Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

venerdì 30 settembre 2011

Cristianesimo conveniente lo dimostrano i convertiti (Contributi 529)

Un articolo di Angelo Busetto trattoda La Bussola:

All’incontro settimanale del Vangelo ci si confronta con il no e il sì dei due fratelli di cui parla il Vangelo della domenica. “Il cristianesimo è fatica” – nota uno dei presenti, subito aggiungendo che ci aspetta come ricompensa il premio del paradiso. Il dialogo saltella qua e là, fino a che esce l’osservazione: vivere da cristiani è conveniente anche per questa vita, questa nostra vita umana, questa nostra vicenda terrena.
Certo la parola ‘conveniente’ ha un che di commerciale e di contrattuale e qualcuno vorrebbe sostituirla con altra più nobile. E’ stato conveniente per il figlio piegare il suo no in un sì, agire da figlio; è stato conveniente per Zaccheo e per Matteo lasciare il banco pieno di imbrogli dei pubblicani, per Maddalena e compagne lasciare la strada e seguire Gesù; è stato conveniente per Pietro e gli altri apostoli lasciare casa e barca. Questa ‘convenienza’ riscatta l’inevitabile sacrificio del primo passo. Lo ricordava bene S.Ignazio di Loyola, quando notava che le letture futili che faceva quand’era in ospedale per la ferita alla gamba gli davano subito una soddisfazione che poi si cambiava in tristezza, mentre le imprese dei santi apparivano dapprima faticose ma poi lasciavano una gioia grande.
I cosiddetti ‘grandi convertiti’, del passato o del presente, perché si convertono? Sant’Agostino che ha provato i piaceri del sesso, quelli dell’orgoglio e quelli delle ideologie, perché diventa cristiano? Quando incontra Dio e si lascia prendere da Gesù, grida: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato”.
E gli altri nomi che noi stessi abbiamo conosciuto, come attori e attrici famosi, scrittori o filosofi: perché hanno lasciato il mondo ‘attraente’ di prima e hanno seguito Gesù?
Ma basta guardarsi attorno, nel piccolo sottobosco della nostra vita, mentre incrociamo le persone dalla mattina alla sera: dove brilla la felicità, dove è più ‘conveniente’ stare?
Proviamo anche ad ascoltare la nostra personale esperienza. Quale bruciore accade dopo un peccato, dopo un tradimento, dopo un sentimento di odio, dopo una vendetta? E, al contrario, quale pace e gioia dopo la vittoria su una tentazione, nell’esperienza di una amicizia vera e di un amore pulito? Di più ancora, che cosa accade a un uomo e a una donna, a un giovane e a una ragazza che si fa discepolo e fratello di Gesù e cammina certo e lieto della sua vicinanza?
Occorre veramente incontrare i cristiani e interrogarli, occorre almeno per un momento ‘auscultare’ il battito del proprio cuore, per scoprire che l’esperienza cristiana è letteralmente la cosa più ‘conveniente’ al mondo.
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mercoledì 28 settembre 2011

Milano, non perdere di vista Dio (Contributi 528)

Un articolo di Vincenzo Sansonetti tratto da la Bussola per raccontarci l'ingresso del Cardinale Angelo Scola nella Diocesi di Milano:


«Anch’io ho fatto il chierichetto da bambino. Ho cominciato in seconda elementare. C’erano turni molto rigidi. Ricordo che la mia mamma, abbastanza decisa e dura, mi buttava giù dal letto per andare alla prima Messa del mattino».
L’ingresso in diocesi del nuovo arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, non è cominciato con il bagno di folla e gli applausi in pazza Duomo, con la banda musicale e le autorità civili e militari schierate al gran completo. Ha avuto inizio qualche ora prima, nella chiesa di San Leonardo, nel paese natale di Malgrate, alle porte di Lecco. Qui ha risposto alle domande dei ragazzi, con semplicità, dando subito la misura della sua fede e della sua umanità. «Ricordo, della mia esperienza di chierichetto, un episodio particolare», ha detto il nuovo arcivescovo. «Con i miei amici cercavamo sempre un modo per restare inginocchiati meno tempo possibile, perché era faticoso. Poi, un giorno - io ero piccolino - durante la visita pastorale in parrocchia del cardinale Schuster, lo vidi stare in ginocchio per un’ora intera in adorazione davanti al Sacramento, immobile. È stato allora che ho capito cosa volesse dire la presenza e l’importanza di Dio nella nostra vita e la vicinanza nell’affetto a Cristo».
«La mia vocazione ha avuto due momenti significativi», ha raccontato ancora il cardinale Scola ai bambini e ai fedeli di Malgrate. «Quando ero in quarta elementare venne un missionario e ci parlò con così tanto entusiasmo della sua vocazione e della sua missione, da suscitare in me il desiderio di andare con lui. Poi, da grande, dopo l’università, mi resi conto che avevo ancora questo richiamo e che era più forte della prospettiva, pur bellissima, del matrimonio. Per questo vi dico: se sentite un’inclinazione a Dio, che in questi tempi non è cosa ovvia, prendetela sul serio». Poi la visita al cimitero, dove sono sepolti i suoi genitori e il fratello, che ricorderà esplicitamente al termine della Messa in cattedrale come coloro che hanno accompagnato dal principio il suo cammino.
Momento culminante della giornata inaugurale del ministero episcopale di Scola a Milano sono state le parole da lui pronunciate all’omelia della solenne celebrazione eucaristica, davanti ai quasi 25mila fedeli che hanno gremito il Duomo e la piazza. Il nuovo arcivescovo ha citato ampiamente uno dei suoi predecessori sulla cattedra di Sant’Ambrogio, Giovanni Battista Montini, in particolare una frase profetica del futuro Paolo VI che risale addirittura al 1934: «Cristo è un ignoto, un dimenticato, un assente in gran parte della cultura contemporanea».
Per Scola, «nel giovane Montini era ben chiara una convinzione: un cristianesimo che non investa tutte le forme di vita quotidiana, cioè che non diventi cultura, non è più in grado di comunicarsi». E’ il superamento di questa «separazione tra la fede e la vita» che si propone come primo compito il successore di Tettamanzi. La solenne e festosa cerimonia in Duomo, che non ha avuto nulla di artefatto e di curiale, con la spontanea, pronta e gioiosa accoglienza riservata dai fedeli ambrosiani al suo nuovo vescovo, dimostra che Scola è stato subito percepito come un uomo e un pastore che ha «un unico intento: far trasparire Cristo luce delle genti sul volto della Chiesa».
Il nuovo arcivescovo non si è rivolto ai soli credenti, ma a tutti, in una società come la nostra che ama chiamare «plurale». Dopo aver definito la metropoli lombarda come «illuminata, operosa ed ospitale», un luogo dove per tradizione c’è una «democrazia sostanziale che nasce dal basso e si sviluppa nel confronto e nello scambio», le ha rivolto il suo augurio: «Milano, non perdere di vista Dio». E’ cominciato il grande confronto a distanza con il sindaco di sinistra Pisapia? Presto a dirsi. Certo, il primo cittadino domenica era in prima fila tra le autorità, con la fascia tricolore ben in vista. Durante la Messa, all’invito del cerimoniere ai fedeli di inginocchiarsi, non ha avuto esitazioni e lo ha fatto anche lui. Solo un ricordo della sua lontana educazione cattolica? Vedremo. Presente a tutta la cerimonia il predecessore di Scola cardinal Tettamanzi. Niente confronti. Lasciando Venezia, l’ormai ex Patriarca aveva detto che il vescovo è «il dono che lo Spirito continua a fare per il bene di una Chiesa» e che sempre c’è «chi semina» e «chi raccoglie». Per la Chiesa di Milano è arrivato il tempo della raccolta?
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martedì 27 settembre 2011

L'indifferenza che uccide in un bar di Torino (Contributi 527)

Un articolo di Rino Camilleri sull'altrui cinica indifferenza, che potrebbe essere, anzi a volte è la stessa nostra. Perchè, in un risveglio di coscienza possa non esserlo.... e non si debba mai vedere il macrabo turismo al bar.. "scusi è questo il cesso della suicida" (e via foto col telefonino)

Domenica 25 settembre 2011, Torino, storico Caffè Platti, bar ristorante tra i più eleganti della città. E’ l’ora dell’aperitivo, una della più affollate. Una signora francese, Christine M., entra, fa colazione, finisce, va in bagno. Passa qualche minuto, una cameriera bussa. Lei risponde che ha quasi finito. Infatti, si spara. Nella toilette. Si scopre poi che era una vedova di sessantasei anni, faceva la traduttrice ed era stata sposata con un manager.
Nella borsetta, una lunga lettera di spiegazione e tutti i documenti necessari per l’assegnazione dell’eredità. La signora aveva infatti una figlia. Fin qui la notizia. Per i curiosi, la signora ha usato una Smith e Wesson 38, il revolver che non si inceppa mai: non poteva mancarsi. Se a qualcuno interessa, l’arma era regolarmente detenuta. Un vicino di casa (la signora abitava nel quartiere-bene) osserva che, se ha scelto quel posto per farla finita, voleva farsi trovare subito. Direte: embe’, che c’è di strano? Con tutta la gente che si ammazza oggigiorno, in effetti, un suicidio in più o in meno non fa differenza. Una persona in meno. In fondo, come dice Sartori, siamo troppi.
Non fa neanche notizia quanto andiamo a dire: la proprietaria non ha sentito la necessità di chiudere il locale, non pochi clienti del quale hanno continuato a consumare tranquillamente. Indifferenza? Cinismo? Ma no, forse imbarazzo. Forse assuefazione. Forse necessità. The show must go on, cantava Freddie Mercury dei Queen. Lo sapeva anche lui, uomo di palcoscenico, che il suo stesso defungere (per Aids, come si ricorderà) non solo non avrebbe fermato lo spettacolo ma, al contrario, lo avrebbe incrementato. Nel bar torinese c’è stato, in verità, chi ha detto alla proprietà: ma come, hai un morto ammazzato nel cesso e manco chiudi? Almeno il tempo necessario ai rilievi del coroner e a portar via il corpo col furgone della morgue? No, di bagni il Platti ne ha due, mentre i camerieri lavano il sangue dall’uno si può usare l’altro. La proprietà l’ha dichiarato paro paro: è stato un incidente, gli altri settori sono tutti agibili.
Se, anziché spararsi, quella fosse morta per un malore? Non fa una grinza. Del resto, quante volte abbiamo visto gli annegati coperti da un semplice telo mentre, attorno, gli altri avventori continuavano ad abbronzarsi? E’, a ben pensarci, la stessa filosofia che regge Nessuno-tocchi-Caino e tutto il buonismo che circonda gli assassini: il morto è ormai morto e non possiamo farci più niente, pensiamo ai vivi. Alla signora francese che ha scelto un posto squallido ma al contempo di classe per farla finita, certo, non importa se il Platti non ha osservato neanche il famoso minuto di silenzio per rispetto alla sua tragica dipartita.
Ma prima di puntare il dito contro la mancanza di sensibilità altrui, proviamo a metterci al loro posto. Forse un aereo si dirotta sul più vicino scalo perché la hostess ha trovato un cadavere nella ritirata? Il danno economico, e non solo per il personale, vale la candela? Forse che il circo chiude quando un acrobata precipita? E quella benedetta signora francese, ma doveva scegliere proprio il mio cesso per farsi fuori? Non poche volte, ahimè, chi scrive ha visto di persona un corpo esanime sommariamente occultato da un lenzuolo ai piedi della Torre di Pisa. E i turisti con il telefono a gettone appiccicato all’orecchio continuare imperterriti a sentire la storia della Piazza dei Miracoli. A due metri dal morto. Storia vecchia. Finisci il caffè, dunque, ché l’hai già pagato. Poi, cortesemente, per vomitare vai fuori.
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lunedì 26 settembre 2011

Il cristiano abita il mondo, ma lasciandosi abbracciare da Gesù (Contributi 526)

Un vero bagno di folla e un lunghissimo applauso hanno accolto questa domenica il Cardinale Angelo Scola in occasione della sua presa di possesso dell'Arcidiocesi di Milano.
Il Duomo della città era gremito, e per festeggiare il nuovo Pastore della Diocesi ambrosiana erano giunti anche quattro pullman da Malgrate, sua città natale, due da Venezia – della quale il Cardinale era Patriarca fino a questo momento – e uno da Lorentino.
Il nuovo Arcivescovo di Milano è stato accolto sul sagrato dal Cardinale Dionigi Tettamanzi, suo immediato predecessore.
Alla celebrazione hanno partecipato tre Cardinali - Ennio Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e William Joseph Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede -, 35 Vescovi, più di 30 membri del Consiglio delle Chiese Cristiane e altrettanti del Forum delle religioni, nonché centinaia di sacerdoti.
I Cardinali Scola e Tettamanzi hanno percorso la navata centrale del Duomo fino all’altare, dove è avvenuta la consegna del pastorale di San Carlo dal predecessore al nuovo Arcivescovo.
Nella sua omelia, durata 21 minuti e mezzo, il Cardinale Scola ha ricordato che “con l’ingresso in Diocesi del nuovo Arcivescovo, lo Spirito Santo garantisce l’ininterrotta catena di pastori nella Chiesa di Milano”. “La successione apostolica conferma che la promessa di fedeltà del Signore al Suo popolo non viene meno”.
Il porporato ha confessato che nei mesi seguiti alla sua nomina ha spesso rivolto “con gratitudine” il pensiero “alla nutrita schiera dei santi Vescovi milanesi dei primi secoli” e a tutti coloro che lo hanno preceduto nel suo incarico.
“La comunione con loro, nella fede e nell’esercizio del ministero, mi aiuterà a non dimenticare mai che il Vescovo è preso a servizio del Popolo santo di Dio, per garantirne il profondo senso di fede”, ha dichiarato. “Solo se si lascerà condurre da questo sensus fidei”, ha aggiunto, “potrà essere guida veramente autorevole”.
Il Cardinale ha poi confessato che nei vent'anni del suo ministero episcopale ha avuto una “dolorosa e crescente conferma” dell'attualità della diagnosi compiuta da un suo illustre predecessore, Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che prevedeva, ha ricordato, un “massiccio abbandono della pratica cristiana con grave detrimento per la vita personale e comunitaria della Chiesa e della società civile”.
Per il nuovo Arcivescovo di Milano, ciò vale “soprattutto per gli uomini e le donne delle generazioni intermedie”, che “sembrano sopraffatti dal 'mestiere di vivere'”.
Ha quindi ripreso le parole dell'allora Arcivescovo Montini, che disse: “Se non vi abbiamo compresi … se non siamo stati capaci di ascoltarvi come si doveva, [oggi] vi invitiamo: 'Venite ed ascoltate'”.
L’unico nostro intento è far trasparire Cristo luce delle genti sul volto della Chiesa”, ha dichiarato il Cardinale Scola.
“Anche noi, sofisticati uomini del terzo millennio, siamo messi di fronte all’inevitabile alternativa: costruisce sulla roccia 'chi ascolta le parole di Gesù e le mette in pratica' (cf. Vangelo Mt 7,24); mentre 'chi ascolta le parole ma non le mette in pratica' (cf. Vangelo Mt 7,26), edifica sulla sabbia. Il primo ha davanti a sé un futuro, il secondo è inesorabilmente destinato a una 'grande rovina' (cf. Vangelo Mt 7,27)”.
“È Gesù che le parole del Vangelo di fatto identificano nell’uomo saggio – ha ricordato –. A noi è chiesto di seguirLo”.
Questa posizione, ha commentato, “non fa del cristiano un alienato”: “anche se non è di questo mondo, egli è pienamente nel mondo”, e “lo abita lasciandosi abbracciare da Gesù”.
“Egli edifica in tal modo la propria casa sulla roccia, sull'amore oggettivo ed effettivo. Nel dono totale di sé, reso possibile dalla sequela di Gesù, la vita fiorisce”.
Il Cardinale Scola ha quindi presentato tre “orientamenti per la vita nuova in Cristo”:
“una tensione indomita a fare il bene ed evitare il male;
la pratica del culto cristiano, il culto umanamente conveniente, che consiste nell’offerta di sé, autentica esperienza del bell’amore;
la decisa assunzione degli obblighi sociali, attraverso l’esercizio delle virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza”.
Ha poi aperto il proprio cuore chiedendo l'aiuto dei fedeli per svolgere il nuovo incarico che gli è stato affidato.
“Ho bisogno di voi, di tutti voi, per poter svolgere nella gioia e non nel lamento questo gravoso compito, di cui - ne sono ben consapevole - dovrò render conto”, ha confessato.
“La Madunina, l’Assunta nella gloria, che sempre abbiamo voluto svettante sopra ogni edificio milanese, intercede per noi.
Come fanno le mamme con i loro bambini, questa sera ci sussurra, con le parole del Prefazio, la dolce vicinanza di Gesù misericordioso, che ci spalanca a tutti i nostri fratelli uomini”.
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domenica 25 settembre 2011

Domenica 26^ t.o. (Angelus 42)

[dall'Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau]
Cari fratelli e sorelle,
vogliamo concludere ora questa solenne Santa Messa con l’Angelus. Questa preghiera ci fa ricordare sempre di nuovo l’inizio storico della nostra salvezza. L’Arcangelo Gabriele presenta alla Vergine Maria il piano di salvezza di Dio, secondo il quale Ella avrebbe dovuto diventare la Madre del Redentore. Maria rimane turbata. Ma l’Angelo del Signore Le dice una parola di consolazione: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.” Così Maria può dire il suo grande “sì”. Questo “sì” all’essere serva del Signore è l’affermazione fiduciosa al piano di Dio e alla nostra salvezza. E, infine, Maria dice questo “sì” a tutti noi, che sotto la croce le siamo stati affidati come figli (cfr Gv 19,27). Non revoca mai questa promessa. Ed è per questo che Ella deve essere chiamata felice, anzi, beata perché ha creduto nel compimento di ciò che Le era stato detto dal Signore (cfr Lc 1,45). Recitando ora questo saluto dell’Angelo, possiamo unirci a questo “sì” di Maria e aderire fiduciosamente alla bellezza del piano di Dio e della provvidenza che Egli, nella sua grazia, ha riservato per noi. Allora, anche nella nostra vita l'amore di Dio diventerà, per così dire, carne, prenderà sempre più forma. Non dobbiamo avere paura in mezzo a tutte le nostre preoccupazioni. Dio è buono. Allo stesso tempo, possiamo sentirci sostenuti dalla comunità dei tanti fedeli che in quest’ora pregano l’Angelus con noi, in tutto il mondo, attraverso la televisione e la radio.
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venerdì 23 settembre 2011

Omelia di Benedetto XVI all'Olympiastadion di Berlino (Contributi 525)

22-09-2011
Cari confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,
lo sguardo all’ampio stadio olimpico che voi riempite oggi in gran numero, suscita in me grande gioia e fiducia. Saluto con affetto tutti voi: i fedeli dell’Arcidiocesi di Berlino e delle Diocesi tedesche, nonché i numerosi pellegrini provenienti dai Paesi vicini. Quindici anni or sono, per la prima volta un Papa è venuto nella capitale federale Berlino. Tutti – anche io personalmente - abbiamo un ricordo molto vivo della Visita del mio venerato Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II, e della Beatificazione del Prevosto del Duomo di Berlino Bernhard Lichtenberg – insieme a Karl Leisner – avvenuta proprio qui, in questo luogo.
Pensando a questi Beati e a tutta la schiera dei Santi e Beati, possiamo capire che cosa significhi vivere come tralci della vera vite che è Cristo, e portare frutto. Il Vangelo di oggi ci ha richiamato alla mente l’immagine di questa pianta, che è rampicante in modo rigoglioso nell’oriente e simbolo di forza vitale, una metafora per la bellezza e il dinamismo della comunione di Gesù con i suoi discepoli e amici, con noi.
Nella parabola della vite, Gesù non dice: “Voi siete la vite”, ma: “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5). Ciò significa: “Così come i tralci sono legati alla vite, così voi appartenete a me! Ma appartenendo a me, appartenete anche gli uni agli altri”. E questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale. È la Chiesa, questa comunità di vita con Gesù Cristo e dell'uno per l’altro, che è fondata nel Battesimo e approfondita ogni volta di più nell’Eucaristia. “Io sono la vera vite”; questo, però, in realtà significa: “Io sono voi e voi siete me” – un’inaudita identificazione del Signore con noi, con la sua Chiesa.
Cristo stesso, quella volta, vicino a Damasco, chiese a Saulo, il persecutore della Chiesa: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4). In tal modo il Signore esprime la comunanza di destino che deriva dall’intima comunione di vita della sua Chiesa con Lui, il Risorto. Egli continua a vivere nella sua Chiesa in questo mondo. Egli è con noi, e noi siamo con Lui. – “Perché mi perseguiti?” –In definitiva è Gesù che vogliono colpire i persecutori della sua Chiesa. E, allo stesso tempo, questo significa che noi non siamo soli quando siamo oppressi a causa della nostra fede. Gesù Cristo è da noi e con noi.
Nella parabola, il Signore Gesù dice ancora una volta: “Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore” (Gv 15,1), e spiega che il vignaiolo prende il coltello, taglia i tralci secchi e pota quelli che portano frutto perché portino più frutto. Per dirlo con l'immagine del profeta Ezechiele, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, Dio vuole togliere dal nostro petto il cuore morto, di pietra, e darci un cuore vivente, di carne (cfr Ez 36,26). Vuole donarci una vita nuova e piena di forza. un cuore di amore, di bontà e di pace. Cristo è venuto a chiamare i peccatori. Sono loro che hanno bisogno del medico, non i sani (cfr Lc 5,31s.). E così, come dice il Concilio Vaticano II, la Chiesa è il “sacramento universale di salvezza” (Lumen gentium, 48) che esiste per i peccatori, per noi, per aprire a noi la via della conversione, della guarigione e della vita. Questa è la continua e grande missione della Chiesa, conferitale da Cristo.
Alcuni guardano la Chiesa fermandosi al suo aspetto esteriore. Allora la Chiesa appare solo come una delle tante organizzazioni in una società democratica, secondo le cui norme e leggi, poi, deve essere giudicata e trattata anche una figura così difficile da comprendere come la “Chiesa”. Se poi si aggiunge ancora l'esperienza dolorosa che nella Chiesa ci sono pesci buoni e cattivi, grano e zizzania, e se lo sguardo resta fisso sulle cose negative, allora non si schiude più il mistero grande e bello della Chiesa.
Quindi, non sorge più alcuna gioia per il fatto di appartenere a questa vite che è la “Chiesa”. Insoddisfazione e malcontento vanno diffondendosi, se non si vedono realizzate le proprie idee superficiali ed erronee di “Chiesa” e i propri “sogni di Chiesa”! Allora cessa anche il lieto canto “Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa”, che generazioni di cattolici hanno cantato con convinzione.
Ma torniamo al Vangelo. Il Signore continua così: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me, … perché senza di me – si potrebbe anche tradurre: fuori di me – non potete far nulla” (Gv 15,4).
Ognuno di noi è messo di fronte a tale decisione. Il Signore, nella sua parabola, ci dice di nuovo quanto essa sia seria: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi raccolgono i tralci buttati via, li gettano nel fuoco e li bruciano” (cfr Gv 15,6). Al riguardo, S. Agostino commenta: “L’uno o l’altro spetta al tralcio, o la vite o il fuoco; se [il tralcio] non è nella vite, sarà nel fuoco; quindi affinché non sia nel fuoco, sia nella vite” (In Joan. Ev. tract. 81,3 [PL 35, 1842]).
La scelta qui richiesta ci fa capire, in modo insistente, il significato fondamentale della nostra decisione di vita. Ma, allo stesso tempo, l'immagine della vite è un segno di speranza e di fiducia. Incarnandosi, Cristo stesso è venuto in questo mondo per essere il nostro fondamento. In ogni necessità e aridità, Egli è la sorgente che dona l’acqua della vita che ci nutre e ci fortifica. Egli stesso porta su di sé ogni peccato, paura e sofferenza e, in fine, ci purifica e ci trasforma misteriosamente in tralci buoni che danno vino buono. In questi momenti di bisogno, a volte ci sentiamo come finiti sotto un torchio, come i grappoli d’uva che vengono pigiati completamente. Ma sappiamo che, uniti a Cristo, diventiamo vino maturo. Dio sa trasformare in amore anche le cose pesanti e opprimenti nella nostra vita. Importante è che “rimaniamo” nella vite, in Cristo. In questo breve brano, l’evangelista usa la parola “rimanere” una dozzina di volte. Questo “rimanere-in-Cristo” segna l’intero discorso. Nel nostro tempo di inquietudine e di qualunquismo, in cui così tanta gente perde l’orientamento e il sostegno; in cui la fedeltà dell’amore nel matrimonio e nell’amicizia è diventata così fragile e di breve durata; in cui vogliamo gridare, nel nostro bisogno, come i discepoli di Emmaus: “Signore, resta con noi, perché si fa sera (cfr Lc 24,29), sì, è buio intorno a noi!”; in questo tempo il Signore risorto ci offre un rifugio, un luogo di luce, di speranza e fiducia, di pace e sicurezza. Dove la siccità e la morte minacciano i tralci, là in Cristo c’è futuro, vita e gioia, là c’è sempre perdono e nuovo inizio, trasformazione entrando nel suo amore.
Rimanere in Cristo significa, come abbiamo già visto, rimanere anche nella Chiesa. L’intera comunità dei credenti è saldamente compaginata in Cristo, la vite. In Cristo, tutti noi siamo uniti insieme. In questa comunità Egli ci sostiene e, allo stesso tempo, tutti i membri si sostengono a vicenda. Insieme resistiamo alle tempeste e offriamo protezione gli uni agli altri. Noi non crediamo da soli, crediamo con tutta la Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, con la Chiesa che è in Cielo e sulla terra.
La Chiesa quale annunciatrice della Parola di Dio e dispensatrice dei sacramenti ci unisce con Cristo, la vera vite. La Chiesa quale “pienezza e completamento del Redentore” – come la chiamava Pio XII - (Pio XII, Mystici corporis, AAS 35 [1943] p. 230: “plenitudo et complementum Redemptoris”) è per noi pegno della vita divina e mediatrice dei frutti di cui parla la parabola della vite. Così la Chiesa è il dono più bello di Dio. Pertanto, Agostino poteva dire: “Ognuno possiede lo Spirito Santo nella misura in cui ama la Chiesa” (In Ioan. Ev. tract. 32, 8 [PL 35, 1646]). Con la Chiesa e nella Chiesa possiamo annunciare a tutti gli uomini che Cristo è la fonte della vita, che Egli è presente, che Egli è la grande realtà che cerchiamo e a cui aneliamo. Egli dona se stesso e così ci dona Dio, la felicità, l’amore. Chi crede in Cristo, ha un futuro. Perché Dio non vuole ciò che è arido, morto, artificiale, che alla fine è gettato via, ma vuole ciò che è fecondo e vivo, la vita in abbondanza, e Lui ci dà la vita in abbondanza.
Cari fratelli e sorelle! Auguro a tutti voi e a noi tutti di scoprire sempre più profondamente la gioia di essere uniti con Cristo nella Chiesa – con tutti i suoi affanni e le sue oscurità - di poter trovare nelle vostre necessità conforto e redenzione e che tutti noi possiamo diventare il vino delizioso della gioia e dell’amore di Cristo per questo mondo. Amen.
[discorso al Parlamento Federale Tedesco]
[discorso con i rappresentanti della Comunità Ebraica]
[discorso con i rappresentanti della Comunità Mussulmana]
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giovedì 22 settembre 2011

Il tempo, vicinanza di Dio alla nostra vita (Contributi 524)

Un articolo molto interessante di Massimo Camisasca tratta da una lezione ai seminaristi della Fraternità Sacerdotale S. Carlo:

Quando, negli ultimi anni, penso al problema del tempo, c’è una riflessione che mi ha spesso aiutato: c’è stato un tempo in cui il tempo non c’era. La creazione del mondo e l’Incarnazione hanno reso necessario il tempo.
Prima della creazione, Dio era tutto in un punto, tutto uguale a se stesso, senza spazio e senza tempo. Con la creazione del mondo e con l’Incarnazione, Dio si è reso vicino a milioni di esistenze. Pur rimanendo un punto uguale a se stesso (come sono povere le nostre immagini!), è diventato contemporaneo ad un’infinità di punti nel tempo e nello spazio.

Il senso del tempo
Questa riflessione ci aiuta a comprendere che il tempo è un sacramento, una strada fondamentale attraverso cui Dio ci raggiunge. Questo è il senso del tempo. Esso è l’espressione primordiale dell’estensione di Dio alla nostra vita.
Non solo Dio ha creato il tempo, ma è entrato nel tempo, lo ha assunto come forma del suo rapporto con noi. Il Mistero non mi raggiunge se non attraverso il tempo. Per questa ragione le ore della vita sono paragonabili a un’infinità di istanti, attraverso i quali Cristo ci raggiunge continuamente, in cui ci chiama e ci manifesta la sua predilezione. Così come la vita naturale è già tutta racchiusa nell’istante del concepimento, allo stesso modo la vita cristiana è tutta racchiusa nell’istante in cui Egli ci parla. Ma ciò che ci dice in ogni singolo istante ha bisogno del tempo per essere da noi compreso e assimilato.


La memoria
La memoria è il tempo pieno della presenza di Cristo. È la sua presenza che investe e riempie il nostro tempo. Perciò l’azione fondamentale che abita il tempo è la preghiera. La memoria, ottenuta in grazia della preghiera, è essa stessa preghiera.
Siccome viviamo nel tempo, nel succedersi degli istanti, il segreto fondamentale della preghiera è la sua ripetizione. Non alcune preghiere lunghe, ma tante preghiere brevi. Ripetiamo la domanda: «Vieni Signore Gesù. Vieni dentro ciò che sto facendo. Vieni dentro ciò che sto attendendo. Vieni perché tu sei il senso e la pienezza di questo attimo».
Possiamo dire che il tempo è il radicarsi della memoria dentro di noi. Ciò che Dio ci dice e ci comunica attraverso suo Figlio, questa sua voce e presenza che ci parla, ha bisogno di tempo per essere da noi compresa ed assimilata. Il tempo non è solo, quindi, la strada attraverso cui Dio mi raggiunge, ma è anche la strada attraverso cui io pazientemente accolgo e faccio mia la sua parola, la sua iniziativa.


La pazienza
Parlare di tempo vuol dire anche parlare di pazienza. Ce lo insegna la Scrittura parlando della creazione in sei giorni, raccontandoci la storia di Israele, la vita di Gesù, i giorni della sua Passione. Dio ha diluito nel tempo anche ciò che di per sé è stato istantaneo: la Resurrezione.
Dio si è manifestato agli uomini attraverso una storia di tremila anni prima di Cristo, si è fatto carne ed ha vissuto nel tempo. Non è comparso e sparito. È stato qui trenta e più anni. Perché tutto questo? Per farci comprendere che non è possibile per noi trascendere il tempo nel nostro rapporto con Dio. Il nostro rapporto con l’infinito avviene attraverso il finito. È la storia di ogni amore umano e divino. Tutto ciò che accade tra di noi ha bisogno di tempo. È talmente vero questo che Dio si è assoggettato al tempo, per insegnarci che anche noi abbiamo bisogno di entrare nel tempo per arrivare a Lui. Tutto questo deve aiutarci a vincere ogni impazienza e ogni moralismo. L’errore e la fatica che ci attraversano fanno parte del rapporto che viviamo con Dio, perché il tempo è fatto anche di queste cose.


La liturgia
Il luogo fisico in cui tutto ciò che ho detto appare nella sua visibile luce e nella sua forza pedagogica è la liturgia. Attraverso di essa impariamo che Dio si è assoggettato al tempo e che il tempo è la forma del nostro rapporto con lui. Il tempo è la forma dell’amore umano, dell’amore dell’uomo per gli altri uomini e per Dio. L’amore è fatto di passione, ma l’amore vero è una passione che diventa fedeltà. Il fuoco vero è il fuoco che brucia senza distruggere, che riscalda, infiamma, ma non consuma. La strada che vogliamo percorrere è questa: la strada del tempo, la strada della pazienza, in cui rispondere alle occasioni oggettive che Dio ci dà. Ogni sentimento individuale di trasporto per Dio che non accetta di entrare nell’oggettività della forma che Egli assume nel tempo è molto pericoloso, e infine non è cristiano.


Educarsi al tempo
Nella nostra vita potremmo parlare di un tempo oggettivo e di un tempo soggettivo. Un tempo soggettivo, che noi percepiamo rapidissimo o lentissimo, dominato cioè dal sentimento. Quando è semplicemente il sentimento a dominare, il tempo diventa un luogo di distruzione. Per esempio: mi sono chieste tre cose, ma io mi sento portato solo per una. Vorrei avere tanto tempo per la cosa che più mi appassiona e sbrigare in fretta le altre.
Il tempo soggettivo, legato alle mie stanchezze o alle mie esaltazioni, a poco a poco diventa una gabbia.
Dobbiamo entrare invece nell’oggettività del tempo, nel tempo segnato da Dio. Questo è il senso della casa. È la casa, la comunione tra noi, che detta il tempo. Il tempo oggettivo con i suoi orari e le sue responsabilità, sembra in un primo momento sacrificare i nostri sentimenti, ma in realtà li ordina. Non li uccide, non li castra, non li sopprime, ma semplicemente li ordina. Il tempo soggettivo è tutto teso ad arraffare le cose, una dietro l’altra e porta inevitabilmente alla stanchezza.
Nel Miguel Mañara, la voce dell’abate descrive molto bene il tempo oggettivo: «Pazienza… Il tempo è lungo qui. Occorre un’infanzia e un’educazione, una giovinezza e un insegnamento, una maturità curiosa… e una lenta vecchiaia innamorata della tomba».
Penso che chiunque entri nella nostra casa si renda conto, magari anche se rimane scioccato, di questa oggettività. È lo shock che viene dal primato che noi diamo al tempo oggettivo sul tempo soggettivo. Negli anni si vede che l’amore ordinato è l’unico vero amore. Se l’amore può essere paragonato a un fiume che corre verso il mare dell’infinito, questo fiume ha bisogno di argini, altrimenti la sua acqua si disperde nella campagna e perde tutta la sua forza.

Il tempo oggettivo
Il tempo oggettivo consta di tre elementi: orari, responsabilità e autorità.
L’autorità indica le priorità e i compiti e verifica lo svolgimento di essi. Gli orari ci dicono quali sono le cose importanti della giornata, ma permettono nello stesso tempo di collocare all’interno di essa la diversa gamma dei nostri interessi.
Infine le responsabilità, la pluralità di compiti che ci sono affidati. È importante imparare che il tempo è la strada fondamentale della nostra educazione alla povertà. Esso ci obbliga a scoprire che siamo limitati e ci insegna che ciò che dobbiamo fare in quel momento è proprio ciò che ci è chiesto. Anche se sono convinto che come ingegnere potrei costruire la Torre Eiffel, in questo momento mi è chiesto di raccogliere le foglie nel giardino. Questa educazione alla povertà, se vissuta come domanda di Cristo, non è una castrazione delle mie possibilità ma un loro potenziamento. Le mie capacità emergeranno con più ordine. Attraverso il mio sacrificio saranno finalizzate allo scopo unitario della mia vita, che è realizzare la vocazione a cui Dio mi ha chiamato.


Il tempo liturgico
Vorrei concludere con una nota circa il tempo liturgico. Il tempo liturgico permette di aderire alla realtà al di là del proprio stato d’animo. Durante la giornata attraverso la liturgia delle ore, durante la settimana con le memorie e le feste, durante l’anno nei periodi liturgici. Lo scopo del tempo nella liturgia è ancorare la persona all’oggettività della vita di Cristo nello scorrere dei suoi misteri. Ho molti pensieri, ma una parola dell’ora media che recitiamo insieme, mi resta attaccata, almeno mi resta attaccato il fatto che ho dovuto interrompere i miei pensieri per venire a pregare.
L’oggettività del tempo liturgico ripropone continuamente l’oggettività della Presenza tra di noi, che mi richiama, mi riaccoglie e mi rilancia. È un tempo che plasma, sostiene e aumenta il desiderio. La campana che richiama alle Ore è un modo immaginifico di esprimere la preziosità del tempo vissuto con Cristo. Se io, infatti, fossi solo, mi disperderei continuamente; ma Cristo, nel tempo vissuto con lui, mi raccoglie senza mai lasciarmi annegare nel mio niente.
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martedì 20 settembre 2011

Il circo della farfalla

Un post che non appartiene a nessuna categoria fin qui utilizzata nel blog.
Un post che presenta un video bello e commovente che dovete assolutamente vedere.
E' in inglese ma ci sono i sottotitoli in italiano. Dura 22 minuti e mezzo, ma non rimpiangerete neanche un secondo. E soprattutto saremo tutti un po' diversi nel guardare la vita in qualunque situazione noi possiamo essere, anzi peggiore è la situazione in cui ci troviamo maggiore sarà il beneficio che ne potremo ricavare.
Perchè, più grande è la lotta, più glorioso il trionfo.


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domenica 18 settembre 2011

Il necrofilo e il Risorto (Contributi 523)

Come molti sapranno personalmente (e di conseguenza il mio blog) aderisco a Samizdat On Line una compagnia di amici che desiderano, anche con il lavoro di curatori di blog testimoniare la fede in Cristo e l'amore alla Sua persona. E' dai giudizi che nascono dentro questa compagnia spesso traggo spunto per i post che pubblico. Come nel caso di questo articolo:

A sentire certe interviste non si sa proprio cosa pensare: “ci sei o ci fai?”. È questo che vorremmo dire a Don Mazzi, dopo le sue esternazioni sugli argomenti più disparati. Già ci aveva fatto pensare quanto ha detto sulla pedofilia dei sacerdoti, da lui attribuita ai seminari minori. Sono di questi ultimi giorni le sue affermazioni sulla mostra di cadaveri (veri o presunti) a Roma: “Sono affascinato, questa è l'esaltazione del corpo, se Don Bosco che adoro invece che essere nella tomba fosse lì, un Don Bosco vivo… ve l'immaginate?”
Se, quando ho cercato aiuto nelle confessioni di Sant'Agostino o nelle Cinque Vie di San Tommaso avessi fatto un giro qui, avrei pianto di commozione perché non si può non pensare chi è colui che ci ha fatto.” “Io spero che il cardinal Ravasi venga qui e mi auguro che tutte le scuole medie passino da qui a vedere la donna con il bambino, è così poetica e affascinante, io me la sarei baciata quella donna lì pensando a mia madre” (come ha riportato “La Stampa” del 13 settembre 2011). Ad ascoltare queste affermazioni c'è da dare ragione al proverbio che dice “La madre dei cretini è sempre incinta”.
A dire il vero comincia a infastidire questa rassegna di personaggi che si dichiarano cattolici e non sanno far altro che gettare fango sulla Chiesa e sulla concezione cristiana della vita. Noi sappiamo per certo che rimane un unico criterio, quello della fedeltà al magistero del Papa.
Dopo le assurdità della Bindi sui valori non negoziabili, ora ci tocca anche questa manifestazione di necrofilia. Se i vari autori di queste considerazioni credono con questo di avere “un posto al sole” al mercato di questo mondo, sappiano che la loro sorte sarà - come è sempre stato - quella degli “utili idioti”. Finché servono saranno osannati, per essere poi buttati nella spazzatura quando non ci sarà più bisogno di loro. E la storia è zeppa di questi esempi.

Sarebbe forse meglio dare la vita per la fedeltà a Cristo e alla Chiesa, accettando il martirio della impopolarità (almeno qui in Occidente), condividendo il martirio della vita di tanti nostri fratelli e sorelle in altre parti del mondo (e qui non possiamo dimenticare Asia Bibi).
Chissà se potrà rinascere un sussulto di umanità coraggiosa, e di bellezza testimoniata. “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”: noi siamo testimoni di un Risorto.
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Domenica 25^ t.o. (Angelus 41)

Cari fratelli e sorelle!
Nella liturgia di oggi inizia la lettura della Lettera di San Paolo ai Filippesi, cioè ai membri della comunità che l’Apostolo stesso fondò nella città di Filippi, importante colonia romana in Macedonia, oggi Grecia settentrionale. Paolo giunse a Filippi durante il suo secondo viaggio missionario, provenendo dalla costa dell’Anatolia e attraversando il Mare Egeo. Fu quella la prima volta in cui il Vangelo giunse in Europa. Siamo intorno all’anno 50, dunque circa vent’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Eppure, nella Lettera ai Filippesi, è contenuto un inno a Cristo che già presenta una sintesi completa del suo mistero: incarnazione, chenosi, cioè umiliazione fino alla morte di croce, e glorificazione. Questo stesso mistero è diventato un tutt’uno con la vita dell’apostolo Paolo, che scrive questa lettera mentre si trova in prigione, in attesa di una sentenza di vita o di morte. Egli afferma: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). E’ un nuovo senso della vita, dell’esistenza umana, che consiste nella comunione con Gesù Cristo vivente; non solo con un personaggio storico, un maestro di saggezza, un leader religioso, ma con un uomo in cui abita personalmente Dio. La sua morte e risurrezione è la Buona Notizia che, partendo da Gerusalemme, è destinata a raggiungere tutti gli uomini e i popoli, e a trasformare dall’interno tutte le culture, aprendole alla verità fondamentale: Dio è amore, si è fatto uomo in Gesù e con il suo sacrificio ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del male donandole una speranza affidabile.
San Paolo era un uomo che riassumeva in sé tre mondi: quello ebraico, quello greco e quello romano. Non a caso Dio affidò a lui la missione di portare il Vangelo dall’Asia Minore alla Grecia e poi a Roma, gettando un ponte che avrebbe proiettato il Cristianesimo fino agli estremi confini della terra. Oggi viviamo in un’epoca di nuova evangelizzazione. Vasti orizzonti si aprono all’annuncio del Vangelo, mentre regioni di antica tradizione cristiana sono chiamate a riscoprire la bellezza della fede. Protagonisti di questa missione sono uomini e donne che, come san Paolo, possono dire: “Per me vivere è Cristo”. Persone, famiglie, comunità che accettano di lavorare nella vigna del Signore, secondo l’immagine del Vangelo di questa domenica (cfr Mt 20,1-16). Operai umili e generosi, che non chiedono altra ricompensa se non quella di partecipare alla missione di Gesù e della Chiesa. “Se il vivere nel corpo – scrive ancora san Paolo – significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere” (Fil 1,22): se l’unione piena con Cristo al di là della morte, o il servizio al suo corpo mistico in questa terra.
Cari amici, il Vangelo ha trasformato il mondo, e ancora lo sta trasformando, come un fiume che irriga un immenso campo. Rivolgiamoci in preghiera alla Vergine Maria, perché in tutta la Chiesa maturino vocazioni sacerdotali, religiose e laicali per il servizio della nuova evangelizzazione.
[VIDEO]
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giovedì 15 settembre 2011

La vera trasgressione (Post 125)

La cronaca è recente ed è nota a tutti. Ed è triste, anzi drammatica. Una giovane ragazza è morta durante un “gioco” erotico a Roma, in un garage vicino ad una caldaia, legata come un salame e senza possibilità di difesa. Lei stessa complice del suo involontario carnefice. Perché, pare, che la trasgressione sia ormai fatto normale.
Quello che emerge da questo fatto è, a mio avviso, che si è perso il senso della dignità e anche della Bellezza della persona. Bellezza con la maiuscola, quella cioè che nessun trascorrere di tempo o ruga può cancellare. Non quella bellezza che molti si affaticano a trattenere o a simulare con la chirurgia, ma Quella che è intrinseca al fatto di essere uomini e donne, di essere creature di Dio, da Lui create e amate. Amati da quel Dio che si è fatto uomo ed è morto per redimere ogni nostra colpa, risorgendo per aprire a chiunque di noi le porte del paradiso.
Manca la dignità e non c’è più Bellezza.
Avendo tolto dall’orizzonte dello sguardo dell’uomo di oggi il volto buono di Cristo resta solo l’insignificante e ossessivo accumularsi di incontri in cui ci si usa a vicenda senza amore reale per l’altra persona. E l’altro che è abbiamo di fronte è solo occasione per dare sfogo all’istinto più basso (e indegno anche degli animali che, loro sì mossi da istinto, non compiono questi atti) e non un altro da me con il quale ho in comune Destino, origine e fine.
La vita di oggi (che non è più esistenza, ma, al massimo, sopravvivenza) è spesso un’affannosa ricerca di qualcosa che possa illudere il nostro cuore di avere un qualche significato.
Il desiderio di amare (nel senso più vero e nobile del termine) e di essere amati (anche qui nel senso più pieno e profondo della parola) è talmente grande che si ricerca ovunque.
Spesso senza trovarlo dato che si cerca in direzione sbagliata. Non è infatti nel più profondo abisso della peggiore nostra animalità ma nel più alto cielo dei nostri desideri.
E qui viene fuori la responsabilità di chi si dice credente: Rendere Cristo incontrabile, presente, fruibile. Noi con la nostra umanità malata, in quanto anche noi contaminati da una società priva di senso, orizzonte e sguardo. Ma con la consapevolezza di essere stati salvati e che tutto il nostro male è già vinto dal nostro sincero aderire a Cristo.
Perché malgrado tutto permane la certezza che anche dal più profondo baratro in cui l’abbandono di Cristo può far precipitare l’uomo, resta comunque sempre uno spiraglio da cui si possa intravedere il cielo e invocare l’aiuto di Chi, solo, può trasformare lo scarlatto del nostro peccato nel candore di un’anima rigenerata dal perdono.
E bizzarramente nella nostra società in cui ormai il male è così ordinario, la vera trasgressione è seguire Cristo, il Cristo che tutti rinnegano e attaccano, anche nella persona del suo Vicario, il Papa Benedetto XVI.
Ma che sempre appare sul cammino di ogni uomo per ricordargli che “senza di me non potete fare nulla”. E lo stiamo vedendo, purtroppo, molto bene ovunque volgiamo il nostro sguardo.
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martedì 13 settembre 2011

Un affare del cuore (Contributi 522)

Un altro interessante editoriale di Samizdat on Line:

"L’educazione è un affare del cuore" (S. Giovanni Bosco)

Ho due figli che da piccoli si stanno facendo grandi. Chi vive la necessità e il tormento di educare sa molto bene quale fatica pesi sull'animo. Spesso, quasi sempre, ci sentiamo inadeguati.
Talvolta qualcuno ci viene in aiuto. Con qualche parola, con qualche consiglio. Ogni cosa può aiutarci nel nostro compito. E' con gratitudine che ho letto, quindi, questa riflessione del cardinale Caffarra, "La responsabilità dell'educatore".
Ecco, qualcuno adesso storce il naso. Cosa ne può sapere uno così? Beh, leggete. Poi ditemi se non vi rinfresca, se non vi coinvolge, se non vi mette in azione il cuore molto di più di certi sproloqui che si suole leggere in giro. Irti di tecnicismi, di dati-di-fatto che tali non sono ma spesso solo modi per sfuggire una responsabilità.
Perché il punto iniziale è giusto quello. La responsabilità. Una responsabilità implica un non potersi tirare indietro, un doversi mettere in gioco. Tanto più quando l'oggetto di tale responsabilità non è un'idea ma una persona vera, reale. Che deve imparare a vivere, a convivere con gli altri e a godere delle verità che impara. Chè senza questo, cosa educhiamo a fare?
Ecco, magari su questo non siete d'accordo. Certamente pare non essere d'accordo la scuola di oggi, almeno in alcune sue componenti. Dove sembra che il punto nodale della scuola non sia l'educare ma l'imparare, e forse neanche, forse solo l'impiegare. Come fa notare Caffarra, "senza preoccuparsi di trasmettere un progetto di vita, ritenuto veramente buono". Perché quel progetto non lo si trova più, è smarrito.
Mi scrivono così:
"Io sono un insegnante di scuola superiore in un Istituto statale: dopo ventotto anni di esercizio di tale professione nella Pubblica Amministrazione italiana sono arrivato a questa conclusione: non solo non esiste, nelle scuole italiane statali, il concetto stesso di educazione (nella riforma Berlinguer, per fare un esempio tra i tanti, non veniva neppure utilizzata la parola, ma si parlava al massimo di "istruzione") ma, cosa ancora più grave, gli addetti alla fornitura del servizio scolastico pubblico non hanno nemmeno l'idea corretta della natura dell'uomo, di come sia fatta e quali dinamiche abbia la persona umana. Gli studenti sono "clienti" (se non addirittura "consumatori" del servizio scolastico), tanto è vero che vengono chiamati "utenza"; gli insegnanti poi non vengono neanche presi in considerazione, in quanto sono considerati semplici ingranaggi dell'apparato pubblico (sono "forza-lavoro", per usare un termine marxiano che però è sempre di grande attualità nella realtà delle scuole nostrane).
In sintesi, per poter parlare di educazione, ossia di una comunicazione di sé da persona che educa a persona che accetta di essere educata, occorre sapere cosa è l'uomo, altrimenti tutta la costruzione cresce sbilanciata e dissestata; se l'uomo viene ridotto ad un agglomerato di molecole casualmente incontratesi non potrà esservi alcuna forma di reale educazione ma, starei per dire, nemmeno di effettivo apprendimento."
Per educare bisogna compiere delle scelte. Educare comporta "un giudizio circa la bontà di ciò che sto scegliendo. La libertà implica sempre un riferimento alla verità." E la verità implica un rapporto con l'infinito, con ciò che va oltre la nostra misura, è indipendente da noi.
Con qualcosa di più grande che su di noi si china e ci sorride, perché ha chiaro chi siamo e cosa è bene per noi. “Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem" (Virgilio, Ecloghe)
(Comincia, o piccolo fanciullo, a riconoscere col sorriso la madre)
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lunedì 12 settembre 2011

Oggi devo fermarmi a casa tua (Contributi 521)

L'editoriale odierno di Samizdat on Line si riferisce al Contresso Eucaristico di Ancona che si è appena concluso ed è evidentemente stato scritto mentre lo stesso era in corso. Trovo interessante quanto viene detto in esso:

Fino all'11 settembre, ad Ancona si tiene il Congresso Eucaristico. In una lettera ad "Avvenire", suor Maria Gloria Riva* racconta cosa significa per lei stare davanti a Cristo: «Imparo a guardare la vita nella profondità».

Caro direttore,
ogni volta che varco la soglia del nostro coro, grande abbraccio di legno simile a una croce in volo, una croce che ascende verso l’alto già preannuncio possente della risurrezione,
ogni qualvolta il pavimento di legno cede scricchiolando sotto il mio passo, assaporo il silenzio di un mondo che attorno a me pullula di vita eppure pare come assopito dentro il suo stesso movimentoso andare.
Che luce allora mi invade! Che segreta speranza cela la nostra vita nascosta eppure sollecita tra faccende di casa e grandi imprese, lunghi ascolti dei cuori degli uomini e solitudini improvvise, che segreta speranza quella di fissare lo sguardo nel Santissimo Sacramento.
Ogni giorno è per me una pagina di Eliot: La Rocca. Colei che veglia. / La Straniera. / Colei che ha visto cosa è accaduto. / Colei che vede ciò che accadrà. / La Testimone. / Colei che critica. / La Straniera. / La visitata da Dio, e nella quale è innata la verità. Adorare comincia qui, dentro un incontro col Mistero, dentro la consapevolezza che la vita, quella vera, va oltre gli orizzonti quotidiani, ma si dibatte là più in alto, dove solo chi sta arroccato come sentinella può davvero vedere. La Rocca, la straniera, la visitata da Dio, la luce splendida della verità è per me l’Eucaristia.
L’adorazione eucaristica non è una devozione, una pia pratica equivalente alle molte, anche belle e lodevoli, che la Chiesa offre ai suoi fedeli. L’adorazione è la condizione eterna dei beati. Là dove vedremo faccia a faccia Colui che ora contempliamo velato, e non servirà l’ausilio del Sacramento. Là resterà e sarà soltanto l’adorazione.
Aveva visto bene la beata Maria Maddalena dell’Incarnazione che, vissuta nella buriana degli anni successivi alla Rivoluzione Francese, ha additato alla Chiesa l’Eucaristia celebrata e adorata come il luogo verso il quale volgersi e ripartire. Tutto rinascerà da qui, da questo oblò di luce.
Adorare è per me purificare ogni giorno lo sguardo dai morsi velenosi di un qualunquismo diffuso, per imparare a guardare la vita nella profondità e nella bellezza delle sue pieghe, anche dolorose.
Sì, per me adorare è una scuola quotidiana di bellezza.
Oggi, ammalati come siamo un po’ tutti di narcisismo, una preghiera come quella adorante che ti obbliga ad avere come centro Qualcuno che sta fuori di te, sta oltre te, è estremamente educativo.


Disputa del Ss.Sacramento - Raffaello
  Mi viene in mente la stanza della Segnatura di Raffaello, la cosiddetta Disputa del Santissimo Sacramento. Raffaello aveva pensato la Chiesa come un’architettura di uomini, tanto gli era già chiaro – senza per forza che arrivasse il Concilio Vaticano II – che la Chiesa di Cristo siamo noi, uomini di carne e di sangue, santi di ieri e di oggi. Eppure, dopo aver realizzato questa Chiesa di uomini disposta a corona attorno alla Santissima Trinità, alla Vergine e agli Apostoli, ha sentito il bisogno profetico di consegnare questa schiera a un centro, a un punto focale che tutto raccogliesse e rilanciasse. Così, davvero profeticamente, Raffaello intinse il suo pennello nel colore della luce e realizzò un altare e sull’altare il Santissimo Sacramento esposto e adorato.
Che grandi uomini questi artisti! Eppure così uomini, per chi conosce le loro storie, così tormentati dai miseri progetti quotidiani, essi proprio nella loro arte, cioè nella loro aspirazione alla bellezza hanno saputo dire il Vero e il Bene.
Ecco, per questo adoro ogni giorno, e più volte al giorno, per accordare ogni istante la mia vita a quel Vero e a quel Bene che mi rendono più donna solo nel momento in cui mi aprono allo stupore del Bello.
Adorare insegna anche questo: ci si salva dall’ideologico solo quando s’impara a vivere nello stupore. Lo diceva già il grande Gregorio Nazianzeno: i concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce.
*Monaca dell'Adorazione Eucaristica a Pietrarubbia (Pu)
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domenica 11 settembre 2011

Domenica 24^ t.o. (Angelus 40)

Dal cantiere navale di Ancona in occasione della visita per il 25° Congresso Eucaristico Nazionale:


Cari fratelli e sorelle,
prima di concludere questa solenne Celebrazione eucaristica, la preghiera dell’Angelus ci invita a rispecchiarci in Maria Santissima, per contemplare l’abisso d’amore da cui proviene il Sacramento dell’Eucaristia. Grazie al “fiat” della Vergine, il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Meditando il mistero dell’Incarnazione, ci rivolgiamo tutti, con la mente ed il cuore, verso il Santuario della Santa Casa di Loreto, dal quale ci separano solo pochi chilometri. La terra marchigiana è tutta illuminata dalla spirituale presenza di Maria nel suo storico Santuario, che rende ancora più belle e più dolci queste colline! A Lei affido in questo momento la città di Ancona, la Diocesi, le Marche e l’Italia intera, affinché nel popolo italiano sia sempre viva la fede nel Mistero eucaristico, che in ogni città e in ogni paese, dalle Alpi alla Sicilia, rende presente Cristo Risorto, sorgente di speranza e di conforto per la vita quotidiana, specie nei momenti difficili.
Oggi il nostro pensiero va anche all’11 settembre di dieci anni fa. Nel ricordare al Signore della Vita le vittime degli attentati compiuti in quel giorno e i loro familiari, invito i responsabili delle Nazioni e gli uomini di buona volontà a rifiutare sempre la violenza come soluzione dei problemi, a resistere alla tentazione dell’odio e a operare nella società, ispirandosi ai principi della solidarietà, della giustizia e della pace.
Per intercessione di Maria Santissima, prego, infine, il Signore di ricompensare tutti coloro che hanno lavorato per la preparazione e l’organizzazione di questo Congresso Eucaristico Nazionale, e ad essi rivolgo di cuore il mio più vivo ringraziamento!
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venerdì 9 settembre 2011

L'adorazione per incrementare confessioni ed Eucaristia (Contributi 520)

In occasione del Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona ecco un'intervista di Antonio Gaspari a don Alberto Pacini, Rettore della Chiesa di Sant'Anastasia al Palatino di Roma, che ci ricorda il valore immenso dell'Eucarestia e dell'adorazione eucaristica.

Qual è il significato dell’Eucaristia per la fede cattolica?

Don Alberto Pacini durante l'Adorazione Eucaristica
 L’Eucaristia è il Sacramento istituito da Gesù, nella notte dell’ultima cena in occasione della sua ultima Pasqua, con i suoi discepoli. È il sacramento dell’amore, è il segno vivo e reale del supremo sacrificio di Gesù, venuto nel mondo per compiere le Scritture e salvare il suo popolo Israele e tutte le nazioni, secondo le promesse fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. In questo Sacramento Gesù ci dona il suo corpo ed il suo sangue, con le parole ed i gesti, che ha comandato ai suoi di perpetuare per essere presente con noi per sempre: “Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo” (Mt 28,20). In questo Sacramento il Signore si rende presente in modo del tutto particolare, in modo sostanziale, cioè non solo spirituale, ma anche con il suo corpo, sangue anima e divinità, per essere cibo e farmaco dell’immortalità: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54). Questo sacramento è quindi Dio presente in mezzo a noi oggi e sempre; cosicché ogni volta che mangiamo di Lui, viviamo per Lui (Gv 6), ogni persona che si accosta a questo Sacramento entra in contatto con il Dio creatore e salvatore, con tutta la sua potenza divina di amore, con la sua suprema ed infinita misericordia, sperimenta l’abbraccio di amore del Padre, che ha preparato la sua mensa sponsale e tutti i suoi “figli prodighi” che, accolto l’invito, tornano a casa (Lc 15,11-32).


Perché è così importante per la fede cattolica?
L’Eucaristia non è importante solo per la fede cattolica, perché, come scrisse il Beato Giovanni Paolo II in Ecclesia de Eucharestia n° 8: “Perché anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l'Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull'altare del mondo. Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato.
Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla. E così Lui, il sommo ed eterno Sacerdote, entrando mediante il sangue della sua Croce nel santuario eterno, restituisce al Creatore e Padre tutta la creazione redenta”. Che gli uomini e le donne di questo mondo lo sappiano o meno, essi sono coinvolti nell’azione salvifica del Figlio di Dio fattosi Figlio dell’Uomo, presente ormai in modo definitivo in questo mondo. La Chiesa cattolica custodisce questo mistero, in comunione perfetta ed ininterrotta tra i vescovi di tutto il mondo e con gli apostoli, mediante la trasmissione apostolica. La Chiesa cattolica custodisce questo tesoro, il più prezioso che esista, non solo nella sua fede, indefettibile per opera dello Spirito Santo, ma anche nella sua celebrazione e nella sua adorazione ed in tutti i tabernacoli del mondo. Dall’Eucaristia si irradia in modo inesauribile lo Spirito Santo, come dal costato di Cristo trafitto per amore e riempie tutto il mondo con la sua potenza salvifica, cosicché, lo possiamo dire con le parole di Benedetto XVI alla XXIII GMG: “Fonte e culmine” della vita ecclesiale, l'Eucaristia è una "Pentecoste perpetua". In questa Perpetua Pentecoste lo Spirito agisce non solo nella Chiesa, ma anche a beneficio di tutta l’umanità


In che modo può essere ravvivata la fede nella pratica eucaristica?
Poiché a pregare si impara pregando, è con la pratica dell’Adorazione che si impara ad adorare, ma è necessario che tutte le nostre parrocchie, le comunità cristiane, diventino scuole di preghiera: occorre aprire le nostre chiese, non solo per le mille attività, che fanno di esse dei veri multi-servizi, quasi dei supermercati dell’attivismo, ma per incontrare il Signore, vivo e presente nel Sacramento mirabile dell’Eucaristia, per essere da lui accolti, amati, ammaestrati, nella sua scuola di preghiera
Pertanto noi sacerdoti abbiamo il grande e delicato compito di spalancare senza paura le nostre chiese, inginocchiarci davanti al tabernacolo aperto, sostare in preghiera per nutrire ed affinare il nostro spirito, dare testimonianza di amore ai nostri fedeli, renderci disponibili per formarli a questo medesimo amore, vederli crescere e desiderare di bere alla fonte zampillante della grazia.
Dal silenzio denso di presenza, dell’Adorazione eucaristica, tante persone si sono poi riavvicinate alla celebrazione dell’Eucaristia, dopo essere passate attraverso l’abbraccio della misericordia del Sacramento del Perdono, dopo anni di assenza dalla Chiesa.
Noi sacerdoti, come ministri delle cose sante di Dio, abbiamo il dovere di innamorarci sempre più di esse e di contagiare a questo amore tutti i fedeli, vicini e lontani.
Certamente siamo in tempi difficili, dove l’aratro del secolarismo ha scavato profondi solchi di indifferenza ed inaridito i cuori… ma in modo provvidenziale, l’acqua viva dello Spirito, che sgorga dal Sacramento dell’Eucaristia, è proprio la linfa che i cuori assetati cercano, come scriveva in modo magistrale Giovanni Paolo II:“…E non è forse un «segno dei tempi» che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera?” (Novo Milennio Ineunte 33). Stranamente proprio in questo tempo tanti sono disposti ad ascoltare ed accogliere l’invito a pregare, ad Adorare il Signore, si tratta di “osare”, con piccoli gesti profetici che definirei di “coraggio pastorale”, quei gesti di cui sono stati capaci i santi di tutte le epoche. Il Santo Curato d’Ars che ci è stato da poco additato dal Papa ci si offre come fulgido esempio.
La mia personale esperienza, in un’antica chiesa vuota e sconosciuta ai più, è stata proprio di vederla riempire dal momento in cui l’ho aperta in ore improbabili, con l’ostensorio sull’altare, essendo a volte io stesso l’unico adoratore. Le persone cominciavano ad entrare, prima timidamente, poi sempre più di frequente, in tutte le ore del giorno fino a sera tardi, qualcuno, dopo anni di lontananza dalla Chiesa e dai Sacramenti, si è riavvicinato alla Confessione, tra le lacrime di gioia e di consolazione. Infine ecco la necessità di lasciare questa chiesa aperta sempre: di giorno e di notte, ormai da dieci anni…


Quali relazioni ci sono tra l’Eucaristia e l’Adorazione Perpetua?
In Cielo, per tutta l’eternità le schiere degli angeli e dei santi adorano l’Agnello immolato per noi (cfr Ap 7,4ss) e qui in terra, come in Cielo, quel medesimo Agnello, presente nelle specie del pane e del vino, si dona a noi, che lo adoriamo e lo riceviamo con amore e consapevolezza. Cosa c’è di più bello che sostare in Sua presenza e continuare ad assaporare la dolcezza del suo amore, nei tempi di silenziosa adorazione?
Perché, se le nostre attività lavorative proseguono frenetiche di giorno e di notte, come nelle fabbriche a ciclo continuo, la nostra preghiera dovrebbe interrompersi?
Chi può dire quando questa adorazione deve interrompersi?
Quindi dalla celebrazione, si passa all’adorazione e dall’adorazione si giunge ad una celebrazione più matura e consapevole, assaporata, pregata, docili all’azione dello Spirito. “Peccheremmo se non adorassimo, colui che andiamo a ricevere” dice S. Agostino. Ecco cosa avviene quando noi sacerdoti, credendo nel valore dell’Eucaristia, credendo nella “presenza reale”, ci slanciamo in un coraggioso atto di fede in Cristo: “Ora dobbiamo guardare avanti, dobbiamo «prendere il largo», fiduciosi nella parola di Cristo: Duc in altum!” scriveva Giovanni Paolo II (Cfr NMI 15). L’Adorazione Perpetua diventa così una poderosa ed efficace azione pastorale, una “Rivoluzione Copernicana” della vita delle nostre parrocchie, Gesù posto al centro che rigenera la fede, la vita liturgica, la catechesi, l’ascolto della Parola, l’azione caritativa, la missione.
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mercoledì 7 settembre 2011

I due volti della Maremma (Contributi 519)

Un'altra storia di vita sacerdotale, anzi in verità due. Altre due belle storie. E, personalmente, resto disponibile a raccogliere ulteriori nuovi racconti.

Così lontani, così vicini. Entrambi parroci in Maremma, a pochi passi dal mare, a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro: ma è difficile trovare due preti diversi tra loro come don Gianni Malberti e don Sandro Spinelli. Per temperamento, per modo di affrontare la vita, di raccontare di sé.
Eppure, oltre l’apparente divario affiora una radice comune, e neanche tanto nascosta. Sono due volti della Fraternità san Carlo (due dei primi); due volti della missione in Toscana. Due volti con uno sguardo comune. Siamo andati a trovarli, ecco cosa abbiamo scoperto.


Il «tedesco» e la grazia
“Questa è la messa di un prete della Fraternità”, è stata la prima cosa che abbiamo pensato entrando nella chiesa di S. Maria Goretti, a Castiglione della Pescaia. L’ordine dell’arredo, la cura della liturgia, la semplicità dei gesti, l’attenzione dei fedeli: tutte cose che dicono di un’identità. E la chiesa è quasi piena, una domenica pomeriggio di maggio.
«Ce ne vorrebbero di più di preti così», ci dice fuori dalla chiesa una parrocchiana, evidentemente del gruppo delle fan. «Per alcuni è un po’ troppo “tedesco”, ma è perché non lo conoscono bene». In effetti l’aria teutonica un po’ ce l’ha, don Gianni, con quell’espressione seria e il ciuffo bianco ratzingeriano sugli occhi. Tuttavia Malberti non è della Baviera ma di Desio, lo stesso paese di don Giussani. E proprio con don Giussani ha verificato l’ipotesi di entrare in seminario, al Paradiso di Bergamo, lo stesso frequentato da don Massimo e dagli altri primi membri della Fraternità san Carlo.
«Gli anni del seminario sono stati molto belli. Avevamo tutti più di vent’anni. La nostra vocazione era maturata in età adulta. Al Paradiso c’era un’apertura maggiore della media, e fra di noi c’era una grande amicizia».
Ordinato nel 1982, don Gianni va a Firenze. Quando la Fraternità nasce ufficialmente, vi entra: «Nel frattempo intanto avevo iniziato a collaborare con padre Romano Scalfi e il Centro Russia Cristiana: vivevo al Collegio Russicum e studiavo al Pontificio Istituto Orientale con la prospettiva di andare in Unione Sovietica». Scopriamo così che sono di don Gianni i primi passi della Fraternità san Carlo in Siberia, attraverso il rapporto con padre Pavel, un missionario lituano. Malberti vede crollare l’impero sovietico e poi rientra in Italia, diocesi di Grosseto: prima a Punta Ala, poi in una parrocchia dell’interno e infine (da dieci anni) a Castiglione della Pescaia.
Don Gianni ci porta lungo le stradine del borgo antico, fino alla fortezza che dà il nome al paese, in cima a una collinetta. Da lassù si gode di una splendida vista della Maremma: a sinistra la riserva naturale del Padule, a destra la costa verso Punta Ala, davanti le isole d’Elba, di Montecristo e del Giglio. C’è una grande pace: l’estate non è ancora iniziata. «La parrocchia, e il lavoro di parroco, hanno un volto invernale e un volto estivo. Sono due attività totalmente diverse». Due volti della Maremma. Un’unica missione.
Volto “invernale”: «Domenica scorsa c’erano le prime comunioni. Uno dei ragazzi aveva i genitori sposati solo civilmente, e due fratelli non battezzati: non per avversione ma per mancanza di ragioni, di incontri. Il percorso di questo figlio è stata l’occasione per il papà e la mamma di incontrare il cristianesimo. Si è ridestato in loro il desiderio di approfondire la vita della fede, riportando alla superficie quanto giaceva nel fondo: si sono sposati in Chiesa dieci giorni fa. Ora stiamo preparando il battesimo degli altri due figli, mentre il primo, dopo la comunione, ha espresso il desiderio di fare il chierichetto».
Volto “estivo”: «D’estate la domenica abbiamo cinque messe, tutte stracolme, più tre il sabato». Ed è boom di confessioni: «Si incontra un’umanità bisognosa di speranza, di conforto, di perdono. Storie anche drammatiche: la confessione fa respirare, non perché sminuisce il peccato, ma, al contrario, perché giudica, e così riapre alla misericordia. Occorre un giudizio, perché la gente vuole essere presa sul serio, anche nel male che ha commesso. La confessione dà la possibilità di riprendersi dalla disperazione, perché fa intravedere la misericordia di Dio».
La Maremma è un paradiso nato da una palude. E la palude è il rischio perenne dei cuori: «Per le generazioni giovani il benessere è l’unico valore, l’unica ragione di vita. Sono nati e cresciuti in una società così, non hanno un altro orizzonte. Negli anni Settanta c’erano grandi domande di fondo. Oggi è solo l’incontro con Cristo che può far sorgere la domanda e insieme dare la risposta. È il cammino del senso religioso. Il lavoro è faticoso, ma le esigenze sono le stesse, in tutti i tempi, per tutte le persone». E un prete, cosa deve fare? «Cogliere i segnali che la Grazia fa emergere. La pastorale è necessaria ma è più necessario cogliere i segni dello Spirito, come il cambiamento delle persone».
Don Gianni, “tedesco” in Maremma, non sorride spesso. È fatto così. Ma a un certo punto, parla quasi a se stesso: «La questione è il valore della persona. Cristo è morto per me, per te. Questo ridimensiona tutti i progetti e le strategie pastorali in favore della quotidianità della grazia. È la posizione di Violaine, nell’Annuncio a Maria di Claudel: io sono contenta perché tutto è dove deve essere, e questo è il mio posto». E dicendolo, sorride.


L’anarchico di Punta Ala
«Ciao Gesù», dice don Sandro entrando in chiesa. «Ti presento due seminaristi della Fraternità, ma non badarci troppo, perché chissà cosa potrai cavarci!».
Questo è don Sandro Spinelli. Un personaggio da racconto di Guareschi. «Cosa siete venuti a fare qui da me? Accomodatevi, scusate il disordine (libri, quadri, tavolo pieno di fogli, colombe pasquali, sedie ingombre). Tenete, questo è del vino per voi; è di quello buono. A me lo regalano e io non bevo. E questi invece sono dei biscotti: cantucci toscani. Se non li volete non ve li do, eh (no, no, li prendiamo). Questi invece sono i miei libri: sulla figura di San Gugliemo d’Aquitania, che si ritirò eremita in Maremma, sulla teologia dell’arte, sulla mia esperienza con i carcerati, sulla carità… dopo ve ne lascio una copia. Ora invece sedetevi, vi voglio leggere una mezza paginetta». Cosa?: «Un brano di Leclerq che cita san Francesco: “Molti frati invidiano forme di vita religiosa più organizzate, più solide, più efficienti (…) Io per conto mio, il Signore non mi ha chiamato per questo. Mi ha chiesto di vivere secondo la forma del Vangelo: vivere, semplicemente vivere. A questa vita non si possono applicare principi organizzativi: deve fiorire secondo libertà, trovare la propria legge in Cristo. Gli uomini che seguiranno questa regola costituiranno in ogni luogo delle libere comunità/fraternità di amici, saranno i veri figli del Vangelo, uomini liberi giacché nulla ne limiterà l’orizzonte”». «Capito? Io intendo essere un uomo libero, che non vuol dire istintivo, ma con il cuore e con la mente liberi. Seminaristi, ma voi siete felici? Non dico ingenui, dico felici; semplici, non schematici. Adesso andiamo a prendere un aperitivo al porto», dice accendendosi un mezzo toscano.
Curriculum di don Sandro: «Seminario al Paradiso, poi la nascita della Fraternità san Carlo. Nove anni a Roma (con vari incarichi nella prima casa di formazione), quattro anni a mezzo a Napoli (rettore di una scuola), quattro anni e mezzo a Cosenza (in Curia e in carcere). E da 12 anni sono qui». Cosa vuol dire fare il parroco a Punta Ala? I lettori di Fraternità e Missione forse sanno già che cosa vuol dire, tra l’altro, battezzare Luna rossa (la barca di Prada che ha partecipato alla Coppa America). Punta Ala è un rifugio di vip, un nido di super­yacht, un concentrato di auto con la scorta. Ma non solo.
«I forestieri sono dieci volte i parrocchiani. Vengono qui l’estate, oppure il fine settimana. Eppure con molti di loro c’è un legame strettissimo, perché ciò che sta a cuore a me (e certo anche a loro) è un rapporto personale, non un adeguarsi a degli schemi personali e stereotipati. Qui viene il re Juan Carlos di Spagna, viene Gianni Letta, uomini e donne di spettacolo, sportivi… ma con loro ho un rapporto profondo, che non è diverso da quello con i “miei” contadini. Tutto dipende da come li incontri: puoi anche raccontare barzellette, ma poi devi richiamarli all’essenziale. Io predico in tutta la diocesi, dirigo l’Ufficio cultura, insegno teologia morale e teologia dell’arte, ma l’importante è guardare in faccia le persone. E in dodici anni, la realtà non mi ha mai tradito. Gli unici che non sopporto sono gli schematici (come sopra), i formalisti, quelli che non si mettono in gioco».
Dal porto arriviamo alla chiesetta di Punta Ala. La domenica da don Sandro vanno tutti, tanto che i negozianti chiedono a lui se è arrivata molta gente o no. «Ero qui da poco e, alla fine della messa, un signore tracagnotto di 70 anni viene a salutarmi e a farmi i complimenti. Io gli dico: “Ma va’, smettila, non si fanno i complimenti ai preti, che poi si inorgogliscono; tu come stai piuttosto, cosa fai di bello?”. Beh, era un altissimo esponente della magistratura. E mi disse che nel mio approccio si era sentito voluto bene come non gli capitava con tutte le persone che ogni giorno lo chiamavano eccellenza».
Re, magistrati e contadini, insomma fedeli: «Qui siamo in Toscana, e l’ideologia di sinistra domina sovrana. Ma non è la diversità politica che ci divide né altro, altrimenti si ricade nello schematismo che impedisce l’incontro. Per essere santo non devi imitare nessuno, se non il Signore Gesù; devi essere te stesso sempre, devi usare le doti che il Signore ti ha dato, e giocarle tutte nella situazione in cui il Signore ti ha messo. Non omologhiamoci! Come diceva Rilke, “Dio ti incontra là dove tu hai le tue radici oggi”. Io sto bene con tutti: con i carabinieri, con gli elettricisti, con i velisti. Faccio fatica solo con gli schematici (se non era abbastanza chiaro ndr). Il buon Dio li salva lo stesso, ma sono tristi».
Mentre ci porta a pranzo, l’ultimo aneddoto. «C’era qui a Punta Ala un anarchico, uno della “dolce vita romana”, che viveva in una capanna di legno, girava a pieni nudi, andava a cavallo, dipingeva, organizzava feste, offriva da mangiare. La prima domenica dal mio arrivo a Punta Ala, me lo trovo in chiesa, era stravaccato in prima fila. Dopo le prime due messe, mi ferma e mi dice: “Io e te andiamo d’accordo”. Alla terza domenica inizia ad arrivare vestito normalmente e mi chiede di leggere la prima lettura; e da quel momento l’ha letta sempre lui. Una domenica c’era il vangelo della samaritana, incontrata da Gesù al pozzo; poco tempo dopo mi regalò un quadro con quella scena, che recava sul retro la dedica: “A don Sandro, perché mi porta quell’acqua viva di cui tutti abbiamo bisogno”. È morto due o tre anni fa. Negli ultimi giorni, mi ha chiesto di accompagnarlo a Siena all’ospedale e di procurargli il libro di Giobbe in latino e in greco, perché così voleva prepararsi alla morte».
Anche don Sandro è un anarchico di Punta Ala. Un anarchico che ha trovato la sua appartenenza, e per questo è libero.
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