Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

venerdì 30 aprile 2010

Giovanni di Fécamp (Contributi 295)

l'abate poeta che esaltò Cristo innamorato dell'uomo
Propongo da Il Sussidiario quest'articolo di Laura Cioni

È recentemente uscita da Jaca Book l’edizione aggiornata di Pregare nel Medioevo di Giovanni di Fécamp, a cura di Giorgio Maschio. Nella breve e interessante introduzione si traccia la storia di quest’opera a lungo attribuita per la sua bellezza ora a sant’Agostino, ora a sant’Ambrogio, ora a Cassiano, cioè ad alcuni dei Padri più sovente riecheggiati. Si tratta di un libro di preghiere, simile a quelli utilizzati da monaci e laici già dall’età carolingia, composti dai compilatori alternando brani dei Padri, litanie, preghiere e salmi, allo scopo di favorire la lode di Dio e il dono dello Spirito.
L’autore è un monaco originario di Ravenna, nato attorno al 990, formato nel monastero di Digione e successivamente priore e abate nell’abbazia di Fécamp in Normandia, che governò fino alla morte, avvenuta nel 1078. Egli scrive innanzitutto per se stesso, per avere a disposizione brevi testi, per usare le sue parole, da poter leggere nei momenti di aridità, capaci di riaccendere il fuoco dell’amore per te, che facilmente si spegne. Ma altri chiedono le sue pagine ed egli volentieri le mette a disposizione. Esse passano tra le mani degli amici e vengono largamente ricopiate, fino a essere stampate in epoca moderna. Il loro autore cade nell’oblio, fino a quando viene riscoperto nel 1946 come uno dei più autorevoli esponenti della riforma cluniacense e il più notevole scrittore spirituale prima di san Bernardo.
La Confessione teologica di Giovanni di Fécamp è in fondo un’opera di amicizia spirituale e di essa conserva il profumo buono e persistente, offerto nella trasparenza di una forma accurata. Non c’è in lui alcuna allusione autobiografica come in sant’Agostino o alcuna preoccupazione pastorale, come in san Gregorio Magno. Centro della sua teologia è il mistero della Redenzione, con un accento inconsueto di devozione all’umanità di Cristo, dolce Signore innamorato dell’uomo, ben prima dei tempi di san Bernardo e di san Francesco. Il testo latino offre l’esempio dell’uso sapiente delle figure retoriche più semplici e frequenti, quali l’anafora e il parallelismo, che la bella traduzione italiana riesce a conservare.
Egli ha gustato i grandi maestri, dai salmi ai Padri della Chiesa e li ha assimilati così bene da comporre un florilegio dei loro scritti senza accorgersi di fare un’opera originale. La sua persona rimane completamente celata, in luce si trova il mistero della salvezza fino allo splendore della Chiesa in terra e in cielo. Tanti sono i momenti in cui è evidente che la preghiera monastica dell’abate di Fécamp, composta quasi mille anni fa, è attuale e valida ancor oggi in mutate circostanze:


Abbi pietà di me: attirami a te
con la forza della tua onnipotenza
e non mi lasciar vagabondare
dietro alla mia volontà e al mio libero arbitrio.
Non lasciare che si oscuri in me la tua immagine:
custodita dalla tua protezione, essa è sempre stupenda,
sempre nobile e luminosa.
Per te e per il tuo santo nome
accresci sempre in me la fede,
la fede retta, la fede santa, la fede immacolata.
Attraverso l’amore e l’umiltà
essa operi in me tutto ciò che ti è gradito.

Non solo il monaco, ma ogni cristiano è consapevole di essere viandante su questa terra e sa di dover tenere gli occhi fissi alla meta. Ecco come evoca questa condizione di speranza la poesia di Giovanni di Fécamp:


O casa luminosa e bellissima,
io ho sempre amato il tuo splendore
e il luogo dove abita la gloria del mio Signore,
colui che ti ha costruita e ti possiede.
Sospiri a te il mio pellegrinaggio
e a Lui, che ti ha fatta, io dico
che al tuo interno possieda anche me,
perchè anche me Egli ha fatto.
Come pecora smarrita sono andato errando,
ma sulle spalle del mio pastore, il tuo architetto,
io spero di essere a te ricondotto.
Gerusalemme, dimora eterna di Dio, non si scordi di te l’anima mia:
dopo l’amore per Cristo, sii tu la mia gioia
e il dolce ricordo del tuo nome beato
mi sollevi dalla tristezza e da ciò che mi opprime.
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mercoledì 28 aprile 2010

Non c'è carità senza vivere in Cristo (Contributi 294)

Benedetto XVI ha dedicato la catechesi dell’Udienza Generale di questo Mercoledì 28/4 a due Sacerdoti italiani: San Leonardo Murialdo (1828-1900) e San Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842), “due santi Sacerdoti esemplari nella loro donazione a Dio e nella testimonianza di carità, vissuta nella Chiesa e per la Chiesa, verso i fratelli più bisognosi”.

San Leonardo Murialdo, superata in gioventù una profonda crisi esistenziale e spirituale, divenne sacerdote nella Torino di San Giovanni Bosco dal quale fu conosciuto ed apprezzato, e che “lo convinse ad accettare la direzione del nuovo Oratorio di San Luigi a Porta Nuova che tenne fino al 1865. Lì venne in contatto” –ha spiegato il Papa – “anche con i gravi problemi dei ceti più poveri, ne visitò le case, maturando una profonda sensibilità sociale, educativa ed apostolica che lo portò poi a dedicarsi autonomamente a molteplici iniziative in favore della gioventù”.



“Nel 1873 fondò la Congregazione di San Giuseppe, il cui fine apostolico fu, fin dall’inizio, la formazione della gioventù, specialmente quella più povera e abbandonata” – ha aggiunto il Santo Padre sottolineando che “il nucleo centrale della spiritualità del Murialdo è la convinzione dell’amore misericordioso di Dio: un Padre sempre buono, paziente e generoso, che rivela la grandezza e l’immensità della sua misericordia con il perdono”.


“Sottolineando la grandezza della missione del sacerdote che deve ‘continuare l’opera della redenzione’ (...) San Leonardo ricordava sempre a se stesso e ai confratelli la responsabilità di una vita coerente con il sacramento ricevuto”.


“Con lo stesso spirito di carità è vissuto, quarant’anni prima del Murialdo, san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore dell’opera da lui stesso denominata ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza’ e chiamata oggi anche ‘Cottolengo’” – ha proseguito il Pontefice – “Giuseppe Benedetto (...) mostrò fin da fanciullo grande sensibilità verso i poveri”. Dopo anni di proficuo ministero sacerdotale, l’incontro con una giovane donna malata, madre di cinque figli, che si trovò ad accompagnare alla morte, cambiò la sua vita.


“Il Signore pone sempre dei segni sul nostro cammino per guidarci secondo la sua volontà al nostro vero bene” – ha affermato il Pontefice – “Da quel momento il Cottolengo fu trasformato: tutte le sue capacità, specialmente la sua abilità economica e organizzativa, furono utilizzate per dare vita ad iniziative a sostegno dei più bisognosi. Egli seppe coinvolgere nella sua impresa decine e decine di collaboratori e volontari. (...) Mise in atto lo stile delle ‘famiglie’, costituendo delle vere e proprie comunità di persone, volontari e volontarie, uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare e superare insieme le difficoltà che si presentavano. Ognuno in quella Piccola Casa della Divina Provvidenza aveva un compito preciso (...). Sani e ammalati condividevano tutti lo stesso peso del quotidiano. Anche la vita religiosa si specificò nel tempo, secondo i bisogni e le esigenze particolari”.


“Per i suoi poveri e i più bisognosi, si definirà sempre ‘il manovale della Divina Provvidenza’”, ha ricordato Benedetto XVI.


“Questi due santi Sacerdoti” – ha concluso il Papa – “hanno vissuto il loro ministero nel dono totale della vita ai più poveri, ai più bisognosi, agli ultimi, trovando sempre la radice profonda, la fonte inesauribile della loro azione nel rapporto con Dio, attingendo dal suo amore, nella profonda convinzione che non è possibile esercitare la carità senza vivere in Cristo e nella Chiesa. La loro intercessione e il loro esempio continuino ad illuminare il ministero di tanti sacerdoti che si spendono con generosità per Dio e per il gregge loro affidato, e aiutino ciascuno a donarsi con gioia e generosità a Dio e al prossimo”.
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martedì 27 aprile 2010

Sacerdoti (Post 85)

Mi aspettavo di più onestamente dal post precedente sui sacerdoti. Più interventi, qualche reazione in più. Mi aspettavo che la figura del sacerdote interessasse un poco a qualcuno, che interessasse ai sacerdoti stessi. Invece solo un commento, sia pure interessante, di un lettore anonimo che riporto:
Il sacerdote è un dono immenso di Dio all'uomo...se ci aspettiamo da lui che sia il ponte per far scendere Gesù sulla terra in ogni Messa, lo ameremo più facilmente.
Se , invece, ci aspettiamo che sia un super uomo o che abbia meno peccati...saremo delusi. Lui soffre più degli altri, perché nell'impeto della giovinezza ha donato ciò che legittimamente gli spettava...poi non gli è risparmiata la fatica della fedeltà...lo possiamo aiutare se mettiamo l'accento sul suo positivo e cerchiamo di non vedere il suo limite o negativo...Signore, dacci sacerdoti santi.
Tutto vero, il prete dovrebbe essere un uomo (con tutti i difetti del caso) che rende presente Cristo ad altri uomini.
Ma lo fa perchè ha lui per primo incontrato Cristo in altri uomini, in altri sacerdoti. Dovrebbe avere l'amabilità e la dolcezza di Cristo, il Suo amore per gli altri, per ogni singolo uomo.
Invece molto spesso non incontriamo questo ma solo "mestieranti" incapaci di testimoniare qualcosa di diverso da sè. Ho avuto, in questi giorni, un'esperienza molto negativa con diversi sacerdoti cui avevo chiesto, via mail,  un aiuto economico (anche minimo, anche solo 10 euro) per degli amici in difficoltà. Su 70 solo uno ha risposto dicendo che non poteva fare nulla. Tutti gli altri neanche quello. Hanno ignorato completamente il mio messaggio.

Ma in questo caso invece di fermarci alla prima, istintiva, reazione di disgusto (motivata più dall'orgoglioso voler vedere le altrui pagliuzze ignorando le nostre travi) dovremmo pregare per la conversione di questi uomini che spesso si trovano soli nel loro ministero.
Il sentimento che ci deve muovere è una passione per la nostra e altrui santità e non il moralistico pretendere il buono dagli altri indulgendo sul nostro cattivo. Se ognuno avesse più a cuore il regno di Dio piuttosto che l'affermazione di sè anche i sacerdoti sarebbero più aiutati a svolgere la loro missione. E ognuno, naturalmente, porterebbe con gioia i pesi degli altri..
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lunedì 26 aprile 2010

Santità, continui Lei a parlarci del sacerdote! (Contributi 293)

Tratto da Cultura Cattolica vi propongo un articolo di Don Gino Oliosi

Per essere testimone di Cristo che suscita vocazioni il prete deve averlo “visto” personalmente, deve averlo conosciuto, deve aver imparato ad amarlo e a stare con lui

«Elemento fondamentale e riconoscibile di ogni vocazione al sacerdozio e alla consacrazione è l’amicizia con Cristo. Gesù viveva in costante unione con il Padre, ed è questo che suscitava nei discepoli il desiderio di vivere la stessa esperienza, imparando da Lui la comunione e il dialogo incessante con Dio. Se il sacerdote è l’”uomo di Dio”, che appartiene a Dio e che aiuta a conoscerlo e ad amarlo, non può non coltivare una profonda intimità con Lui, rimanere nel suo amore, dando spazio all’ascolto della sua Parola. La preghiera è la prima testimonianza che suscita vocazioni. Come l’apostolo Andrea, che comunica al fratello di aver conosciuto il Maestro, ugualmente chi vuol essere discepolo e testimone di Cristo deve averlo “visto” personalmente, deve averlo conosciuto, deve aver imparato ad amarlo e a stare con Lui.
Altro aspetto della consacrazione sacerdotale e della vita religiosa è il dono totale di sé a Dio. Scrive l’apostolo Giovanni: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16). Con queste parole, egli invita i discepoli ad entrare nella stessa logica di Gesù che, in tutta la sua esistenza, ha compiuto la volontà del Padre fino al dono supremo di sé sulla croce. Si manifesta qui la misericordia di Dio in tutta la sua pienezza: amore misericordioso che ha sconfitto le tenebre del male, del peccato e della morte. L’immagine di Gesù che nell’Ultima Cena si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugamano, se lo cinge ai fianchi e si china a lavare i piedi agli Apostoli, esprime il senso del servizio e del dono manifestati nell’intera esistenza, in obbedienza alla volontà del Padre (Gv 13, 3-15). Alla sequela di Gesù, ogni chiamato alla vita di speciale consacrazione deve sforzarsi di testimoniare il dono totale di sé a Dio. Da qui scaturisce la capacità di darsi poi a coloro che la Provvidenza gli affida nel ministero pastorale, con dedizione piena, continua e fedele, e con la gioia di farsi compagno di viaggio di tanti fratelli, affinché si aprano all’incontro con Cristo e la sua Parola divenga luce per il loro cammino. La storia di ogni vocazione si intreccia quasi sempre con la testimonianza di un sacerdote che vive con gioia il dono di se stesso ai fratelli per il regno dei Cieli. Questo perché la vicinanza e la parola di un prete sono capaci di far sorgere interrogativi e di condurre a decisioni anche definitive (Pastores dabo vobis, 39).
Infine, un terzo aspetto che non può non caratterizzare il sacerdote e la persona consacrata è il vivere in comunione. Gesù ha indicato come segno distintivo di chi vuol essere suo discepolo la profonda comunione nell’amore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni e gli altri” (Gv 13,35). In modo particolare, il sacerdote dev’essere uomo di comunione, aperto a tutti, capace di far camminare unito l’intero gregge che la bontà del Signore gli ha affidato, aiutando a superare divisioni, a ricucire strappi, ad appianare contrasti e incomprensioni, a perdonare le offese. Nel luglio 2005, incontrando il clero di Aosta, ebbi a dire che se i giovani vedono sacerdoti isolati e tristi, non si sentono certo incoraggiati a seguirne l’esempio. Essi restano dubbiosi se sono condotti a considerare che questo è il futuro di un prete. E’ importante invece realizzare la comunione di vita, che mostri loro la bellezza dell’essere sacerdote. Allora, il giovane dirà: questo può essere un futuro anche per me, così si può vivere. Il Concilio Vaticano II, riferendosi alla testimonianza che suscita vocazioni, sottolinea l’esempio di carità e di fraterna collaborazione che devono offrire i sacerdoti (OT 2).
Mi piace ricordare quanto scrisse il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II: “La vita stessa dei presbiteri, la loro dedizione incondizionata al gregge di Dio, la loro testimonianza di amorevole servizio al Signore e alla sua Chiesa – una testimonianza segnata dalla scelta della croce accolta nella speranza e nella gioia pasquale –, la loro concordia fraterna e il loro zelo per l’evangelizzazione del mondo sono il primo e il più persuasivo fattore di fecondità vocazionale” (Pastores dabo vobis, 41). Si potrebbe dire che le vocazioni sacerdotali nascono dal contatto con i sacerdoti, quasi come un prezioso patrimonio comunicato con la parola, con l’esempio e con l’intera esistenza.
Questo vale anche per la vita religiosa. L’esistenza stessa dei religiosi e delle religiose parla dell’amore di Cristo, quando essi lo seguono in piena fedeltà al Vangelo e con gioia ne assumono i criteri di giudizio e di comportamento. Diventano “segno di contraddizione” per il mondo, la cui logica spesso è ispirata dal materialismo, dall’egoismo e dall’individualismo. La loro fedeltà e la forza della loro testimonianza, poiché si lasciano conquistare da Dio rinunciando a se stessi, continuano a suscitare nell’animo di molti giovani il desiderio di seguire, a loro volta, Cristo per sempre, in modo generoso e totale. Imitare Cristo casto, povero e obbediente, e identificarsi con Lui: ecco l’ideale della vita consacrata, testimonianza del primato assoluto di Dio nella vita e nella storia degli uomini.
Ogni presbitero, ogni consacrato e ogni consacrata, fedeli alla loro vocazione, trasmettono la gioia di servire Cristo, e invitano tutti i cristiani a rispondere all’universale chiamata alla santità. Pertanto, per promuovere le vocazioni specifiche al ministero sacerdotale e alla vita consacrata, per rendere più forte e incisivo l’annuncio vocazionale, è indispensabile l’esempio di quanti hanno già detto il proprio “sì” a Dio e al progetto di vita che Egli ha su ciascuno. La testimonianza personale, fatta di scelte esistenziali e concrete, incoraggerà i giovani a prendere decisioni impegnative, a loro volta, che investono il proprio futuro. Per aiutarli è necessaria quell’arte dell’incontro e del dialogo capace di illuminarli e accompagnarli, attraverso soprattutto quell’esemplarità dell’esistenza vissuta come vocazione. Così ha fatto il Santo Curato d’Ars, il quale, sempre a contatto con i suoi parrocchiani, “insegnava soprattutto con la testimonianza di vita. Dal suo esempio, i fedeli imparavano a pregare” (Lettera …, 16 giugno 2009)» [Benedetto XVI, Messaggio per la XLVII Giornata Mondiale per le Vocazioni].
Sempre nella IV Domenica di Pasqua, Domenica del “Buon Pastore”, ricorre la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Tutti i fedeli, poiché il ministero ordinato è per loro, sono invitati a pregare in modo particolare per le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Occorre ricordare quanti il Signore continua a chiamare per nome, come fece un giorno con gli Apostoli sulla riva del Lago di Galilea, perché diventino “pescatori di uomini”, cioè più diretti collaboratori nell’annuncio del Vangelo e nel servizio del Regno di Dio in questo nostro tempo. In quest’Anno sacerdotale domandiamo per i più di quattrocentomila sacerdoti il dono della perseveranza verso il corpo eucaristico e verso il corpo mistico: che si mantengano fedeli nella preghiera, celebrino quotidianamente la Santa Messa con devozione rinnovata, vivano in ascolto della Parola di Dio ed assimilino giorno dopo giorno gli stessi sentimenti ed atteggiamenti di Gesù Buon Pastore. Una preghiera particolare per chi si prepara al ministero sacerdotale e per i formatori nei Seminari; una preghiera per le famiglie, perché in esse continui a sbocciare e maturare il “seme” della chiamata al ministero presbiterale.
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domenica 25 aprile 2010

Percorrere le strade del continente digitale (Contributi 292)

“Percorrere, animati dal coraggio dello Spirito Santo, le strade del continente digitale” è l'esortazione che Benedetto XVI ha rivolto questo sabato ai partecipanti al Convegno nazionale “Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era crossmediale”, promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana e svoltosi a Roma dal 22 al 24 aprile.

“La nostra fiducia non è acriticamente riposta in alcuno strumento della tecnica – ha affermato il Pontefice –. La nostra forza sta nell’essere Chiesa, comunità credente, capace di testimoniare a tutti la perenne novità del Risorto, con una vita che fiorisce in pienezza nella misura in cui si apre, entra in relazione, si dona con gratuità”.
Il Papa ha riconosciuto che l'epoca attuale “conosce un enorme allargamento delle frontiere della comunicazione, realizza un’inedita convergenza tra i diversi media e rende possibile l’interattività”.
La rete manifesta quindi “una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista”, ma allo stesso tempo “segna un nuovo fossato”, visto che si parla di “digital divide”.
Quest'ultimo elemento, ha osservato, “separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le Nazioni tra loro e anche al loro interno”.
Allo stesso modo, aumentano “i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale, già ben riconoscibili nella flessione dello spirito critico, nella verità ridotta al gioco delle opinioni, nelle molteplici forme di degrado e di umiliazione dell’intimità della persona”, assistendo a “un inquinamento dello spirito”.
In questo panorama, ha ricordato il Papa, il Convegno di questi giorni punta a “riconoscere i volti, quindi a superare quelle dinamiche collettive che possono farci smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie”.
Secondo Benedetto XVI, la via per tornare ai volti “passa per quella caritas in veritate che rifulge nel volto di Cristo”.
In tale contesto, “i media possono diventare fattori di umanizzazione”.
Perché ciò accada, tuttavia, devono essere “centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli”, “animati dalla carità” e “posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale”.
Solo a queste condizioni, infatti, “il passaggio epocale che stiamo attraversando può rivelarsi ricco e fecondo di nuove opportunità”.


La missione della Chiesa
Il Papa ha poi ricordato che la Chiesa vuole “prendere il largo nel mare digitale” “senza timori”, “affrontando la navigazione aperta con la stessa passione che da duemila anni governa la barca” ecclesiale.
Più che per le risorse tecniche, pur necessarie, vogliamo qualificarci abitando anche questo universo con un cuore credente, che contribuisca a dare un’anima all’ininterrotto flusso comunicativo della rete”, ha aggiunto, sottolineando che “è questa la nostra missione, la missione irrinunciabile della Chiesa”.
Come ha scritto nel Messaggio per la 44ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che si celebrerà il 16 maggio prossimo, il compito di ogni credente che opera nei media è quello di “spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano e l’attenzione alle persone e ai loro veri bisogni spirituali; offrendo agli uomini che vivono questo tempo 'digitale' i segni necessari per riconoscere il Signore”.
Cari amici, anche nella rete siete chiamati a collocarvi come animatori di comunità, attenti a preparare cammini che conducano alla Parola di Dio, e ad esprimere una particolare sensibilità per quanti sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche”, ha detto ai partecipanti al Convegno.
A questo proposito, ha esortato tutti i professionisti della comunicazione “a non stancarsi di nutrire nel proprio cuore quella sana passione per l’uomo che diventa tensione ad avvicinarsi sempre più ai suoi linguaggi e al suo vero volto”.
In questo compito, ha ricordato, saranno di aiuto “una solida preparazione teologica e soprattutto una profonda e gioiosa passione per Dio, alimentata nel continuo dialogo con il Signore”.
Al contempo, ha chiesto alle Chiese particolari e agli istituti religiosi di “valorizzare i percorsi formativi proposti dalle Università Pontificie, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalle altre Università cattoliche ed ecclesiastiche, destinandovi con lungimiranza persone e risorse”.
Ciò, ha concluso, farà sì che il mondo della comunicazione sociale “entri a pieno titolo nella programmazione pastorale".
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giovedì 22 aprile 2010

Famiglia: cellula della società (Contributi 291)

Ecco l'ultimo editoriale di SamizdatOnLine:

La famiglia, "cellula della società", il mattone essenziale del nostro paese non è ancora sufficientemente tutelata. Il calo delle nascite, l'economia precaria dei nuclei familiari, lo spostamento dell'attenzione sulle coppie alternative minano le cellule di questo grande organismo che è il nostro paese. È il momento di cambiare mentalità e di considerare l'enorme potenziale delle nuove generazioni.
SamizdatOnLine

Una definizione di "famiglia" che ho sempre trovato valida e attuale è quella che mi fu spiegata dalla mia docente di diritto delle scuole medie superiori: "la famiglia è la cellula della società".
L'economia ed il futuro di un paese come l'Italia sono la proiezione dell'economia e del futuro delle famiglie le quali, se messe in condizione di svolgere la loro attività, rappresentano un'importante risorsa per l'intera nazione.
Nonostante la sua importanza, la famiglia è un organismo non solo poco assistito, ma anche messo continuamente a rischio sia dalle istituzioni sia da una mentalità comune poco capace di guardare con realismo al futuro. I cardini della famiglia sono diversi ma tutti ugualmente importanti e meritevoli di sostegno.
Il matrimonio non è un'invenzione dello Stato e va da esso rispettato. È un patto pubblico fra i sessi che genera diritti e doveri. Non deve essere perciò riconosciuto solo come diritto disgiunto dai doveri che un matrimonio comporta.
Sebbene la Corte Costituzionale abbia rigettato le istanze del tribunale di Venezia e della Corte d'Appello di Trento sul matrimonio omosessuale, in funzione della mentalità comune, la Regione Emilia-Romagna "impone" alle Amministrazioni Locali il sostegno alla causa delle “unioni civili” e l’avallo alla politica regionale di relativizzazione del concetto di famiglia.
Questo fatto è la conseguenza di quella linea di pensiero che trasforma ogni "desiderio" in "diritto". Il diritto è invece una struttura giuridica ben lontana dalla soddisfazione di un desiderio.
Il verdetto della Corte Costituzionale si è rivelato contrario a questa mentalità diffusa che pretende una "manipolazione" dell'antropologia la quale non appartiene al campo della legislazione. Obiezioni "inammissibili ed infondate", visto e considerato che i padri della Costituzione non pensavano minimamente a queste implicazioni che si vogliono attribuirle. Il legislatore ha anche il diritto di non legiferare ed il rifiuto della corte non implica un passaggio di mano al legislatore.
Il fatto che le unioni omosessuali siano approvato altrove, in Europa, non significa che questo "trend" politico sia imposto istituzionalmente dall'Europa perché ogni paese è sovrano pur appartenendo all'Unione europea.

Da considerare, infine, che nei 149 comuni che avevano istituito i registri sulle unioni civili sono avvenute solo 80 registrazioni: costoro non vogliono avere una rilevanza, non vogliono essere individuati perché ciò comporta dei doveri. La famiglia in quanto tale, uomo e donna in vista della generazione di figli (il potenziale futuro del paese), è allora discriminata per i suoi doveri, per la sfida dell'educazione dei figli. Non si possono cioè trattare in modo uguale situazioni diverse.
Le unioni omosessuali non sono però lo spauracchio, il capro espiatorio che, una volta eliminato, salverà le famiglie. Un fattore fondamentale per la sopravvivenza delle famiglie è non solo il supporto economico, ma anche un quadro di scelte sociali e politiche. Dal rapporto Cisf (centro internazionale studi famiglia) 2009 si possono individuare infatti diverse problematiche: la mercificazione del costo dei figli; oltre la metà delle famiglie italiane non ha figli ed il peso della riproduzione cade infatti su delle minoranze che devono sostenere il rinnovamento della società. Da trent'anni il comportamento riproduttivo italiano non porta più al ricambio generazionale ed anche gli extracomunitari, arrivando in Italia, diminuiscono il loro tasso di natalità. Vuol dire che c'è un problema sociale.
Eppure il numero di figli desiderati mediamente dalle coppie è quasi il doppio di quelli avuti, e ciò avviene perché alle famiglie sono richieste sfide e risorse che non le competerebbero: disponibilità economica; tempo investibile sui figli (ci si sposa tardi e manca il tempo); manca una rete di servizi. È allarmante che la sopravvivenza possa essere raggiunta soltanto con la rinuncia ai figli.
Lo stato non riconosce alla famiglia il ruolo del ricambio generazionale e penalizza le famiglie con figli. Due sono le sfide da affrontare per uscire da questa situazione: riconoscere che i figli sono il bene futuro della nazione e condividere (cambiare la mentalità) quel costo che ora è solo sostenuto dalle famiglie. È cioè un rischio economico sostenuto in modo non equo. I figli sono un bene comune e non privato.
Un esempio di risposta concreta a queste problematiche è quello della Regione Lombardia, che ha stanziato un buono famiglia per sostenere anziani e disabili ed ha erogato un sostegno sussidiario alle madri per aiutarle nel dare alla luce i loro figli.
È evidente che gli sforzi di una singola regione non sono sufficienti perché bisognerebbe agire a livello nazionale rivoluzionando il sistema fiscale, in modo che tenga bene in considerazione il carico familiare. Alcune proposte concrete potrebbero consistere in ribassi non generalizzati sulle aliquote Irpef ma con interventi mirati alle famiglie. Affinché però siano efficaci, devono essere estesi alla più ampia platea di famiglie (tutte le famiglie devono poterne beneficiare).
Il governo può contare su diversi fondi per raggiungere questo scopo: dai sopravanzi di precedenti politiche familiari rivelatesi troppo restrittive, agli introiti di multe stilate dall'antitrust che sono per legge convogliate su un fondo familiare.
Il problema delle famiglie è perciò una difficoltà nella mentalità e nelle istituzioni, una difficoltà che può essere però superata meditando a fondo sul valore delle nuove generazioni per il paese e sugli "ostacoli" che rendono oggi difficile il sostegno alle famiglie.


Seraphim socio di SamizdatOnLine
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Per educare i bambini Zapatero “brucia” Biancaneve e Cenerentola (Contributi 290)

Non ho particolare simpatia per le tre fiabe citate nell'articolo che segue (cenerentola, biancaneve, la bella addormentata) ma trovo comunque bizzarra il progetto del governo spagnolo di renderle tabù. Le bambine spagnole non potranno conoscerle, sono da ora vietate. Trovo invece inumanola proposta nata nello stesso paese di dare una tessera fedeltà per le giovani che vogliono abortire (in spagna le minorenni lo possono fare autonomamente) per avere sconti fino al 20% per gli aborti, Una fidelity card dell'aborto. Per cui niente fiabe e di conseguenza niente bimbi... ma ecco l'articolo da il Sussidiario.

Non si è riflettuto a fondo sul paradosso della “moderna” idea di libertà assoluta, soprattutto quando essa è presa a ragione di politiche pubbliche. L’ennesimo increscioso e stravagante caso è emerso la scorsa settimana nella solita Spagna, ormai in aperta competizione con le “follie anglosassoni”.
Il Governo Zapatero, in particolare il Ministro delle Pari Opportunità, si è lanciato nella “pazza” idea di abolire le favole dai percorsi scolastici, così Cenerentola, La Bella Addormentata nel Bosco e Biancaneve saranno arse al rogo, pur di non “condizionare” le bambine spagnole del futuro.
Una decisione che va ben oltre il limite di ogni buon senso, ricorda le famose pile di libri incendiate da nazisti e comunisti nel secolo scorso, viola il principio della libertà di insegnamento e mette in discussione la stessa educazione di centinaia di generazioni precedenti. Abolire le tre favole citate, fonte di emozione e gioia di milioni di bambine e poi mamme (basterebbe ricordare il successo di Pretty woman), al solo scopo di dare attuazione all’ideologia di gender e all’insano femminismo di taluni circoli, non può trovare giustificazione alcuna.
Le bambine, una volta appassionatesi a Biancaneve o a Cenerentola, potrebbero immaginare di dover veramente aspettarsi un “Principe Azzurro”, così attenderebbero dal maschio una liberazione che invece c’è già! Evidentemente è questa l’idea del “Governo Z”, nel quale non si trova tempo per affrontare la devastante situazione economica e occupazionale, ma ne avanza per inseguire fantasmi ideologici di ogni natura.
Dopo la scelta di introdurre l’obbligatorietà della “educazione civile” nei percorsi scolastici, i cui opuscoli didattici sono intrisi di offese esplicite a Gesù Cristo, la Chiesa Cattolica e la moralità famigliare, un gruppo numeroso di cinquemila padri di famiglia ha fatto appello alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo per vedersi riconosciuto almeno il diritto alla “obiezione di coscienza” verso quell’insegnamento. Ora c’è da attendersi che poeti, scrittori, pompose accademie si muovano per difendere l’educazione dei bambini e delle bambine spagnole, aggredite da una velenosa tragedia gender.
Paradossalmente, tutto ciò viene introdotto per “difendere” l’equilibrio e la felicità futura delle giovani generazioni e nello stesso tempo, dalla violenza educativa si passa alla eliminazione fisica. Proprio negli stessi giorni nei quali il Governo era così impegnato contro Biancaneve, una clinica andalusa pubblicizzava la “tessera fedeltà” che darebbe diritto al 20% di sconto per ogni aborto effettuato dalle giovanissime.
Un Governo che combatte le favole e favorisce l’eliminazione dei bambini, si trova in un truculento paradosso che sfiora il ritorno all’inciviltà pre cristiana. Nei prossimi mesi la Spagna vedrà due novità introdotte dal Governo per educare i propri cittadini: la lotta ai sette nani, rei di aver aiutato Binacaneve, e l’entrata in vigore della nuovissima legge sull’aborto, dove le minorenni cadranno con favore del Governo nelle braccia di tanti Barbablù.
Sì, perché dei 115.000 aborti spagnoli del 2008, solo il 2% erano stati realizzati nelle strutture ospedaliere pubbliche, il 98% è nelle mani di cliniche private che incrementano i loro guadagni a ogni intervento. Veri e propri Barbablù che come nella favola, così nella realtà andalusa, spingono le giovani belle spagnole ad entrare nel “castello” per poi…
Insomma, c’è sempre da imparare dalle favole, non solo per i bambini ma anche per noi adulti.
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lunedì 19 aprile 2010

Voi mi cercate perchè...... (Interventi 25)

Gesù si ritira, da solo, sul monte. Ha bisogno di incontrare il Padre, in un incontro personale e intimo al di là della folla. Sa bene che quella gente lo cerca per interesse: più per saziarsi che per amarlo. Gesù però invita tutti ad operare "non per il cibo che perisce, ma per il cibo che rimane per la vita eterna".
Sembra dire loro: "superate l'angusto orizzonte della sazietà per voi stessi e cercate il cibo che non perisce, ma anzi sfama anche gli altri, oltre se stessi".
La fede in lui, ossia il personale coinvolgimento nel seguirlo, è un dono che viene dall'alto, ma nello stesso tempo è anche un'"opera", ossia un "lavoro" affidato alla nostra vita. Diventare discepoli di Gesù, coinvolgersi con lui è allora un lavoro impegnativo e lungo; richiede infatti ascolto, decisione, applicazione, continuità, impegno e fatica. Non si è discepoli senza un vero e proprio lavoro di applicazione sul Vangelo e su se stessi.

mons. Vincenzo Paglia

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sabato 17 aprile 2010

Per mano a uno sconosciuto (Contributi 289)

Vi propongo l'ultimo editorale di SamizdatOn Line:

Lo sapete che Alec Guinness, il famoso attore (l'Obi-Wan Kenobi del primo Guerre Stellari), era cattolico?

Quello che non forse sapete è la maniera in cui avvenne la sua conversione. Lo racconta lui stesso nella sua autobiografia. Un'infanzia difficile l'aveva lasciato agnostico, se non ateo. L'amicizia con un prete anglicano, nata durante un bombardamento su Londra, lo ricondusse verso la fede. Ma per quanto riguarda il cattolicesimo l'episodio decisivo avvenne qualche anno dopo.
Guiness era stato scelto per interpretare in un film Padre Brown, il prete investigatore inventato da Chesterton. La pellicola veniva girata in un remoto villaggio francese. Una sera, ancora vestito da prete, cercava la strada per tornare al suo alloggio. L'attore, scambiato per un vero sacerdote, fu preso fiduciosamente per mano e scortato da un bambino, che l'accompagnò chiamandolo "Mon père".
"Continuando il mio cammino," dice Guinness, "riflettei che una Chiesa che può ispirare tanta confidenza in un bambino rendendo i preti, anche quando sconosciuti, così facilmente avvicinabili, non può essere così insidiosa o subdola come spesso descritta. Cominciai a scuotermi dai miei pregiudizi da lungo tempo insegnati e assorbiti."
Oggi questo probabilmente non sarebbe più possibile. Questo è stato il danno causato da chi, entro la Chiesa, ne ha tradito il mandato seguendo l'istinto, le mode sessuali, assecondando il peccato. Questa è la ferita inferta da chi a volte ha preferito non vedere e non agire; in buona fede talvolta, in altri casi per opportunismo o cecità. E questa è la tremenda conseguenza delle azioni di alcuni che sono nella Chiesa e non sono della Chiesa, e che se non sono responsabili di abusi li usano per i propri fini - e forse tra questi c'è la distruzione della Chiesa stessa.
Un danno enorme. Perché ci saranno sempre coloro che leggeranno i titoli e non gli articoli. Crederanno alla notizia scandalistica e non vedranno la smentita. Non si faranno due conti e non capiranno l'inganno, il procurato allarme, la menzogna sistematica. Perchè non sono solo coloro che abusano di loro che ingannano i piccoli.
Le tempeste talvolta sono utili. Ripuliscono l'aria dai mismi fetidi; dopo si riesce a vedere con più chiarezza la terra verso cui la nostra barca si dirige. Con fatica, talvolta sbagliando rotta e imbarcando acqua, ma sempre procedendo perchè non sostenuta da mani d'uomo.
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La vera radice degli ultimi attacchi a Benedetto XVI (Contributi 288)

Vi segnalo un articolo di Mario Mauro in occasione del quinto anniversario dell'elezione di Benedetto XVI tratto da IlSussidiario:

In vista del quinto anniversario della Sua elezione a Sommo Pontefice il prossimo 19 aprile, da cattolico, ma anche da politico, mi sento particolarmente grato a Papa Benedetto XVI per il suo impegno in questi anni a guida della Chiesa Universale. Non è assolutamente un caso che proprio sotto di lui la Chiesa sia vittima di un’aggressione senza precedenti. E i motivi risiedono nello scompaginante anticonformismo del messaggio di cui è portatore.
Dietro agli attacchi degli ultimi tempi, sempre più pesanti e sempre più carichi di odio e di menzogna, c’è infatti quell’ideologia contro la quale, anche da Cardinale, insieme con Giovanni Paolo II, ha sempre combattuto. Se Papa Woityla aveva lottato strenuamente, contribuendone al disfacimento, contro l’ideologia comunista, Papa Benedetto rappresenta oggi uno scomodo oppositore della cosiddetta “dittatura del relativismo”.
Come ha sottolineato in più di un’occasione infatti, “il relativismo contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva ad affermare che l’essere umano non può conoscere nulla con certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi però, come allora, l’uomo 'mendicante di significato e compimento' va alla continua ricerca di risposte esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi”.
Questo fa impazzire il potere, che non accetta che qualcuno possa insinuare che l’uomo è libero di fronte a esso. Non accetta neppure che nell’impostare il dialogo interreligioso con Ebrei e Musulmani e nella continua difesa della dignità della persona, Papa Ratzinger abbia sempre affermato l’importanza essenziale della libertà religiosa, unica libertà garante del desiderio di infinito che risiede nel cuore di ogni uomo.
In questi anni sua Santità, è stato chiaro testimone della ragionevolezza della fede, invitando i Cristiani a verificarne la pertinenza in tutti gli aspetti della vita, politica compresa. In un mondo in cui l’uomo decide quando è bene e quando è male, mettendo tutte le opinioni sullo stesso piano di modo che non emerga più la verità, la guida di Papa Benedetto risulta più che mai illuminante nell’attività politica che quotidianamente svolgiamo. Oggi sembra infatti che non sia più possibile costruire un’ipotesi buona per una generazione. Seguendo il suo insegnamento mi accorgo che fortunatamente non è così.
Non è tutto da buttare. Questo ci insegna il pontefice, quel generoso affetto per tutto quello che della realtà abbiamo intorno, in modo tale che poi questa realtà possiamo in ogni istante farla muovere e farla commuovere e partecipare con passione a questo lavoro che stiamo facendo da anni e che può essere un grande bene per tutti.
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giovedì 15 aprile 2010

Richiesta preghiera (Interventi 24)

Ricevo da una mia cara amica una richiesta di preghiera che proviene dall'India. La persecuzione al cristianesimo continua in vari modi e in diversi paesi. Preghiamo di rimanere saldi nelle fede e affinchè Dio protegga tutti i suoi servi..

Cari Amici dei Sacerdoti,

vi trasmettiamo questa mail drammatica, che ci giunge dall'India, e ci coinvolge tutti nel dramma del sacerdozio cattolico, oggi. Siamo sicuri della vostra partecipazione nella preghiera fervorosa e nelle opere di carità. Il Signore benedica l'impegno di tutti i missionari, così esposti alle insidie del male, e ci conforti con la sicura speranza.
Aiuto al Sacerdote


"Per favore pregate per le chiese in India. Gli estremisti Buddisti in India hanno bruciato 20 chiese ieri notte. Stanotte hanno un progetto di distruggere 200 chiese nella provincia di Olisabang.
Stanno progettando di uccidere 200 missionari in 24 ore. Al momento, tutti i Cristiani si stanno nascondendo nei villaggi. Per favore pregate per loro ed inviate questa mail
ai cristiani che conoscete. Per favore chiedete a Dio di avere misericordia dei nostri fratelli e sorelle in India. Quando ricevete questo messaggio, per favore inoltrate questa urgente richiesta di preghiera. Per favore pregate per loro e rimettere questo problema nel nostro Onnipotente e Vittorioso Signore!!!


P. Trevor missionario
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mercoledì 14 aprile 2010

Sindone: le prove della resurrezione (Contributi 287)

Dal blog di Antonio Socci un articolo pubblicato su Libero del giorno 11/4

“Tutta la terra desidera il tuo volto”. In questa frase della liturgia sta il segreto della Sindone che continua ad attrarre milioni di persone. E’ l’attrazione per colui che la Bibbia definiva “il più bello tra i figli dell’uomo”. E che qui è “fotografato” come un uomo macellato con ferocia.

La Sindone non è solo “una” notizia oggi, perché inizia la sua ostensione. E’ “la” notizia sempre. Perché documenta – direi scientificamente – la sola notizia che – dalla notte dei tempi alla fine del mondo – sia veramente importante: la morte del Figlio di Dio e la sua resurrezione cioè la sconfitta della morte stessa.
Sì, avete letto bene. Perché la sindone non illustra soltanto la feroce macellazione che Gesù subì, quel 7 aprile dell’anno 30, con tutti i minimi dettagli perfettamente coincidenti con il resoconto dei vangeli, ma documenta anche la sua resurrezione: il fatto storico più importante di tutti i tempi, avvenuta la mattina del 9 aprile dell’anno 30 in quel sepolcro appena fuori le mura di Gerusalemme.
Che Gesù sia veramente vivo lo si può sperimentare – da duemila anni – nell’esperienza cristiana. Attraverso mille segni e una vita nuova. Ma la sindone porta traccia proprio dell’evento della sua resurrezione.
Ce lo dicono la medicina legale e le scoperte scientifiche fatte con lo studio dettagliato del lenzuolo per mezzo di sofisticate apparecchiature. Cosicché questo misterioso lino diventa una speciale “lettera” inviata soprattutto agli uomini della nostra generazione, perché è per la prima volta oggi, grazie alla moderna tecnologia, che è possibile scoprire le prove di tutto questo.

Cosa hanno potuto appurare infatti gli specialisti? In sintesi tre cose.


Primo. Che questo lenzuolo – la cui fattura rimanda al Medio oriente del I secolo e in particolare a tessitori ebrei (perché non c’è commistione del lino con tessuti di origine animale, secondo i dettami del Deuteronomio) – ha sicuramente avvolto il corpo di un trentenne ucciso (morto tramite il supplizio della crocifissione con un supplemento di tormenti che è documentato solo per Gesù di Nazaret).
Che ha avvolto un cadavere ce lo dicono con certezza il “rigor mortis” del corpo, le tracce di sangue del costato (sangue di morto) e la ferita stessa del costato che ha aperto il cuore.


Secondo. Sappiamo con eguale certezza che questo corpo morto non è stato avvolto nel lenzuolo per più di 36-40 ore perché, al microscopio, non risulta vi sia, sulla sindone, alcuna traccia di putrefazione (la quale comincia appunto dopo quel termine): in effetti Gesù – secondo i Vangeli – è rimasto nel sepolcro dalle 18 circa del venerdì, all’aurora della domenica. Circa 35 ore.


Terza acquisizione certa, la più impressionante. Quel corpo – dopo quelle 36 ore – si è sottratto alla fasciatura della sindone, ma questo è avvenuto senza alcun movimento fisico del corpo stesso, che non è stato mosso da alcuno né si è mosso: è come se fosse letteralmente passato attraverso il lenzuolo.


Come fa la sindone a provare questo? Semplice. Lo dice l’osservazione al microscopio dei coaguli di sangue.
Scrive Barbara Frale in un suo libro recente: “enormi fiotti di sangue erano penetrati nelle fibre del lino in vari punti, formando tanti grossi coaguli, e una volta secchi tutti questi coaguli erano diventati grossi grumi di un materiale duro, ma anche molto fragile, che incollava la carne al tessuto proprio come farebbero dei sigilli di ceralacca. Nessuno di questi coaguli risulta spezzato e la loro forma è integra proprio come se la carne incollata al lino fosse rimasta esattamente al suo posto”.


Lo studio dei coaguli al microscopio rivela che quel corpo si è sottratto al lenzuolo senza alcun movimento, come passandogli attraverso. Ma questa non è una qualità fisica dei corpi naturali: corrisponde alle caratteristiche fisiche di un solo caso storico, ancora una volta quello documentato nei Vangeli.
In essi infatti si riferisce che il corpo di Gesù che appare dopo la resurrezione è il suo stesso corpo, che ha ancora le ferite delle mani e dei piedi, è un corpo di carne tanto che Gesù, per convincere i suoi che non è un fantasma, mangia con loro del pesce, solo che il suo corpo ha acquisito qualità fisiche nuove, non più definite dal tempo e dallo spazio.
Può apparire e scomparire quando e dove vuole, può passare attraverso i muri: è il corpo glorificato, come saranno anche i nostri corpi divinizzati dopo la resurrezione.
Si tratta quindi di un caso molto diverso dalla resurrezione di Lazzaro che Gesù semplicemente riportò in vita. La resurrezione di Gesù – com’è riferita dai Vangeli e documentata dalla sindone – è la glorificazione della carne non più sottoposta ai limiti fisici delle tre dimensioni, l’inizio di “cieli nuovi e terra nuova”.
La “prova” sperimentale di questa presenza misteriosa di Gesù è propriamente l’esperienza cristiana: Gesù continua a manifestare la sua presenza fra i suoi continuando a compiere i prodigi che compiva duemila anni fa e facendone pure di più grandi.
Ma la sindone documenta in modo scientificamente accertabile l’unico caso di morto che – anziché andare in putrefazione – torna in vita sottraendosi alla fasciatura senza movimento, grazie all’acquisizione di qualità fisiche nuove e misteriose, che gli permettono di smaterializzarsi improvvisamente e oltrepassare le barriere fisiche (come quella del lenzuolo stesso).
E’ esattamente ciò che si riferisce nel vangelo di Giovanni: quando Pietro e Giovanni entrano nel sepolcro dove erano corsi per le notizie arrivate dalle donne, si rendono conto che è accaduto qualcosa di enorme proprio perché trovano il lenzuolo esattamente com’era, legato attorno al corpo, ma come afflosciato su di sé perché il corpo dentro non c’era più.


Più tardi, aprendo quel lenzuolo, scopriranno un’altra cosa misteriosa: quell’immagine. Ancora oggi, dopo duemila anni, la scienza e la tecnica non sanno dirci come abbia potuto formarsi. E non sanno riprodurla.
Infatti non c’è traccia di colore o pigmento, è la bruciatura superficiale del lino, ma sembra derivare dallo sprigionarsi istantaneo di una formidabile e sconosciuta fonte di luce proveniente dal corpo stesso, in ortogonale rispetto al lenzuolo (fatto anch’esso inspiegabile).
La “non direzionalità” dell’immagine esclude che si siano applicate sostanze con pennelli o altro che implichi un gesto direzionale. E ci svela che l’irradiazione è stata trasmessa da tutto il corpo (tuttavia il volto ha valori più alti di luminanza, come se avesse sprigionato più energia o più luce).
Quello che è successo non è un fenomeno naturale e non è riproducibile. Non deriva dal contatto perché altrimenti non sarebbe tridimensionale e non si sarebbe formata l’immagine anche in zone del corpo che sicuramente non erano in contatto col telo (come la zona fra la guancia e il naso).
Oggi poi i computer hanno permesso di rintracciare altri dettagli racchiusi nella sindone che tutti portano a lui: Gesù di Nazaret.
Dai 77 pollini, alcuni dei quali tipici dell’area di Gerusalemme (quello dello Zygophillum dumosum, si trova esclusivamente nei dintorni di Gerusalemme e al Sinai), alle tracce (sul ginocchio, il calcagno e il naso) di un terriccio tipico anch’esso di Gerusalemme. Ai segni di aloe e mirra usate dagli ebrei per le sepolture.
Infine le tracce di scritte in greco, latino ed ebraico impresse per sovrapposizione sul lenzuolo.
Barbara Frale ha dedicato un libro al loro studio, “La sindone di Gesù Nazareno”. Da quelle lettere emerge il nome di Gesù, la parola Nazareno, l’espressione latina “innecem” relativa ai condannati a morte e pure il mese in cui il corpo poteva essere restituito alla famiglia.
La Frale, dopo accuratissimi esami, mostra che doveva trattarsi dei documenti burocratici dell’esecuzione e della sepoltura di Gesù di Nazaret.
Un fatto storico.
Un avvenimento accaduto che ha cambiato tutto.
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Un importante avvocato smentisce il furioso ateo Richard Dawkins (contributi 286)

Faccio seguito al post precedente con questo articolo:

I due sacerdoti dell’ateismo, o meglio, dell’anti-teismo, Dawkins ed Hitchens, hanno di recente sostenuto di poter incriminare il Vaticano ed arrestare Benedetto XVI in merito agli abusi di qualche sacerdote cattolico (vedi Ultimissime del 11/4/10). Oggi un importante avvocato italiano, Franco Grande Stevens, già presidente della Juventus dal 2003 al 2006, spiega a La Stampa che “il Vaticano-Santa Sede non può avere alcuna responsabilità giuridica e le dispute in corso riguardano e possono riguardare nei confronti della Santa Sede soltanto rapporti etico-religiosi”. .

Screditando le tesi del famoso polemista zoologo pensionato Dawkins, l’avvocato spiega che “il Vaticano-Santa Sede è uno Stato ed è principio di diritto internazionale che uno Stato sovrano [in questo caso l'Inghilterra, patria dei due ateologi roventi] non abbia giurisdizione su di un altro Stato sovrano”.
Inoltre, “non si può seriamente sostenere che le centinaia di migliaia di sacerdoti sparsi nel mondo siano dipendenti del Vaticano, legati a questo da un contratto di lavoro con quel che ne consegue. Qualora poi si adducesse la responsabilità di un ente centrale del Vaticano, si ricadrebbe pur sempre in un’attività dello Stato Vaticano che perciò, in quanto tale, godrebbe come tutti gli Stati dell’immunità giurisdizionale.”.
Attenderemo che Dawkins pronunci per l’ennesima volta il suo fallimento (vedi la sua affermazione e gli insulti ricevuti dai suoi fan). Il talebano di Darwin, così soprannominato nell’ambiente scientifico, dovrebbe leggere i due articoli apparsi su Il Foglio. Uno è una lettera di Massimo Piattelli-Palmarini che interviene ancora sul suo libro in cui descrive gli errori dei neodarwinisti (e quelli dei creazionisti) e l’altro è un attacco storico a coloro che hanno strumentalizzato per scopi ateistici il pensiero di Charles Darwin. Si intitola “Ma Darwin è ancora di sinistra?”
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Né Dio, né Ragione, la triste storia degli atei che vogliono arrestare il Papa (Contributi 285)

Vi propongo da Il Sussidiario un articolo di Gianfranco Amato su una "bizzarra" proposta di due cittadini inglesi, a voi i commenti nel prossimo post una prima reazione..

La notizia dell’ultima ora sullo scandalo della pedofilia nella Chiesa è che Richard Dawkins (l'uomo nella foto) e Christopher Hitchens, due famosi atei militanti inglesi, intendono chiedere l’incriminazione, e se il caso anche l’arresto, di Papa Benedetto XVI per crimini contro l’umanità. L’occasione ghiotta sarebbe la prossima visita del Santo Padre in Gran Bretagna, prevista per settembre.
Ci sarebbe da sorridere se quella strampalata iniziativa non apparisse oltraggiosa e al limite del vilipendio.
Il fatto è che Dawkins e Hitchens non hanno trovato di meglio da fare se non ingaggiare due principi del foro del calibro di Geoffrey Robertson e Mark Stephens, i quali stanno seriamente valutando di denuciare il Pontefice sul presupposto che il Vaticano non possa essere considerato uno Stato sovrano secondo le leggi internazionali, non essendo, tra l’altro, riconosciuto come tale dall’ONU. Ciò priverebbe il Papa dell’immunità che normalmente protegge i Capi di Stato e lo assoggetterebbe alla giustizia come un comune cittadino.
Ora, a prescindere dalla fondatezza di un’accusa di crimini contro l’umanità a carico del Papa, e dalle stravaganti teorie giuridiche che intendono negare alla Santa Sede la natura di Stato sovrano, due considerazioni mi vengono in mente.
La prima è che Dawkins e Hitchens sono gli stessi che a gennaio del 2009 hanno avuto la bella pensata di sponsorizzare (spendendo 11.000 sterline) la pubblicità sugli autobus londinesi contenente questo slogan: «Probabilmente Dio non esiste, quindi smettete di preoccuparvi e godetevi la vita».
Secondo quel messaggio, l’uomo non è altro che puro materiale biologico ed i propri comportamenti derivano da meri processi chimici cerebrali. Niente anima, niente coscienza. Per questo sono privi di senso concetti come bene e male, e non hanno alcun significato i limiti, i vincoli, le regole di una visione morale o etica dell’esistenza imposta al di fuori dell’io. Solo l’individuo, nella sua unica dimensione terrena, è padrone del proprio destino e non deve rispondere a nessuno. Meno che mai ad una Chiesa. Niente aldilà, niente premi o punizioni dopo la morte. Pertanto, l’unica conseguenza logica è fare ciò che pare e piace, e soprattutto divertirsi.

Il commento più bello contro gli “ateobus” l’avevo letto in un articolo dell’agnostico Nicholas Farrell pubblicato su Libero l’11 gennaio 2009. Con il suo inconfondibile stile Farell scriveva: «Personalmente trovo quello slogan non solo deprimente ma terrificante. Non sono né credente né ateo ma agnostico, ma non mi fa divertire per niente l’idea che Dio non esista. Anzi. Oh, oh, oh! Brindiamo! Dio non c’è. Ci siamo solo noi e il nulla! Che bella cosa! Che altro vogliamo dalla vita? Vi chiedo: se Dio non c’è , c’è solo l' abisso, no? Quindi non c’è paradiso né Inferno, figuriamoci Limbo. Solo il nulla. Sei nato, fai il cretino, muori. Poi basta. Vieni dal nulla e finisci nel nulla».
Sulla base di questa prospettiva non si comprende come un ateo, ad esempio, possa moralmente condannare la pedofilia. Lo ricordava Mitja nei Fratelli Karamazov del grande Dostoevskij: «Se Dio non esiste tutto è davvero permesso».

La seconda considerazione che mi è venuta in mente ascoltando la notizia su Dawkins e Hitchens è che dal prossimo 16 settembre il Santo Padre visiterà la Gran Bretagna anche per compiere un atto di significativa importanza: la beatificazione di John Herny Newman. Un genio del cristianesimo.
Bene, rispetto a questa nuova bizzaria degli “atei moralisti”, ho scoperto cosa ne pensasse Newman. In realtà, proprio a proposito dell’uso incoerente della ragione da parte degli atei, il Cardinale inglese futuro Beato sosteneva che essi riescono anche ragionare perfettamente bene senza saper fornire la base logica del proprio pensiero.

A più di cento anni di distanza, queste parole di John Henry Newman calzano ancora a meraviglia sui suoi connazionali atei del XXI secolo.
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lunedì 12 aprile 2010

Contro gli scandali Benedetto prepara la "rivoluzione" dei maestri e dei santi (Contributi 284)

Propongo a tutti un articolo di Massimo Introvigne tratta da IlSussidiario

La lettera di Carrón ci ricorda che i preti pedofili esistono. A molti di noi piacerebbe che si trattasse solo di un brutto sogno, o di calunnie della stampa laicista. Non è quello che scrive Carrón, e non è quello che c’insegna il papa. Nella magnifica Lettera ai cattolici dell’Irlanda del 19 marzo 2010 Benedetto XVI denuncia con voce fortissima i «crimini abnormi», «la vergogna e disonore», la violazione della dignità delle vittime, il colpo inferto alla Chiesa «a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione». A nome della Chiesa «esprime apertamente la vergogna e il rimorso».

Certo, il papa affronta il problema dal punto di vista del diritto canonico ribadendo con forza che è stata la sua «mancata applicazione», da parte talora anche di vescovi, non le sue norme come una certa stampa laicista pretenderebbe, a causare la «vergogna». Certo, il papa fa cenno al fatto che il problema della pedofilia non tocca soltanto - e neppure principalmente - i sacerdoti, così che non è senza malizia che certi media concentrano il loro fuoco sulla Chiesa e sul pontefice. Ma il papa, come Carrón, si pone ultimamente su un piano diverso. Parla della vita spirituale dei sacerdoti, la cui trascuratezza è alle radici del problema e cui chiede di ritornare attraverso l’adorazione eucaristica, le missioni, la pratica frequente della confessione. E il ritorno a Cristo non è solo per i preti: è per tutti noi.


Com’è potuta accadere, infatti, una tragedia così immane? Quelli che gli inglesi e gli americani chiamano the Sixties («gli anni ’60») e noi, concentrandoci sull’anno emblematico, «il Sessantotto» appaiono sempre di più come gli anni o il tempo di un profondo sconvolgimento dei costumi, con effetti cruciali e duraturi sulla religione. C’è stato del resto un Sessantotto nella società e anche un Sessantotto nella Chiesa: proprio il 1968 è l’anno del dissenso pubblico contro l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI.
Con molto acume un pensatore cattolico brasiliano, Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), parlò a suo tempo di una “IV Rivoluzione” - successiva alla Riforma, alla Rivoluzione francese e a quella sovietica - più radicale delle precedenti perché capace di sconvolgere non solo il corpo sociale, ma il corpo umano.
Nella Chiesa Cattolica della portata di questa rivoluzione non ci fu subito sufficiente consapevolezza. Anzi, essa contagiò - spiega nella sua lettera Benedetto XVI - «anche sacerdoti e religiosi», determinò «fraintendimenti» nell’interpretazione del Concilio, causò «insufficiente formazione, umana, morale e spirituale nei seminari e nei noviziati». In questo clima certamente non tutti i sacerdoti insufficientemente formati o contagiati dal clima successivo agli anni ’60, e nemmeno una loro percentuale significativa, divennero pedofili. E tuttavia questo numero non è uguale - come tutti vorremmo - a zero, e giustifica le severissime parole del papa.
Lo studio della “IV Rivoluzione” degli anni ’60, e del 1968, è cruciale per capire quanto è successo dopo, pedofilia compresa. E per trovare rimedi reali, che la Chiesa ha cominciato a porre in essere. Se questa rivoluzione, a differenza delle precedenti, è morale e spirituale e tocca l’interiorità dell’uomo, solo dalla restaurazione della moralità, della vita spirituale e di una verità integrale sulla persona umana potranno ultimamente venire i rimedi. Ma per questo i sociologi, come sempre, non bastano: occorrono i padri e i maestri, gli educatori e i santi.
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domenica 11 aprile 2010

La Sacra Sindone interroga (Contributi 283)

L'ultimo editoriale di SamizdatOnLine è sulla Sindone, questo è il testo:

Dal Discorso di Giovanni Paolo II 24 maggio 1998:

4. Nella Sindone si riflette l'immagine della sofferenza umana. Essa ricorda all'uomo moderno, spesso distratto dal benessere e dalle conquiste tecnologiche, il dramma di tanti fratelli, e lo invita ad interrogarsi sul mistero del dolore per approfondirne le cause. L'impronta del corpo martoriato del Crocifisso, testimoniando la tremenda capacità dell'uomo di procurare dolore e morte ai suoi simili, si pone come l'icona della sofferenza dell'innocente di tutti i tempi: delle innumerevoli tragedie che hanno segnato la storia passata, e dei drammi che continuano a consumarsi nel mondo.
Davanti alla Sindone, come non pensare ai milioni di uomini che muoiono di fame, agli orrori perpetrati nelle tante guerre che insanguinano le Nazioni, allo sfruttamento brutale di donne e bambini, ai milioni di esseri umani che vivono di stenti e di umiliazioni ai margini delle metropoli, specialmente nei Paesi in via di sviluppo? Come non ricordare con smarrimento e pietà quanti non possono godere degli elementari diritti civili, le vittime della tortura e del terrorismo, gli schiavi di organizzazioni criminali?
Evocando tali drammatiche situazioni, la Sindone non solo ci spinge ad uscire dal nostro egoismo, ma ci porta a scoprire il mistero del dolore che, santificato dal sacrificio di Cristo, genera salvezza per l'intera umanità.
5. La Sindone è anche immagine dell'amore di Dio, oltre che del peccato dell'uomo. Essa invita a riscoprire la causa ultima della morte redentrice di Gesù. Nell'incommensurabile sofferenza da essa documentata, l'amore di Colui che "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16) si rende quasi palpabile e manifesta le sue sorprendenti dimensioni. Dinanzi ad essa i credenti non possono non esclamare in tutta verità: "Signore, non mi potevi amare di più!", e rendersi subito conto che responsabile di quella sofferenza è il peccato: sono i peccati di ogni essere umano.
Parlandoci di amore e di peccato, la Sindone invita tutti noi ad imprimere nel nostro spirito il volto dell'amore di Dio, per escluderne la tremenda realtà del peccato. La contemplazione di quel Corpo martoriato aiuta l'uomo contemporaneo a liberarsi dalla superficialità e dall'egoismo con cui molto spesso tratta dell'amore e del peccato. Facendo eco alla parola di Dio ed a secoli di consapevolezza cristiana, la Sindone sussurra: credi nell'amore di Dio, il più grande tesoro donato all'umanità, e fuggi il peccato, la più grande disgrazia della storia.
6. La Sindone è anche immagine di impotenza: impotenza della morte, in cui si rivela la conseguenza estrema del mistero dell'Incarnazione. Il telo sindonico ci spinge a misurarci con l'aspetto più conturbante del mistero dell'Incarnazione, che è anche quello in cui si mostra con quanta verità Dio si sia fatto veramente uomo, assumendo la nostra condizione in tutto, fuorché nel peccato. Ognuno è scosso dal pensiero che nemmeno il Figlio di Dio abbia resistito alla forza della morte, ma tutti ci commuoviamo al pensiero che egli ha talmente partecipato alla nostra condizione umana da volersi sottoporre all'impotenza totale del momento in cui la vita si spegne. E' l'esperienza del Sabato Santo, passaggio importante del cammino di Gesù verso la Gloria, da cui si sprigiona un raggio di luce che investe il dolore e la morte di ogni uomo.
La fede, ricordandoci la vittoria di Cristo, ci comunica la certezza che il sepolcro non è il traguardo ultimo dell'esistenza. Dio ci chiama alla risurrezione ed alla vita immortale.
7. La Sindone è immagine del silenzio. C'è un silenzio tragico dell'incomunicabilità, che ha nella morte la sua massima espressione, e c'è il silenzio della fecondità, che è proprio di chi rinuncia a farsi sentire all'esterno per raggiungere nel profondo le radici della verità e della vita. La Sindone esprime non solo il silenzio della morte, ma anche il silenzio coraggioso e fecondo del superamento dell'effimero, grazie all'immersione totale nell'eterno presente di Dio. Essa offre così la commovente conferma del fatto che l'onnipotenza misericordiosa del nostro Dio non è arrestata da nessuna forza del male, ma sa anzi far concorrere al bene la stessa forza del male. Il nostro tempo ha bisogno di riscoprire la fecondità del silenzio, per superare la dissipazione dei suoni, delle immagini, delle chiacchiere che troppo spesso impediscono di sentire la voce di Dio. ...

La verità della Sacra Sindone - video cMc
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La Sindone, "rimando all'amore infinito di Gesù" (Contributi 282)

In occasione dell'inizio della Solenne Ostensione 2010 della Sacra Sindone, ZENIT ha chiesto a monsignor Giuseppe Ghiberti, presidente della Commissione diocesana della Sindone, di spiegare il valore religioso per il credente del telo che secondo la tradizione avrebbe avvolto il corpo di Gesù prima della Resurrezione.



Solo una risposta positiva sull'autenticità della Sindone legittima il rapporto religioso tra il credente e questo oggetto?
Monsignor Ghiberti: Il problema della giustificazione del rapporto religioso con la Sindone è avvertito in modo diverso. Non poche persone ritengono che solo la sicurezza della sua autenticità ne legittimi la venerazione da parte dei fedeli. La teoria opposta afferma invece: si tratta di un oggetto da venerare e quindi è autentico.
Entrambe le posizioni non appaiono convincenti. Il rapporto religioso con la Sindone del credente, cioè di una persona che è vissuta in una tradizione nella quale la persona e le vicende della vita di Gesù sono centrali, nasce nel rendersi conto - nel momento in cui si accosta all'immagine sul telo - che c'è una corrispondenza perfetta tra ciò che vede e ciò che dal racconto evangelico ci viene riferito a proposito della Passione di Gesù. Appena si verifica questa consapevolezza, scatta un tipo di rapporto che non è tanto giustificato dall'oggetto in sé, quanto dal rimando che da questo oggetto viene fatto all'altra vicenda.
Si può qualificare come una "funzione da precursore". S. Giovanni Battista affermava riguardo a Gesù: "Lui deve crescere e io diminuire, Lui è lo sposo e io l'amico dello Sposo"; per la Sindone è lo stesso, nella sua povertà è la sua nobiltà perché il suo valore non si esaurisce in ciò che essa è, ma in ciò a cui essa rimanda.
C'è un carattere pre-scientifico in questo tipo di rapporto con la Sindone in quanto, a questo stadio, non ho ancora posto nessuna domanda sulla sua autenticità: ho semplicemente colto il messaggio che ne promana e che consiste in un rimando al racconto evangelico della Passione.
Solo in seguito io domando alla scienza se in quel lenzuolo c'è stato il corpo di Gesù e questo per il mio cuore è importantissimo. Alla scienza sono quindi interessato, ma non ne resto condizionato. Questa forma di ragionamento credo offra l'impostazione esatta e, accettandola, sono molto più libero.


La Sindone svolge, quindi, una funzione ausiliaria per la fede?
Monsignor Ghiberti: Quando si è acquisita quella libertà interiore per cui, comunque vadano le cose - sebbene io sia un "tifoso" dell'autenticità della Sindone! - il risultato non influisce sulla ricezione del messaggio, occorre chiedersi: che cosa significa la Sindone per me, per la pastorale, per la Chiesa?
Le cose sono collegate l'una all'altra. La Sindone non è certamente oggetto di fede, sono altre le verità fondamentali nelle quali credere. Lo ha detto chiaramente anche Giovanni Paolo II in occasione dell'ostensione del 1998. Però mi aiuta a credere, è uno di quei mezzi che il Signore mette nel cammino dei suoi figli per chiamarli a sé. Non è necessario - c'è una quantità di cristiani che si sono fatti santi senza la Sindone, è bastato il Vangelo e la loro coscienza -, ma nello stesso modo in cui il Signore ha disposto che proprio questi fossero i miei genitori e questo fosse il mio cammino nella vita, ha disposto anche che incontrassi la Sindone e, come me, tante persone.
Queste sono sempre di più, forse perché la cultura del nostro tempo ha una maggiore sensibilità verso l'immagine, nonostante sia molto diversa da quelle che vengono celebrate oggi: sebbene dalla dimensioni armoniose della corporatura si può cogliere che quello della Sindone è un uomo bello, si tratta però di un corpo distrutto dalla tortura.
La gente chiede sempre di poter di stare più tempo davanti alla Sindone poiché in effetti ne ha pochissimo, ma chi può sostarvi davanti a lungo come è capitato a me, deve quasi di sforzarsi di non fuggire perché è una testimonianza di sofferenza indicibile. Il dolore che ne promana, in una civiltà dell' immagine come la nostra, diventa più eloquente di molti discorsi. Giovanni Paolo II, nella stessa occasione disse: "Non poteva amarci di più".


Icona o reliquia?
Monsignor Ghiberti: Il primo ad usare la terminologia dell'icona è stato il cardinale Ballestrero e lo hanno rimproverato di usare un escamotage, un concetto per evitare di parlare di reliquia nel momento in cui si proclamavano i risultati dell'analisi del carbonio 14 che spostava la datazione della Sindone al Medioevo, così da salvaguardarne la sacralità. Si tratta di una polemica ingiustificata. Quello di icona è un concetto utile non per evitare il problema dell'autenticità, perché anche quando questa fosse dimostrata, non ci sarebbero difficoltà ad usarlo. Semmai il problema è oggi poter usare il concetto di reliquia, cioè di oggetto che avrebbe avuto contatto con Gesù.
Nel gioco tra i due concetti, quello di icona ha qualcosa in più e qualcosa in meno. In più ha il vantaggio di non doversi esprimere riguardo al contatto fisico con il corpo di Gesù - senza negarlo, non si pronuncia su questo aspetto -; in meno, si avverte come un concetto un po' più lontano. Il concetto di reliquia ha lo svantaggio di anticipare, nel sentire comune, conclusioni che non ci sono state ancora date. Anche se in un'accezione ampia del termine, reliquia può indicare qualcosa che ha avuto riferimento con un santo ma senza necessariamente un contatto fisico. In questo senso, è un termine che si può utilizzare anche per la Sindone, specificando il significato con il quale lo si usa.
La teologia dell'icona ha una grande densità di significato in quanto esprime, secondo la tradizione dell'uso che ha avuto nella Scrittura e nella cristianità antica, il concetto di una somiglianza che tende addirittura all'identificazione con il punto di partenza.


Si può dire che questa incertezza sull'autenticità della Sindone ha in sé una funzione educativa che Dio offre ai credenti?
Monsignor Ghiberti: E' uno degli aspetti della povertà che è caratteristica del mistero dell'Incarnazione. Se qualcosa ci dice questo mistero è il nascondimento della divinità nella corporeità, l'aspetto più tangibile della presenza di una persona umana. Nel darci la Sindone come aiuto alla fede ma senza liberarlo dalle incertezze scientifiche, Dio ci invita a concentrarci sull'essenziale del messaggio che è il rimando a suo Figlio, incarnato in un corpo, morto e resuscitato. Anche la povertà del segno è nello stile di Gesù che si serve di strumenti "deboli" per convertire i cuori.

Da una parte c'è il milione e mezzo di pellegrini prenotati per l'ostensione, dall'altra c'è scetticismo verso la Sindone tra molti credenti: perché nell'incertezza è più facile credere che non sia autentica piuttosto che il contrario?
Monsignor Ghiberti: Bisognerebbe chiedersi se molti credenti credano davvero a verità di fede come la Resurrezione e la presenza reale di Gesù nell'Eucarestia. E' molto difficile quando si tratta di accogliere bene in coscienza i contenuti di queste affermazioni fondamentali della fede, dire "io credo". Anche alcuni che vanno in chiesa regolarmente pensano forse che siano modi di dire.
L'aspetto dello straordinario, man mano che si procede negli anni, diventa qualcosa che invita a relativizzare; ognuno vive una quantità di esperienze che non recano in sé lo straordinario e ciò che non è passato nella mia esperienza lo metto facilmente tra parentesi o lo escludo. Qualcosa di analogo avviene con la fede. Nel momento in cui sento l'invito a credere, se dico di sì, so che è un invito ad andare al di là, solo che man mano che il tempo passa, lo tiro in qua il cuore che avevo buttato al di là. Quando, come alla mia età, si avvicinano i momenti conclusivi della vita, il pensiero di un futuro nel quale questa mia realtà ha una trasformazione beatificante non è facile da confermare e da accettare. Credere è un processo di conquista che ha le sue difficoltà e le sue gioie a tutte le età e non mi stupisce che riguardo alla Sindone capiti qualcosa di analogo. E' più preoccupante per le verità di fede. La Sindone posso metterla tra parentesi: magari faccio male perché perdo un aiuto, ma il Signore non mi chiederà conto di questo come mi chiederà se ho rinunciato a una o più verità di fede. Si tratta però di ambiti che presentano delle somiglianze. Sta accadendo che ciò che serve per la fede ha le stesse difficoltà che ha la fede stessa di essere accettata.


Che cosa raccomandare ai pellegrini, quale atteggiamento, come accostarsi a questo mistero?
Monsignor Ghiberti: Per lasciarsi sorprendere da questa realtà bisogna impegnarsi per il silenzio, rinunciare ai commenti, vivere questo momento in modo personale. Bisogna inoltre curare la preparazione, non arrivare del tutto sprovveduti.
Affinché non si limiti a una semplice emozione, c'è la possibilità di fermarsi nella cappella dell'adorazione e nella penitenzieria per un momento di adorazione o per la confessione. Molti rientrano dal portone centrale del duomo per soffermarsi davanti alla Sindone con più calma, sebbene da lontano.
Si tratta di cogliere un rimando all'amore infinito di Gesù: questo è il messaggio che sta al di sopra di tutte le considerazioni possibili.
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