vangelo di Luca, che contiene le tre parabole della misericordia: quella della pecora smarrita, quella della moneta perduta, e poi la più lunga di tutte le parabole, tipica di san Luca, quella del padre e dei due figli, il figlio “prodigo” e il figlio, che si crede “giusto”, che si crede santo. Tutte e tre queste parabole parlano della gioia di Dio. Dio è gioioso. Interessante questo: Dio è gioioso! E qual è la gioia di Dio? La gioia di Dio è perdonare, la gioia di Dio è perdonare! E’ la gioia di un pastore che ritrova la sua pecorella; la gioia di una donna che ritrova la sua moneta; è la gioia di un padre che riaccoglie a casa il figlio che si era perduto, era come morto ed è tornato in vita, è tornato a casa. Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! Al contrario, la misericordia è la vera forza che può salvare l’uomo e il mondo dal “cancro” che è il peccato, il male morale, il male spirituale. Solo l’amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nel cuore e nella storia. Solo l’amore può fare questo, e questa è la gioia di Dio! 
Gesù è tutto misericordia, Gesù è tutto amore: è Dio fatto uomo. Ognuno di noi, ognuno di noi, è quella pecora smarrita, quella moneta perduta; ognuno di noi è quel figlio che ha sciupato la propria libertà seguendo idoli falsi, miraggi di felicità, e ha perso tutto. Ma Dio non ci dimentica, il Padre non ci abbandona mai. E’ un padre paziente, ci aspetta sempre! Rispetta la nostra libertà, ma rimane sempre fedele. E quando ritorniamo a Lui, ci accoglie come figli, nella sua casa, perché non smette mai, neppure per un momento, di aspettarci, con amore. E il suo cuore è in festa per ogni figlio che ritorna. E’ in festa perché è gioia. Dio ha questa gioia, quando uno di noi peccatore va da Lui e chiede il suo perdono. 
Il pericolo qual è? E’ che noi presumiamo di essere giusti, e giudichiamo gli altri. Giudichiamo anche Dio, perché pensiamo che dovrebbe castigare i peccatori, condannarli a morte, invece di perdonare. Allora sì che rischiamo di rimanere fuori dalla casa del Padre! Come quel fratello maggiore della parabola, che invece di essere contento perché suo fratello è tornato, si arrabbia con il padre che lo ha accolto e fa festa. Se nel nostro cuore non c’è la misericordia, la gioia del perdono, non siamo in comunione con Dio, anche se osserviamo tutti i precetti, perché è l’amore che salva, non la sola pratica dei precetti. E’ l’amore per Dio e per il prossimo che dà compimento a tutti i comandamenti. E questo è l’amore di Dio, la sua gioia: perdonare. Ci aspetta sempre! Forse qualcuno nel suo cuore ha qualcosa di pesante: “Ma, ho fatto questo, ho fatto quello …”. Lui ti aspetta! Lui è padre: sempre ci aspetta! 
Se noi viviamo secondo la legge “occhio per occhio, dente per dente”, mai usciamo dalla spirale del male. Il Maligno è furbo, e ci illude che con la nostra giustizia umana possiamo salvarci e salvare il mondo. In realtà, solo la giustizia di Dio ci può salvare! E la giustizia di Dio si è rivelata nella Croce: la Croce è il giudizio di Dio su tutti noi e su questo mondo. Ma come ci giudica Dio? Dando la vita per noi! Ecco l’atto supremo di giustizia che ha sconfitto una volta per tutte il Principe di questo mondo; e questo atto supremo di giustizia è proprio anche l’atto supremo di misericordia. Gesù ci chiama tutti a seguire questa strada: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Io vi chiedo una cosa, adesso. In silenzio, tutti, pensiamo… ognuno pensi ad una persona con la quale non stiamo bene, con la quale ci siamo arrabbiati, alla quale non vogliamo bene. Pensiamo a quella persona e in silenzio, in questo momento, preghiamo per questa persona e diventiamo misericordiosi con questa persona. 
[silenzio di preghiera] 
Invochiamo ora l’intercessione di Maria, Madre della Misericordia. 

Dopo l'Angelus 
Cari fratelli e sorelle, 
ieri, in Argentina, è stato proclamato Beato José Gabriel Brochero, sacerdote della diocesi di Córdoba, nato nel 1840 e morto nel 1914. Spinto dall'amore di Cristo si dedicò interamente al suo gregge, per portare tutti nel Regno di Dio, con immensa misericordia e zelo per le anime. Stava con la gente, e cercava di portare tanti agli esercizi spirituali. Andava per chilometri e chilometri, cavalcando le montagne, con la sua mula che si chiamava “Facciabrutta”, perché non era bella. Andava anche con la pioggia, era coraggioso! Ma anche voi, con questa pioggia, siete qui, siete coraggiosi. Bravi! Alla fine, questo Beato era cieco e lebbroso, ma pieno di gioia, la gioia del buon Pastore, la gioia del Pastore misericordioso! 
Deseo unirme a la alegría de la Iglesia en Argentina por la beatificación de este pastor ejemplar, que a lomo de mula recorrió infatigablemente los áridos caminos de su parroquia, buscando, casa por casa, las personas que le habían sido encomendadas para llevarlas a Dios. Pidamos a Cristo, por la intercesión del nuevo Beato, que se multipliquen los sacerdotes que, imitando al Cura Brochero, entreguen su vida al servicio de la evangelización, tanto de rodillas ante el crucifijo, como dando testimonio por todas partes del amor y la misericordia de Dios. 
Oggi, a Torino, si conclude la Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, sul tema “Famiglia, speranza e futuro per la società italiana”. Saluto tutti i partecipanti e mi rallegro per il grande impegno che c’è nella Chiesa in Italia con le famiglie e per le famiglie e che è un forte stimolo anche per le istituzioni e per tutto il Paese. Coraggio! Avanti su questa strada della famiglia! 
Saluto con affetto tutti i pellegrini oggi presenti: le famiglie, i gruppi parrocchiali, i giovani. In particolare saluto i fedeli di Dresano, Taggì di Sotto e Torre Canne di Fasano; l’UNITALSI di Ogliastra, i bambini di Trento che presto riceveranno la Prima Comunione, i ragazzi di Firenze e lo “Spider Club Italia”. 
A tutti auguro una buona domenica e un buon pranzo. Arrivederci!
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sabato 14 settembre 2013

Il martirio di Sarkis (Contributi 894)

Questo articolo viene dal sito di Tempi, possa il sangue dei martiri far fiorire nuove conversioni: 

I cristiani a Damasco la chiamano già “terra dei martiri”. L’antico villaggio di Maloula, culla della cristianità siriana, dove si parla ancora l’aramaico di Gesù, è da giorni nelle mani dei terroristi islamici di al-Nusra, che hanno attaccato chiese, monasteri e rimosso crocifissi. 

IL MARTIRIO DI SARKIS. 
Siria, forti scontri nel villaggio Maaloula tra governo e ribelliI ribelli, dopo aver preso il villaggio, hanno ucciso tre cristiani, i cui funerali si sono svolti a Damasco lo scorso 10 settembre. La sorella di una delle vittime, ferita e portata nella capitale a curarsi, ha raccontato ieri la dinamica in cui il fratello è stato ucciso. I ribelli sono entrati nella casa dove si trovavano Mikhael Taalab, suo cugino Antoun Taalab, Sarkis el Zakhm, nipote di Mikhael, e la donna. Gli islamisti hanno ordinato a tutti di convertirsi all'islam, pena la decapitazione. Sarkis ha risposto così: «Sono cristiano e se volete uccidermi perché sono cristiano, fatelo». 

«MORTO IN ODIUM FIDEI»
I terroristi l’hanno subito ucciso, insieme agli altri due. La donna è stata ferita ma è riuscita a scappare. Come affermato a Fides da suor Carmel, che cura i cristiani scappati a Damasco, «quello di Sarkis è un vero martirio, una morte in odium fidei». Ieri l’esercito ha provato ancora una volta a riprendere il villaggio, come testimoniato dall'inviato Gian Micalessin, ma ancora una volta sono stati ricacciati indietro dai cecchini qaedisti.
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venerdì 13 settembre 2013

Verità e bontà della coniugalità (Contributi 893)

Dal sito di Tempi la lectio magistralis del Cardinale Caffarra

Vorrei intrattenermi con voi su una questione che spero il corso della riflessione dimostrerà essere una questione importante.
Sullo sfondo del nostro discorso dimora una domanda alla quale non risponderò direttamente, ma che ci accompagnerà. La domanda è la seguente: il matrimonio è una realtà a totale disposizione degli uomini oppure ha in sé uno “zoccolo duro” indisponibile? Poiché sappiamo, senza essere studiosi di logica, che la definizione e.g. di A è la risposta alla domanda “che cosa è A?”, potremmo riformulare la domanda di fondo nel modo seguente: la definizione del matrimonio – ciò che il matrimonio è – è esclusivamente dipendente dal consenso sociale? E’ il consenso sociale che decide che cosa è il matrimonio?
Se io ora comincio a parlarvi della verità della coniugalità, lo posso fare in quanto penso che la definizione del matrimonio, la sua intima natura, non è esclusivamente frutto del consenso sociale. Non avrebbe altrimenti senso tutta la riflessione che stiamo facendo. Alla domanda “che cosa è la coniugalità?” tutto si risolverebbe, alla fine, nel rispondere: ciò che il consenso sociale decide che sia.

1. La verità della coniugalità
Partiamo pure dal fatto attuale: è stata introdotta in molti ordinamenti statuali il riconoscimento di una “coniugalità omosessuale”. Cioè: la differenziazione sessuale è irrilevante in ordine alla definizione della coniugalità. I coniugi che stabiliscono il patto coniugale possono essere anche dello stesso sesso.
Nello stesso tempo, tuttavia, l’amicizia coniugale, è pur sempre un’affezione che ha una dimensione sessuale. E’ questo che distingue l’amicizia coniugale da ogni altra forma di amicizia.
Oggettivamente – cioè: lo si pensi o non lo si pensi; lo si voglia o non lo si voglia – la definizione di coniugalità, implicata nel riconoscimento della coppia omosessuale, sconnette totalmente la medesima coniugalità dall’origine della persona umana. La coniugalità omosessuale è incapace di porre le condizioni del sorgere di una nuova vita umana. Pertanto delle due l’una: o non possiamo pensare la coniugalità nelle forma omosessuale o l’origine di nuove persone umane non ha nulla a che fare colla coniugalità.
Proviamo a riflettere su questa sconnessione. Essa sembra contraddetta dal fatto che gli stessi ordinamenti giuridici che hanno riconosciuto la coniugalità omosessuale, hanno riconosciuto alla medesima il diritto all’adozione o dal ricorso alla procreazione artificiale. Pertanto delle due l’una. O questo diritto riconosciuto fa si che ciò che è stato cacciato dalla porta, entri dalla finestra. Cioè: esiste una percezione indistruttibile, un’evidenza del legame procreazione-coniugalità. Oppure è ritenuto eticamente neutrale il modo con cui la nuova persona umana viene introdotta nella vita. E’ cioè indifferente che essa sia generata o prodotta.
Fermiamoci un momento, per riflettere sul cammino fatto. La nostra riflessione ha fatto il seguente percorso. Mentre fino a pochi anni orsono, il termine “coniugalità” era univoco, aveva solo un significato, e veicolava la rappresentazione di una sola realtà, l’affezione sessuale fra uomo e donna, oggi il termine è diventato ambiguo, perché può significare anche una coniugalità omosessuale. Da questa ambiguità deriva una totale ed oggettiva sconnessione dell’inizio di una nuova vita umana dalla coniugalità. Questo è il percorso fatto dunque finora: (a) il termine coniugalità è stato reso ambiguo; (b) l’Origine di una nuova persona umana è stata sconnessa dalla coniugalità. Riflettiamo ora un momento su questa sconnessione.
Essa è un vero e proprio sisma nelle categorie della genealogia della persona. E’ una cosa molto seria. Sono costretto dal tempo ad essere breve.
Scompare la categoria della paternità-maternità, sostituita dalla generica categoria della genitorialità. Scompare la dimensione biologica come elemento [non unico!] costitutivo della genealogia mentre la genealogia della persona è inscritta nella biologia della persona. Il concepimento – l’evento che ti costituisce in relazione ontologica con padre e madre – può essere un fatto puramente artificiale. La categoria della generazione diventa opzionale nel “racconto della genealogia”.
Che ne è allora della persona umana che entra nel mondo? E’ una persona intimamente sola, perché privata delle relazioni che la fanno essere.
L’avere percorso il cammino che molte società occidentali stanno percorrendo, ci conduce ad una conclusione. La seguente: ritenere che la coniugalità sia un termine vuoto di senso, al quale il consenso sociale può dare il significato che decide, è la devastazione del tessuto fondamentale del sociale umano: la genealogia della persona.
E’ in questo contesto culturale che dobbiamo interrogarci sulla vera natura della coniugalità; scoprire la verità della coniugalità.
La mascolinità e la femminilità sono diversificazioni espressive della persona umana. Non è che esista una persona umana che ha un sesso maschile o femminile, ma esiste una persona umana che è uomo o donna.
Non possiamo dimenticare neppure per un momento che il corpo non è semplicemente qualcosa di posseduto, un possesso della persona. La persona umana è il suo corpo: è una persona-corpo. Ed il corpo è la persona: è un corpo-persona.
La femminilità/mascolinità non sono meri dati biologici. Esse configurano il volto della persona; ne sono la “forma”. La persona è “formata”, edificata femminilmente o mascolinamente.
Perché esistono due “forme” di umanità, la forma maschile e la forma femminile? La S. Scrittura, che trova per altro conferma nella nostra esperienza più profonda, risponde nel modo seguente: perché ciascuno dei due possa uscire dalla sua “solitudine originaria”, e realizzarsi nella comunione con l’altro [cfr. Gen 2].
Essendo radicati nella stessa umanità, uomo e donna sono capaci al contempo di costituire una comunione di persone e di trovare in questa comunione la pienezza di sé stessi in quanto persone umane.
Questa capacità, caratteristica dell’uomo in quanto persona, la capacità del dono di sé, ha una dimensione spirituale e corporea assieme. E’ anche attraverso il corpo che l’uomo e la donna sono predisposti a formare quella comunione di persone, nella quale consiste la coniugalità. E’ il corpo maschile/femminile il linguaggio non solo espressivo, ma anche performativo della coniugalità.
Nella coniugalità così intesa è radicata, inscritta la paternità e la maternità. E’ solo nel contesto della coniugalità che la nuova persona umana può essere introdotta nell’universo dell’essere in modo adeguato alla sua dignità. Non è prodotta, ma generata. E’ attesa come dono, non esigita come un diritto.
Prima di terminare la nostra riflessione sulla verità della coniugalità, vorrei sottoporre alla vostra attenzione tre conclusioni. Esse meriterebbero di essere lungamente riflettute. Le enuncio solamente.
La prima. Solo una tale visione della coniugalità rispetta tutta la realtà della nostra umanità; essa cioè ci introduce in una vera antropologia adeguata. Non riduce il corpo ad una realtà priva senso, che non sia quello liberamente attribuitogli dal singolo. Ma vede la persona umana come persona-corpo ed il corpo come corpo-persona, e quindi come persona-uomo e come persona-donna.
La seconda. Una tale visione della coniugalità afferma al contempo la più alta autonomia dell’Io nel dono di sé, e l’intrinseca relazione al “diverso”, nel senso più profondo del termine. La “coniugalità” [si fa per dire] omosessuale in fondo trasmette oggettivamente questo messaggio: “di metà dell’umanità non so che farne, in ordine alla più intima realizzazione di me stesso è superflua”.
La terza. Una tale visione della coniugalità radica la socialità umana nella natura stessa della persona umana: prima societas in coniugo. Prima, non in senso cronologico, ma ontologico ed assiologico. Ed impedisce la riduzione del sociale umano al contratto.

2. Il bene della coniugalità
Visto che cosa è la coniugalità, ora ci chiediamo quale è il suo valore, la sua propria e specifica preziosità. In una parola: la sua bontà
Prima di addentrarci nella seconda parte della nostra riflessione, devo fare una premessa assai importante. Esiste una verità sul bene della persona, che è condivisibile da ogni persona ragionevole. Che sa cosa significa “verità sul bene”? Non significa in primo luogo ciò che devi/non devi fare. E’ la percezione del valore proprio di una realtà [nel nostro caso la coniugalità].
Faccio un esempio. Vedendo la Pietà di Michelangelo, noi “vediamo” una bellezza sublime, la quale fa sì che quel pezzo di marmo sia unico: ha in sé un suo proprio valore. In questo caso: un valore estetico.
Alla domanda che cosa è il bene/che cosa è il male, la risposta non è semplicisticamente: ciò che ciascuno pensa sia bene/sia male, senza possibilità di una condivisione ragionevole di una stessa risposta da parte di più persone. Esiste invece una verità sul bene, che può essere scoperta e condivisa da ogni persona ragionevole. Noi ci chiediamo quale è il valore proprio della coniugalità, la sua preziosità specifica, la sua bellezza inconfondibile. Il bene che è la coniugalità ha due aspetti fondamentali.
Il primo. La coniugalità è una communio personarum. La bontà propria della coniugalità è una bontà comunionale. Vorrei ora farvi notare alcune dimensioni.
(a) Una tale relazione può darsi solo tra persone, e la base è la percezione della bontà, della preziosità propria della persona. I coniugi sono l’uno per l’altro persone.
(b) La communio personarum che costituisce il bene della coniugalità non è basata su emozioni, su mera attrazione psico-fisica: di legami basati su questi fatti sono capaci anche gli animali. Solo le persone sono capaci della seguente promessa: «prometto di esserti fedele sempre, … tutti i giorni della mia vita». Solo le persone sono capaci di vivere in comunione, perché sono capaci di scegliersi in modo libero e consapevole.
(c) Solo la persona è capace di fare dono di se stessa e solo la persona è capace di accogliere il dono. La persona – e solo la persona – è capace di autodonazione, perché è capace di auto-possesso, in forza della sua libertà. E’ evidente che non puoi donare ciò che non possiedi, e la persona può possedere se stessa in forza della sua libertà. Ma la persona può anche rinunciare alla sua libertà, e mantenersi al livello di chi ultimamente si lascia condurre o dal mainstream sociale o dalle proprie pulsioni. La coniugalità è particolarmente esposta a questa insidia.
(d) La communio personarum coniugale – autodonazione ed accoglienza reciproca – scende fino all’intimità della persona: al proprio Io. E’ la persona come tale che viene donata/accolta. Si ha qui forse il mistero più profondo della coniugalità. Voi sapete bene che la S. Scrittura indica il rapporto sessuale uomo-donna col verbo “conoscere”. Si vive una rivelazione di uno all’altro nella loro intima identità.
E’ in questo evento che può introdursi una sorta di indolenza, di pigrizia spirituale che impedisce ai coniugi di compiere quell’atto che può nascere solo dal loro centro spirituale e libero. A questo punto la comunione della persona si intorpidisce.
Il secondo aspetto della preziosità etica che è propria della coniugalità, è la capacità intrinseca ad essa di dare origine ad una nuova persona umana.
La possibilità di dare inizio alla vita di una nuova persona è inscritta nella natura stessa della coniugalità. E’ questa, nell’universo creato, la più alta capacità e responsabilità che l’uomo e la donna hanno. E’ uno dei “punti” dove l’azione creatrice di Dio entra nel nostro universo creato. Il tempo a disposizione non mi consente di prolungare la riflessione su questo tema sublime.

Conclusione
Due semplici riflessioni conclusive. La prima. Avete notato che mi sono ben guardato dall’usare la parola amore. Come mai? Perché è avvenuto come… uno scippo. Una delle parole chiavi della proposta cristiana, appunto amore, è stata presa dalla cultura moderna ed è diventata un termine vuoto, una specie di recipiente dove ciascuno vi mette ciò che sente. La verità dell’amore è oggi difficilmente condivisibile. «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità» [Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate 3].
La seconda. I testimoni della verità della coniugalità avranno vita difficile, come non raramente accade ai testimoni della verità. Ma questo è il più urgente compito dell’educatore.
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