Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

sabato 31 marzo 2012

L'avventura di Clemente (Contributi 611)

Un articolo di Piero Gheddo tratto da La Bussola ci racconta l'esperienza umana del Beato Clemente Vismara: Da leggere e prendere appunti...

Parlando con un giovane “animatore vocazionale” milanese, mi dice che oggi tutti lamentano la mancanza di preti e di suore, ma pochi si rivolgono direttamente ai giovani proponendo di consacrare la loro vita a Dio. Alla domenica V° di Quaresima nella parrocchia e oratorio di Cornate d’Adda (provincia di Monza-Brianza, diocesi di Milano, ma rito romano) si celebrava il “Vismara Day”,  con varie attività “missionarie” in oratorio al pomeriggio. Al mattino ho celebrato la Messa dei ragazzi leggendo il Vangelo di Giovanni (12, 20-33) dove Gesù dice: “Se il chicco di frumento caduto in terra  non muore, rimane solo: se muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserva per la vita eterna. Chi mi serve mi segua…”.
Ho raccontato in breve la vita del Beato Clemente Vismara: ha seguito Gesù di cui era innamorato, è diventato sacerdote del Pime e mandato in Birmania (Myanmar) fra le tribù Akhà, Lahu e Shan. In 65 anni di missione si è innamorato anche di questo popolo, che viveva ancora in epoca preistorica; ha seguito Gesù sulla via del Calvario: ha patito la fame e la sete, si è adattato a cibi ripugnanti, per i primi otto anni di missione dormiva in un capannone di fango e paglia e quando pioveva apriva l’ombrello perché non gli piovesse addosso. A poco a poco, fidando nella Provvidenza (pregava molto!) e donandosi totalmente al suo popolo, nella diocesi di Kengtung ha fondato cinque parrocchie (o missioni): Monglin, Mong Phyak, Kenglap, Mong Ping, Tongtà, ai confini con Cina, Laos e Thailandia. 
In ciascuna di queste parrocchie ha lasciato qualche migliaio di cristiani e le strutture murarie necessarie, all’inizio portando dai villaggi in missione i bambini orfani e quelli denutriti, ammalati, handicappati, gemelli rifiutati dalla gente. Li educava umanamente e cristianamente con l’aiuto delle suore di Maria Bambina, che hanno fatto scuole, dispensari medici, ospedali, la promozione delle donne in tribù dove la donna non contava nulla. Ho parlato di suor Battistina Sironi di Trezzo d’Adda (vicino a Cornate), che ha vissuto 33 anni vicino a padre Clemente e dopo la sua morte mi diceva che la missione manteneva più di 300 persone,tra bambini, poveri e vedove cacciate dai villaggi. Il vescovo e i confratelli dicevano a Clemente di non prendere più poveri e bambini perché in certi mesi di carestia non si trovava il riso. Lui rispondeva: “I bambini e i poveri non sono miei, ma di Dio. Ci pensa lui a mantenerli”. Scriveva molte lettere e articoli per cercare aiuti, ma non contava mai i soldi che aveva e non faceva preventivi né bilanci consuntivi. Diceva: “Se contiamo i soldi vuol dire che ci siamo attaccati e non ci fidiamo della Provvidenza”. 
La vita di Clemente è un’avventura affascinante, in un territorio della Birmania tormentato dalla dittatura militare e dalle guerriglie tribali, dal brigantaggio e dal commercio dell’oppio, da carestie, pestilenze e mancanza di assistenza sanitaria. E poi, l’isolamento dal resto del mondo (riceveva e spediva la posta una volta al mese) e in certi periodi, la persecuzione. 
La Chiesa ha beatificato padre Vismara il 26 giugno 2011 in Piazza Duomo a Milano, per proporlo come missionario modello, che ha dato la vita a Gesù e al suo popolo. Il Beato Clemente era sempre contento e sorridente, non si lamentava mai. Diceva che Dio dà a ciascuno la sua croce e bisogna portarla con pazienza e con gioia. Aveva però un cruccio, un dispiacere che spesso manifestava nelle sue lettere. E’ morto nel 1988 a 91 anni e diventando vecchio leggeva che in Italia diminuivano le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata e si chiedeva: “Quando morirò,  chi verrà a prendere il mio posto? “.
In una lettera ai giovani e alle ragazze scriveva: “Ragazzi, venite ad aiutarmi. Io vi attendo a braccia aperte: venite, andremo per il mondo a rendere felici gli infelici. Raccoglieremo tutti senza chiedere il nome, senza chiedere la fede, non chiederemo nulla: a noi basta lenire il dolore, fugare la miseria, donare la speranza e la vita”.
Cari ragazzi che mi ascoltate, questa è la domanda che Clemente oggi fa a voi tutti e alle vostre famiglie. Cornate ha già dato diversi preti e suore alla Chiesa e alla missione. In questa Messa abbiamo letto la parola di Gesù: “Chi mi ama mi segue”. Voi che avete ancora la vita da spendere, quando pregate mettetevi davanti a Gesù e ditegli: “Signore, cosa vuoi che io faccia da grande? Io sono pronto, se mi chiami a seguirti nella vita sacerdotale, religiosa e missionaria, io sono pronto a dare la mia vita per te”.


E  voi,  cari genitori cristiani, cari nonni e nonne, se Dio chiama un vostro figlio o una vostra figlia, un nipote o nipotina, non pensate che vi chiede un sacrificio, perché vi fa una grande grazia. Il prete, il fratello e la suora sono la benedizione di una famiglia. Educate i vostri figli e figlie ad una vita di fede e parlategli anche di questa ipotesi, che il Signore Gesù li chiami con sé, per testimoniare e annunziare ai popoli l’amore di Dio per tutti. Ricordatevi: Dio non si lascia mai vincere in generosità.
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Il Mistero della Croce (Contributi 610)

Vi propongo un articolo di Padre Livio Fanzaga tratto da La Bussola che ci fa riflettere sul valore e sul significato della croce:

All’inizio  della Settimana Santa ciò che si presenta davanti a noi in un’ottica cristiana è il mistero della Pasqua, che è il mistero della nostra redenzione e della nostra salvezza. Questo è l’annuncio fondamentale del cristianesimo: siamo stati salvati. Salvati dalla condizione esistenziale di persone che nascono nel peccato, sotto l’impero delle tenebre e quindi nascono lontani da Dio e con la condanna a morte. Perché non c’è dubbio che  se la morte da un certo punto di vista è un fatto naturale, dal punto di vista teologico, dal punto di vista della fede è lo stipendio del peccato, come dice san Paolo. Per invidia del diavolo è entrata la morte nel mondo, dice il libro della Sapienza. 
Questa condizione esistenziale nella quale tutti gli uomini nascono, è anche la condizione dalla quale nascono tutte le religioni, perché - come diceva René Girard - tutte le religioni sono nate per dare una risposta al problema della morte, del male e della morte. Per male si intende il male morale, il peccato, la cattiveria e tutto ciò che da esso deriva, a livello personale e sociale. Le religioni sono il tentativo dell’uomo di salvarsi da questa situazione. Ma tutti i tentativi umani, che si esprimono nelle varie religioni, nelle varie filosofie, perfino in varie ideologie, non approdano a nulla. Questo è il punto di partenza su cui possiamo convergere tutti: l’uomo nasce non solo malato, ma condannato: da solo non riesce a salvarsi né dal peccato né dalla morte, né dalla disperazione né dall’angoscia. 
Il cristianesimo si distingue da tutte le altre religioni perché l’iniziativa di salvare l’uomo viene da Dio, viene dall’alto. Come dice Benedetto XVI nel suo libro “Gesù di Nazaret” Dio si è assunto la natura umana ma eccetto il peccato. Assunta nella sua totalità, nel corpo e nell’anima, Gesù è vero corpo e vera anima, però senza il peccato.
Lui è quell’agnello immacolato che ha assunto su di sé tutti i peccati del mondo e li ha espiati: così è venuta la nostra salvezza. Cioè noi siamo stati liberati dal peccato, dalla morte, dalla lontananza da Dio, abbiamo riacquistato la divina amicizia e la vita eterna, prima che nel dono dell’immortalità nella pienezza della gioia. Abbiamo ottenuto questo come dono che Dio ci ha dato in quanto Gesù Cristo ha espiato il peccato che è la causa di tutti i mali, compresa la morte fisica. Anche gli apostoli ebbero grande difficoltà a capire perché Gesù aveva dovuto patire. Quando Gesù parlava della sua Passione, della sua morte, sullo sfondo della sua resurrezione, gli apostoli inorridivano, non volevano capire la necessità della sofferenza e della morte in Croce per la redenzione, tanto è vero che quando Gesù venne poi effettivamente catturato, fu veramente in mano ai pagani, vacillarono nella fede. E sotto la Croce non c’erano. C’erano Maria e san Giovanni, gli altri erano pecore sbandate, come se avessero perso il loro pastore, perché non avevano capito il significato della Croce. 
Poi Gesù Cristo stesso, il Risorto, e poi il dono dello Spirito santo gli hanno fatto capire: San Pietro nella sua predicazione nel primo giorno di Pentecoste disse parlando di Gesù Cristo morto in croce:  “Patì per i nostri peccati”. Cioè la Croce è il momento scelto per distruggere i peccati.
Come è avvenuta questa distruzione dei peccati? Perché proprio in croce Cristo ha distrutto i peccati di tutto il mondo, di tutti i tempi? Per cui spirando al termine della sua passione, dice “Tutto è compiuto” e invoca il perdono del padre, dicendo “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. Perché questo perdono che Gesù ci ha ottenuto? Coma ha fatto a ottenerlo? Lo ha ottenuto perché Gesù ha espiato i peccati del mondo nel suo cuore. 
Pensiamo a cos’è il peccato: è orgoglio, disobbedienza, superbia, disamore, opposizione a Dio, odio per Dio e per il prossimo, c’è tutta la gamma delle passioni e del male, del peccato. Gesù Cristo nella sua Passione, nel suo cuore ha espresso una tale obbedienza, una tale sottomissione al padre, un tale amore, una tale generosità, una tale pazienza, un tale coraggio, una tale dedizione, una tale pietà, una tale compassione, una tale misericordia, che questo amore che ardeva nel suo cuore ha bruciato tutto il disamore e disobbedienza che c’è in tutti i peccati di tutti gli uomini. Questo cuore di Cristo crocefisso è la fonte di grazia da cui nasce il perdono, da cui nasce la remissione dei peccati, che poi si concretizza per quanto riguarda noi cristiani nei sacramenti del battesimo e della penitenza dove i peccati vengono rimessi perché un altro al nostro posto per nostro amore ha espiato.
Chi andasse in un tribunale e confessare un delitto: sarebbe condannato anche fino a trent’anni di reclusione per aver commesso il delitto e deve espiare quella pena. Se uno va in un confessionale, confessa un delitto, si pente sinceramente e di tutto cuore chiede perdono a Dio, gli viene data l’assoluzione; sì, farà una penitenza ma avrà l’assoluzione. Perché l’assoluzione? Perché Gesù Cristo ha espiato per te, al tuo posto, per tuo amore. Quindi dobbiamo sempre guardare la Croce con questo sguardo di fede, e cioè come l’agnello che si è addossato tutti i peccati del mondo con la sua mitezza, umiltà, obbedienza: li ha distrutti, bruciati. Per cui la Croce è la fonte inesauribile di ogni grazia innanzitutto per il perdono dei peccati, la grazia per la vita eterna, la grazia della figliolanza, quella grazia che poi si effonde in tutti i sacramenti. E questo è l’aspetto teologico della Croce che ovviamente va vista sempre alla luce della Resurrezione, perché il mistero pasquale è il passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, quindi la croce va sempre vista nella gloria della Resurrezione, che è anche la nostra meta finale.
Questo è lo sguardo di fede per quanto riguarda il nostro modo di guardare la Croce, per cui dobbiamo chiedere al Signore anche la grazia dello Spirito Santo per avere questo sguardo di fede e accostarci anche al sacramento della confessione pasquale e della comunione vivendo in noi il mistero pasquale, il mistero di morte e di vita che ha vissuto Gesù Cristo.
C’è anche uno sguardo umano, molto denso di significato per quanto riguarda il Crocefisso, uno sguardo non dico laico ma di umana compassione: lo sguardo della ragione, del cuore anche se non illuminati dalla fede. Per cui possiamo dire che la croce è un grandissimo simbolo di civiltà, anzi è un simbolo di civiltà senza il quale l’uomo non avrebbe futuro.
Per quale motivo? Perché sulla Croce c’è l’uomo innocente, sofferente, quindi che sperimenta la condizione umana di sofferenza. L’uomo nasce crocifisso, vive crocifisso e muore. E questo uomo sofferente che soffre perché colpito dalla cattiveria, dalla malvagità dei suoi simili ma che tuttavia invece di opporre al male il male, alla violenza la violenza, invece dell’occhio per occhio dente per dente, ha spezzato la spirale della violenza, ha spezzato la logica della violenza che non solo distrugge le vite personali, i rapporti familiari, i rapporti sociali, ma che rischiano di portare il mondo alla distruzione. E invece di vendicarsi perdona. 
Questo del perdono è storicamente il cuore del cristianesimo. Noi credenti lo vediamo come il perdono di Dio per i peccati degli uomini a cui vengono rimessi, per amore misericordioso; ma anche l’occhio non illuminato dalla fede vede il grandissimo valore personale e sociale e anche storico, di un passaggio fondamentale della storia: non si risponde al male con il male, non si risponde alla spada con la spada, bisogna saper perdonare i nemici. Non è solo un dettato di fede, un comandamento di fede, è un imperativo morale senza il quale il mondo non avrebbe più futuro. Perché oggi o è così – si risponde al male con il bene -,  o si risponde con l’amore oppure il mondo rischia l’autodistruzione. Vorrei sottolineare questo aspetto dell’altissimo valore che la Croce ha  sotto il profilo della storia della civiltà, come sottolinea Renè Girard: sotto un profilo puramente laico la Croce ha un valore altissimo perché Gesù Cristo è divenuto quel capro espiatorio di cui tutti gli uomini hanno bisogno nella loro vita, la storia umana ha sempre capri espiatori da distruggere. Cristo è capro espiatorio che ha preso il posto di tutti i capri espiatori. per cui gli uomini d’ora in poi dovranno imparare a perdonarsi.
La croce quindi come svolta della civiltà umana per ottenere una civiltà pacifica, fraterna, e sotto un altro ruolo la Croce come riconciliazione degli uomini con Dio, il riscatto della vita umana sottoposta al male e alla morte, la prospettiva della vita eterna e della resurrezione.

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Il tempo ha un nome (Contributi 609)

Ecco un articolo di Don Massimo Camisasca da Il Sussidiario:


Non si può servire Dio e ciò che si oppone al suo nome, Cristo e ciò che si oppone a lui. Non si può servire la strada in cui Cristo ci ha messo e ciò che vorrebbe distoglierci da questa strada. Per questo, la grazia più grande che dobbiamo chiedere a Dio è quella di redimere il tempo, di vivere con passione e verità i nostri giorni. «Redimentes tempus quoniam dies mali sunt», dice san Paolo (Ef 5, 16).
I giorni sono cattivi? Viviamo in un tempo difficile, ma per questo interessante, perché esige radicalità. Ciò che una volta poteva essere accettato per tradizione, oggi non può essere vissuto se non per convinzione, e la convinzione è la scoperta di una corrispondenza, non tanto intellettuale, ma che dia gusto alla vita.
Questa esigenza di radicalità ci invita ad avere soprattutto il senso del tempo che ci è dato. La prima forma con cui Dio ha voluto esprimere la sua misericordia verso l’uomo è di aver creato il tempo, cioè una serie di occasioni: il tempo della vita è un bene prezioso e non va sprecato. Ungaretti ha intitolato una raccolta di sue poesie Il tempo ha un nome; noi potremmo dire che il tempo ha tanti nomi, i nomi delle persone che ci hanno portato fin dove siamo.
Senza rispondere al tempo non si può essere se stessi. La cosa più terribile che possa accadere all’uomo è di essere superficiale, di non vivere il senso del tempo come occasione, istante per istante. Il tempo vissuto come risposta a Cristo toglie dalla vita il primo nemico, che è la paura. Laddove c’è paura, non c’è Cristo. Come dice san Giovanni, «nell’amore non c’è paura» (1Gv 4, 18).
Questa riflessione non sarebbe veramente compiuta, se non fosse ringraziamento, perché tutto è già stato dato. Quanti uomini, dice Gesù, avrebbero desiderato vedere quello che noi vediamo e non lo videro, avrebbero desiderato sentire quello che noi sentiamo e non lo udirono! Nel tempo si manifesta Colui che ci accompagnerà per sempre.

venerdì 30 marzo 2012

Massoneria e corruzione dei costumi (Contributi 608)

Vi invito a leggere questo articolo di Angela Pellicciari tratto da La Bussola:



Collen Hammond, ex modella e attrice diventata cattolica, in un libro autobiografico di recente pubblicazione racconta come la totale perdita di pudore nell’abbigliamento femminile sia stato uno degli obiettivi tatticamente perseguiti dalla massoneria nell’intento di sradicare la religione. La signora, madre di quattro figli, cita fra l’altro un numero dellaInternational Review on Freemasonry pubblicato nel 1928 in cui si legge: “La religione non teme i colpi di spada; ma può estinguersi sotto i colpi della corruzione. Non stanchiamoci mai della corruzione: usiamo un pretesto come lo sport, l’igiene, la cura della salute. E’ necessario corrompere: che i nostri giovani pratichino il nudismo. Per scongiurare una reazione eccessiva, bisogna procedere metodicamente: bisogna cominciare con lo scoprire il gomito; poi passare alle ginocchia; quindi a gambe e braccia completamente scoperte; poi la parte superiore del torace, le spalle, ecc. ecc.” (Dressing with dignity, Rockford 2005, p. 53).
Un secolo prima della rivista citata dalla Hammond la strategia delle sette era la stessa. Regnante Gregorio XVI (1831-46) la polizia pontificia scopre documenti e corrispondenza fra carbonari in cui si teorizza che, per ottenere il potere, bisogna passare per la corruzione dei costumi.
Qualche saggio dei documenti resi pubblici per volontà del papa: “Abbiamo deciso che non vogliamo più cristiani; evitiamo dunque di fare martiri: pubblicizziamo piuttosto il vizio presso il popolo”; “L’essenziale è isolare l’uomo dalla famiglia, è fargliene perdere le abitudini”; “L’uomo ama le lunghe chiacchiere al caffè e assistere ozioso agli spettacoli. Intrattenetelo, lavoratelo con destrezza, fategli credere di essere importante; insegnategli poco a poco ad avere disgusto delle occupazioni quotidiane, e così, dopo averlo separato da moglie e figli e dopo avergli mostrato quanto è faticoso vivere adempiendo ai propri doveri, inculcategli il desiderio di una vita diversa”.

Perché la massoneria promuove la corruzione morale della società? Vale la pena di analizzare due risposte, la prima della Civiltà Cattolica, la seconda di Leone XIII, perché entrambe interessanti. A parere della rivista dei gesuiti, che ne parla in un articolo del 1852, lo scopo delle sette “è generalmente antireligioso e antisociale. Esse agognano lo sperperamento e il taglio d’ogni vincolo più sacro, che lega uomo con uomo, nella Chiesa, nella società, nella famiglia, per ricostruire l’umanità sotto una nuova forma di totale servaggio, in cui lo Stato sia tutto, e i capi della setta siano lo Stato”. 
Nell’enciclica Humanum genus composta nel 1884 per chiarire ai cattolici la natura della massoneria (che, detto fra parentesi, all’epoca dominava la vita politica e culturale italiana), Leone XIII individua nella promozione del vizio l’arma principale delle sette massoniche: a giudizio del papa solo così, e cioè fiaccando la volontà delle persone col renderle schiave delle passioni, uomini “scaltriti e astuti” avrebbero potuto imporsi e dominare incontrastati. Queste le parole del pontefice: “poiché quasi nessuno è disposto a servire tanto passivamente uomini scaltriti e astuti come coloro il cui animo è stato fiaccato e distrutto dal dominio delle passioni, sono state individuate nella setta dei Massoni persone che dichiarano e propongono di usare ogni accorgimento e artificio per soddisfare la moltitudine di sfrenata licenza; fatto ciò, esse l’avrebbero poi soggiogata al proprio potere arbitrario, e resa facilmente incline all’ascolto”. 

Che questi echi lontani di polemiche otto-novecentesche abbiano qualcosa a che fare con la forsennata campagna a favore del matrimonio omosessuale, in un tempo, per di più, in cui l’istituzione matrimoniale giace in stato comatoso?

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Il genio di Caravaggio nel farci vedere Gesù….(Contributi 607)

Vi propongo un bell'articolo di Antonio Socci:


Al centro dell’ultimo romanzo di Abraham Yehoshua, “La scena perduta” (Einaudi, pp. 368, euro 21) c’è un quadro strano, sorprendente. E’ un dipinto di Matthias Meyvogel, un artista del Seicento.
Malgrado il titolo, “Caritas romana”, l’opera appare ben poco “spirituale”, anzi è un’immagine fortemente sensuale: rappresenta una giovane donna che fa succhiare il suo seno a un vecchio che ha le mani legate dietro la schiena.
Qual è il senso e la storia di quell’immagine su cui Yehoshua richiama la nostra attenzione per la fascinazione che esercita?
Ci troviamo di fronte a un tema che sembra aver quasi ossessionato la pittura dal XVI al XVIII secolo. Lo sanno gli addetti ai lavori. Ma possono facilmente scoprirlo anche i profani. Basta andare su Google, scrivere la formula “caritas romana” e cliccare su “immagini”, per scoprire che ci sono decine di opere con lo stesso soggetto.
Si sono cimentati con esso tantissimo pittori, più e meno famosi. Guido Reni, Georg Pencz, Rubens, Bernardino Mei, Antonio Gherardi, Domenico Manetti, Giovanni Antonio Pellegrini, Jean Baptiste Deshays, Gaspard de Crayer, Januarius Johann Rasso, Murillo, Domenico Cerrini, Bartolomeo Manfredi, Antonio Galli, Jan Janssens, Lorenzo Pasinelli, Orazio Gentileschi, Giovanni Romanelli, Domenico Maria Viani e molti altri.
Tutte queste tele raccontano una storia ambientata dell’antica Roma. Si dice che il vecchio Cimone sia stato rinchiuso in una buia galera e lì condannato a morire di fame e di sete. La figlia, Pero, ogni giorno gli faceva visita e di nascosto lo nutriva al suo seno per salvargli la vita.
Fu infine scoperta, ma i giudici, commossi dal suo gesto di pietà, decisero di graziare il vecchio. In ricordo di questo esempio di amore filiale si narra che fu eretto lì, nel foro Olitorio, nel 181 a.C., un tempio dedicato alla Pietas, poi sostituito dalla basilica di San Nicola in carcere.
La storia di Cimone e Pero – riferita anche da Valerio Massimo – era già stata rappresentata a Pompei nella villa di Valerio Frontone e il soggetto tornò ad essere raffigurato una miriade di volte nel Rinascimento e poi nel Seicento. In genere queste opere sono tutte intitolate “Carità romana”.
E’ dunque una storia di pietà, di umanità, che fu riscoperta attorno al XVI secolo e, secondo la cultura rinascimentale impregnata di mentalità pagana, fu rappresentata in quel modo ambiguo e sensuale.
Finché arrivò Caravaggio e – anche in questo caso – fece una rivoluzione. La sua opera ha tutt’altro tema: le sette opere di misericordia corporale.
E’ una grande tela che sta sull’altare della chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli e fu dipinta nel 1606 per quella confraternita.
E’ un capolavoro in cui vengono rappresentate in modo concitato, drammatico quelle opere di carità materiale su cui Gesù, nel Vangelo, dice che saremo giudicati alla fine dei tempi. Tutta la scena è sormontata dall’immagine della Madonna col bambino che è la fonte di tutte le grazie.
Ebbene, se si osserva attentamente l’opera ci si accorge subito che sulla destra il pittore ha rappresentato una giovane donna, in piedi, che – mentre guarda altrove – con la mano offre la sua mammella a un vecchio il quale sporge la testa da una finestrella con le sbarre, per accostare la sua bocca al seno candido della ragazza.
La scena della ragazza e del vecchio riunisce in sé due opere di misericordia corporale: “dar da mangiare agli affamati” e “visitare i carcerati”. 
Chi prega davanti a quell’altare dunque ha davanti a sé quella grande tela dove è ben visibile questa immagine. E’ sorprendente che negli anni della cosiddetta Controriforma fosse accettata un’immagine così audace e che tale immagine sia in una pala d’altare.
Ma, in realtà, ancor più sorprendente è il fatto che nel contesto di quell’opera, dove sono rappresentate tutte le sofferenze umane e la carità cristiana, sembra che ogni ambigua sensualità scompaia.  
E’ l’ennesimo colpo di genio – un genio radicalmente cattolico – di Caravaggio. Lui fece sua l’iconografia della ragazza pietosa che allatta il vecchio prigioniero, ma la cristianizzò applicandola alle opere di misericordia.
Tuttavia proprio la forte carnalità di quell’iconografia serviva al Merisi per far percepire la concretezza della carità e la carnalità della salvezza cristiana.
La tela caravaggesca fa vedere che le opere di misericordia abbracciano tutta la nostra condizione umana: l’essere affamato, assetato, ignudo, l’essere carcerato, ammalato o senza un tetto, infine l’essere morto e quindi l’aver bisogno di venire sepolto.
E queste opere vanno accanto alle opere di misericordia spirituale. Tutte insieme sono le opere che Gesù compiva, con cui esprimeva il suo amore, la sua compassione per ogni essere umano, nella sua condizione esistenziale e anche materiale. E sono le opere che anche a noi chiede per entrare in Paradiso.
Era lui il Buon Samaritano della parabola, colui che si china a curare e fasciare le ferite dell’uomo moribondo. Si prende cura pure delle sue piaghe fisiche perché il cristianesimo non è appena la religione dell’immortalità dell’anima, ma della resurrezione dei corpi (e ci sarà pure un motivo se gli ospedali sono stati inventati dalla Chiesa).
Ma c’è qualcosa di più che si esprime in questa rappresentazione delle opere di misericordia. Gesù salva l’umanità ferita dalla disperazione, dalla prigionia del male e della morte, dando il suo stesso corpo e il suo sangue, pagando nella sua carne il riscatto. E poi addirittura nutrendoci con la sua carne e il suo sangue per divinizzarci.
Ecco perché quell’insolita scena di allattamento, assunta da Caravaggio, esprime misteri profondi: è la Grazia che salva dalla morte e ridà nuova vita all’uomo vecchio, prigioniero del male. La Grazia è Gesù stesso, Dio fatto carne, il Dio-uomo.
Un’iconografia antica e tradizionale di Cristo è quella del pellicano che si squarcia il petto per nutrire i suoi piccoli col suo stesso sangue.
Il sangue e l’acqua che uscirono dal petto del crocifisso hanno questo profondo significato di lavacro e nutrimento per noi. E’ nutrendoci del suo stesso corpo che egli ci libera dalla prigionia.
Diversi mistici usano l’immagine delle labbra che si abbeverano alla ferita del costato di Gesù. Naturalmente quelle immagini di nutrizione e dissetamento sono tutte metafore dell’eucaristia (Caravaggio aveva rappresentato le delizie dell’eucaristia anche con il famoso e bellissimo cesto di frutti, rifacendosi a un tema della spiritualità di San Carlo e del Concilio di Trento).
Quello che Caravaggio rappresenta in questa tela è un amore unico al mondo, così folle, concreto e appassionato che la scena della “lactatio” ne dà solo una pallidissima idea. Forse – per riprendere il titolo di Yehoshua – “la scena perduta” dall’umanità del nostro tempo è proprio questo Amore.
Infatti il nostro tempo erotomane esprime anche con l’ossessione del sesso quella insoddisfazione perenne nella sua ricerca dell’estasi, dell’Amore vero e della felicità. Proprio perché siamo carne la salvezza è venuta nella carne.
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giovedì 29 marzo 2012

Lode a Dio e servizio agli uomini (Contributi 606)

Ecco l'editoriale di Samizdat On Line:

 “Il primo atto è annunciare Dio”, ha affermato Benedetto XVI rispondendo alle domande dei giornalisti durante il volo che lo portava in Messico. “Se Dio non c’è, l’infinito si crea i suoi propri paradisi, un’apparenza di “infinitudini” che può essere solo una menzogna. Perciò è tanto importante che Dio sia presente, accessibile”.
Credo che convenga servirsi di queste parole come di una lente per mettere a fuoco un evento importante, ancora una volta ignorato dai media, ma destinato, nella logica di Dio che guida la storia, a cambiare i cuori di tanti uomini. Il tempo rivelerà la portata di questa visita vissuta dal Papa in intima unità e “assoluta continuità” con quella del suo predecessore, l’amato papa Giovanni Paolo II.
A noi, oggi, tocca cogliere i segni e le parole che possano ricreare le nostre persone, in una ideale e reale partecipazione alla vita della Chiesa universale. Rivolgendosi a un popolo che vive il cristianesimo con una forte carica sentimentale ma che, nello stesso tempo, subisce la secolarizzazione e la confusione di un mondo globalizzato, il Papa ha proposto la necessità di “annunciare un Dio che risponde alla nostra ragione, perché vediamo la razionalità del cosmo, vediamo che c’è qualcosa dietro, ma non vediamo come sia vicino questo Dio, come concerne me”. Pertanto, “l’intuizione del cuore deve collegarsi con la razionalità della fede e con la profondità della fede che va oltre la ragione.
Dobbiamo cercare di non perdere il cuore, ma di collegare cuore e ragione, così che cooperino, perché solo così l’uomo è completo e può realmente aiutare e lavorare per un futuro migliore”. La separazione cuore-ragione è uno dei mali del nostro tempo, un equivoco su cui gioca il relativismo dominante per cui al riconoscimento di un bene non corrisponde un’adesione dell’affetto e tutto, perciò, si scolora, acquista una tinta neutra che opacizza. Inoltre, separare cuore e ragione è causa di indebolimento per entrambi: il cuore si riduce a sentimento istintivo, mentre la ragione si confina nel dimostrabile, in ciò che trova alla sua portata.
Se la “profondità della fede va oltre la ragione” poiché ne supera i limiti, negare la fede compromette la ragione stessa. Le conseguenze di questa posizione sono sotto gli occhi di tutti. Come spiegare altrimenti tanta irrazionalità di atteggiamenti o di opinioni che si contraddicono senza che chi li pratica se ne avverta?
Recentemente mi è capitato di leggere una frase sconcertante per l’assenza totale di consapevolezza dello scrivente: “Grazie a Dio, sono ateo”. Per asserire il proprio ateismo si afferma Dio! Che si tratti di una sorta di pena del contrappasso moderna? “Quando Dio è estromesso, il mondo si trasforma in un luogo inospitale per l’uomo, frustrando, nello stesso tempo, la vera vocazione della creazione di essere lo spazio per l’alleanza, per il «sì» dell’amore tra Dio e l’umanità che gli risponde”.
È facile per l’intellighenzia di oggi denunciare il mondo come “luogo inospitale”, con tutti gli annessi delle retoriche ambientaliste, ma non viene mai superata la soglia della denuncia, mai posta una domanda vera che parta dal cambiamento di sé, che esuli dallo spettacolarismo di facciata.
Perché il mondo è inospitale? Cosa lo rende tale? Perché siamo arrivati a questa estraneità nei confronti di una realtà che gli studi più avanzati riconoscono si sia “sviluppata” in modo tale da permettere la vita all’uomo? “Creazione come spazio per l’alleanza”, per un legame generatore che chiede di essere accolto. Qui sta il mistero della libertà.
Chi intende ridurre la visita del Papa in Messico e in America Latina a fatto devozionale o politico per la sosta a Cuba, deve fare i conti con la tenacia di un Papa che ha scelto, già come motto episcopale, di essere collaboratore della verità. E spiazza tutti con la profondità della sua fede, che va “oltre la ragione”.

Non esitate a seguire Gesù Cristo (Contributi 605)


Questa l'omelia pronunciata il 28/3 da Papa Benedetto XVI durante la Messa concelebrata in Plaza de la Revolución “José Martí” nella capitale cubana:

Cari fratelli e sorelle!
«Benedetto sei tu, Signore Dio… Benedetto il tuo nome glorioso e santo» (Dn 3, 52). Questo inno di benedizione del Libro di Daniele risuona oggi nella nostra liturgia invitandoci ripetutamente a benedire e lodare Dio. Siamo parte della moltitudine di quel coro che celebra il Signore incessantemente. Ci uniamo a questo insieme di azioni di grazie, ed offriamo la nostra voce gioiosa e fiduciosa che cerca di consolidare nell'amore e nella verità il cammino della fede.
«Benedetto sia Dio» che ci riunisce in questa piazza emblematica, affinché ci immergiamo più profondamente nella sua vita. Provo una grande gioia nell’essere oggi tra voi e presiedere questa Santa Messa nel cuore di questo Anno giubilare dedicato alla Vergine della Carità del Cobre.
Saluto cordialmente il Cardinale Jaime Ortega y Alamino, Arcivescovo di L'Avana, e lo ringrazio per le cordiali parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Estendo il mio saluto ai Signori Cardinali, ai miei fratelli Vescovi di Cuba e di altri Paesi che hanno voluto partecipare a questa solenne celebrazione. Saluto anche i sacerdoti, i seminaristi, i religiosi e tutti i fedeli qui convenuti, come pure le Autorità che ci accompagnano.
Nella prima lettura che è stata proclamata, i tre giovani, perseguitati dal sovrano babilonese, preferiscono affrontare la morte bruciati dal fuoco piuttosto che tradire la loro coscienza e la loro fede. Essi trovarono la forza di «lodare, glorificare e benedire Dio» nella convinzione che il Signore del cosmo e della storia non li avrebbe abbandonati alla morte ed al nulla. In effetti, Dio non abbandona mai i suoi figli, non li dimentica mai. Egli sta al di sopra di noi ed è capace di salvarci con il suo potere. Allo stesso tempo, è vicino al suo popolo, e per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo ha voluto porre la sua dimora tra noi.
«Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31). Nel brano del Vangelo che è stato proclamato, Gesù si rivela come il Figlio di Dio Padre, il Salvatore, l'unico che può mostrare la verità e dare la vera libertà. Il suo insegnamento provoca resistenza ed inquietudine tra i suoi interlocutori, ed Egli li accusa di cercare la sua morte, alludendo al supremo sacrificio della Croce, ormai vicino. Ma li esorta a credere, a rimanere nella sua Parola, per conoscere la verità che redime ed onora.
In effetti, la verità è un anelito dell'essere umano, e cercarla suppone sempre un esercizio di autentica libertà. Molti, tuttavia, preferiscono le scorciatoie e cercano di evitare questo compito. Alcuni, come Ponzio Pilato, ironizzano sulla possibilità di poter conoscere la verità (cfr Gv 18,38), proclamando l'incapacità dell'uomo di raggiungerla o negando che esista una verità per tutti. Questo atteggiamento, come nel caso dello scetticismo e del relativismo, produce un cambiamento nel cuore, rendendo freddi, vacillanti, distanti dagli altri e rinchiusi in se stessi. Persone che si lavano le mani come il governatore romano e lasciano correre il fiume della storia senza compromettersi.
D'altra parte, ci sono altri che interpretano male questa ricerca della verità, portandoli all'irrazionalità e al fanatismo, per cui si rinchiudono nella «loro verità» e cercano di imporla agli altri. Sono come quei legalisti accecati che, vedendo Gesù colpito e sanguinante, gridano infuriati: «Crocifiggilo!» (cfr Gv 19,6). In realtà, chi agisce irrazionalmente non può arrivare ad essere discepolo di Gesù. Fede e ragione sono necessarie e complementari nella ricerca della verità. Dio ha creato l'uomo con un'innata vocazione alla verità e per questo lo ha dotato di ragione. Certamente non è l'irrazionalità, ma l’ansia della verità quello che promuove la fede cristiana. Ogni essere umano deve scrutare la verità ed optare per essa quando la trova, anche a rischio di affrontare sacrifici.
Inoltre, la verità sull'uomo è un presupposto ineludibile per raggiungere la libertà, perché in essa scopriamo i fondamenti di un'etica con la quale tutti possono confrontarsi e che contiene formulazioni chiare e precise sulla vita e la morte, i doveri ed i diritti, il matrimonio, la famiglia e la società, in definitiva, sulla dignità inviolabile dell'essere umano. Questo patrimonio etico è quello che può avvicinare tutte le culture, i popoli e le religioni, le autorità e i cittadini, e i cittadini tra loro, e i credenti in Cristo con coloro che non credono in Lui.
Il Cristianesimo, ponendo in risalto i valori che sostengono l'etica, non impone, ma propone l'invito di Cristo a conoscere la verità che rende liberi. Il credente è chiamato a rivolgerlo ai suoi contemporanei, come lo fece il Signore, anche davanti all’oscuro presagio del rifiuto e della Croce. L'incontro personale con Colui che è la verità in persona ci spinge a condividere questo tesoro con gli altri, specialmente con la testimonianza.
Cari amici, non esitate a seguire Gesù Cristo. In Lui troviamo la verità su Dio e sull'uomo. Egli ci aiuta a sconfiggere i nostri egoismi, ad uscire dalle nostre ambizioni e a vincere ciò che ci opprime. Colui che opera il male, colui che commette peccato, è schiavo del peccato e non raggiungerà mai la libertà (cfr Gv 8,34). Solo rinunciando all'odio e al nostro cuore indurito e cieco, saremo liberi, ed una nuova vita germoglierà in noi.
Con la ferma convinzione che Cristo è la vera misura dell'uomo, e sapendo che in Lui si trova la forza necessaria per affrontare ogni prova, desidero annunciarvi apertamente il Signore Gesù come Via, Verità e Vita. In Lui tutti troveranno la piena libertà, la luce per capire in profondità la realtà e trasformarla con il potere rinnovatore dell'amore.
La Chiesa vive per rendere partecipi gli altri dell’unica cosa che possiede, e che non è altro che Cristo stesso, speranza della gloria (cfr Col 1,27). Per poter svolgere questo compito, essa deve contare sull'essenziale libertà religiosa, che consiste nel poter proclamare e celebrare anche pubblicamente la fede, portando il messaggio di amore, di riconciliazione e di pace, che Gesù portò al mondo. E’ da riconoscere con gioia che sono stati fatti passi in Cuba affinché la Chiesa compia la sua ineludibile missione di annunciare pubblicamente ed apertamente la sua fede. Tuttavia, è necessario proseguire, e desidero incoraggiare le autorità governative della Nazione a rafforzare quanto già raggiunto ed a proseguire in questo cammino di genuino servizio al bene comune di tutta la società cubana.
Il diritto alla libertà religiosa, sia nella sua dimensione individuale sia in quella comunitaria, manifesta l'unità della persona umana che è, nel medesimo tempo, cittadino e credente. Legittima anche che i credenti offrano un contributo all'edificazione della società. Il suo rafforzamento consolida la convivenza, alimenta la speranza in un mondo migliore, crea condizioni propizie per la pace e per lo sviluppo armonioso e, contemporaneamente, stabilisce basi solide sulle quali assicurare i diritti delle generazioni future.
Quando la Chiesa mette in risalto questo diritto, non sta reclamando alcun privilegio. Pretende solo di essere fedele al mandato del suo divino Fondatore, cosciente che dove Cristo si rende presente, l'uomo cresce in umanità e trova la sua consistenza. Per questo, essa cerca di offrire questa testimonianza nella sua predicazione e nel suo insegnamento, sia nella catechesi come negli ambienti formativi ed universitari. È da sperare che presto giunga anche qui il momento in cui la Chiesa possa portare nei vari campi del sapere i benefici della missione che il suo Signore le ha affidato e che non può mai trascurare.
Esempio illustre di questo lavoro fu l'insigne sacerdote Félix Varela, educatore e maestro, figlio illustre di questa città di L'Avana che è passato alla storia di Cuba come il primo che ha insegnato al suo popolo a pensare. Il Padre Varela ci presenta la strada per una vera trasformazione sociale: formare uomini virtuosi per forgiare una nazione degna e libera, poiché questa trasformazione dipenderà dalla vita spirituale dell'uomo; infatti, «non c'è patria senza virtù» (Lettere ad Elpidio, lettera sesta, Madrid 1836, 220). Cuba ed il mondo hanno bisogno di cambiamenti, ma questi ci saranno solo se ognuno è nella condizione di interrogarsi sulla verità e si decide a intraprendere il cammino dell'amore, seminando riconciliazione e fraternità.
Invocando la materna protezione di Maria Santissima, chiediamo che ogni volta che partecipiamo all'Eucaristia diventiamo anche testimoni della carità che risponde al male con il bene (cfr Rm 12, 21), offrendoci come ostia viva a chi con amore offrì se stesso per noi. Camminiamo alla luce di Cristo, che può disperdere la tenebra dell'errore. Supplichiamolo che, con il valore e il vigore dei santi, giungiamo a dare una risposta libera, generosa e coerente a Dio, senza paure, né rancori. Amen.
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mercoledì 28 marzo 2012

Domenica 5^ di Quaresima (Angelus 71)

Mexico, León, Parco Expo Bicentenario



Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di questa domenica, Gesù parla del chicco di frumento che cade in terra, muore e si moltiplica, rispondendo ad alcuni greci che si avvicinano all’apostolo Filippo per chiedergli: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21). Noi oggi invochiamo Maria Santissima e la supplichiamo: “Mostraci Gesù”.
Nel recitare ora l’Angelus ricordando l’Annunciazione del Signore, anche i nostri occhi si dirigono spiritualmente fino al colle del Tepeyac, al luogo dove la Madre di Dio, sotto il titolo di “la sempre vergine santa Maria di Guadalupe”, è onorata con fervore da secoli, quale segno di riconciliazione e della infinita bontà di Dio per il mondo.
I miei Predecessori sulla Cattedra di san Pietro la onorarono con titoli speciali come Signora del Messico, Celeste Patrona dell’America Latina, Madre e Imperatrice di questo Continente. I suoi fedeli figli, a loro volta, che sperimentano il suo aiuto, la invocano, pieni di fiducia, con nomi affettuosi e familiari come Rosa del Messico, Signora del Cielo, Vergine “Morena”, Madre del Tepeyac, Nobile “Indita”.
Cari fratelli, non dimenticate che la vera devozione alla Vergine Maria ci avvicina sempre a Gesù, e “non consiste né in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vaga credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la Madre nostra e all'imitazione delle sue virtù”(Lumen gentium, 67).
Amarla significa impegnarsi ad ascoltare il suo Figlio; venerare la Guadalupana significa vivere secondo le parole del frutto benedetto del suo seno.
In questi momenti in cui tante famiglie si ritrovano divise e costrette all’emigrazione, molte soffrono a causa della povertà, della corruzione, della violenza domestica, del narcotraffico, della crisi di valori o della criminalità, rivolgiamoci a Maria alla ricerca di conforto, vigore e speranza. E’ la Madre del vero Dio, che invita a rimanere con la fede e la carità sotto la sua ombra, per superare così ogni male e instaurare una società più giusta e solidale.
Con questi sentimenti, desidero porre nuovamente sotto il dolce sguardo di Nostra Signora di Guadalupe questo Paese e tutta l’America Latina e i Caraibi. Affido ciascuno dei suoi figli  alla Stella della prima e della nuova evangelizzazione, che ha animato con il suo amore materno la storia cristiana di queste terre, dando caratteristiche particolari ai grandi avvenimenti della loro storia, alle loro iniziative comunitarie e sociali, alla vita familiare, alla devozione personale e alla Misiòn continental che ora si sta svolgendo in queste nobili terre. In tempi di prova e dolore, Ella è stata invocata da tanti martiri che, al grido “Viva Cristo Re e Maria di Guadalupe”, hanno dato una perenne testimonianza di fedeltà al Vangelo e di dedizione alla Chiesa. Supplico ora che la sua presenza in questa cara Nazione continui a richiamare al rispetto, alla difesa e alla promozione della vita umana e al consolidamento della fraternità, evitando l’inutile vendetta ed allontanando l’odio che divide. Santa Maria di Guadalupe ci benedica e ci ottenga, per sua intercessione, abbondanti grazie dal Cielo.
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lunedì 26 marzo 2012

La rivoluzione di Gesù verso i bambini e l’aborto (Contributi 604)

Ecco un articolo di Davide Galati dal sito UCCR:

Pochi giorni fa abbiamo citato un articolo di Paolo Civati in cui tesseva le lodi del cristianesimo per essersi offerto non ai sapienti ma  ai népioi, cioè ai bambini, agli indifesi, agli stolti, agli ultimi, donando loro il primato degli umili. Un interessante articolo, a firma di Giulia Piccaluga, docente ordinario di “Religioni del mondo classico” presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è apparso invece sull’Osservatore Romano, all’interno del quale si analizzava la condizione del bambino in epoca Romana, del bambino non ancora nato e di quello che invece è già venuto alla luce.
Partendo da una lettera di Plinio il Giovane (Ad familiares, VIII, 110) scritta intorno al 107, la prof. Piccalunga -Premio R. Pettazzoni per la “Storia delle Religioni” 1967- ha mostrato come allora i figli, sia quelli già nati, sia quelli che ancora dovevano nascere, erano considerati come proprietà esclusiva del padre e inoltre consentivano, se maschi, allo stesso l’accesso ad alcuni privilegi nella vita politica e sociale. All’epoca, quindi, l’aborto veniva sì punito per legge, ma solo nel caso delle matrone (cioè di donne sposate, libere dalla nascita e di condizione sociale elevata), quando rischiava di ledere la possibilità per il pater familias di ottenere questi privilegi.
Sarà solo con il cristianesimo, continua la storica,  che le cose cambieranno. Infatti, l’atteggiamento di Gesù verso i bambini è totalmente opposto, non è più un oggetto da usare o del materiale grezzo da formare, ma un esempio da imitare per entrare nel Regno dei Cieli (Mc 10, 13-16; Mt 19, 13-15; Lc 18, 15-17). Lo sguardo di Gesù verso i più deboli, «mutando radicalmente la valutazione morale, e quindi sociale dell’infanzia, non potrà non condizionare, ammorbidendola e trasformandola, anche quella del feto in gestazione».  Il feto umano quindi, «non sarà più considerato quale parte integrante del corpo della madre, e dunque lasciato in balia del suo arbitrio, ma, valutato in sé e per sé nella sua proiezione futura, apparirà a tutti gli effetti, potenzialmente, come essere umano, e perciò detentore di anima immortale, e quindi degno di essere tutelato nella sua integrità e rispettato nei suoi diritti», come registrato nel codice di Giustiniano.
Il filosofo Rémi Brague, specialista in filosofia greca, medievale araba ed ebraica e docente presso la Sorbona di Parigi e la Ludwig Maximilian University di Monaco, ha recentemente aggiunto che i cristiani hanno apportato «uno sguardo più acuto per discernere l’umanità laddove fino ad allora si faticava a scorgerla: nel bambino, nella donna, nello schiavo, nel barbaro, cioè il non greco (dal punto di vista dei Greci), nel “pagano” (dal punto di vista degli Ebrei)»Friedrich Nietzsche, nell’”Anticristo” accusò: «Il cristianesimo ha preso le parti di tutto quanto è debole, abietto, malriuscito» e «l’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto così assoluto, che non lo si potè più sacrificare».
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sabato 24 marzo 2012

Cristo realmente presente nella Santa Eucaristia (Contributi 603)

Ecco un articolo di Zenit che ci parla di un libro di don Mauro Gagliardi: "Introduzione al Mistero eucaristico":


Il Mistero eucaristico è la fonte e il culmine della vita e della missione della Chiesa. È questo il messaggio del nuovo libro di don Mauro Gagliardi, “Introduzione al Mistero eucaristico. Dottrina, liturgia, devozione”, delle Edizioni Lindau, nelle librerie da giovedì 22 marzo.
Attraverso un’analisi della dottrina magisteriale, della teologia sottesa alla sacra liturgia e al culto di devozione, fino ai più recenti documenti di Benedetto XVI,  l’autore traccia un esemplare profilo storico e teologico della fede nell’Eucaristia, indicando anche i sentieri per i quali dovrà camminare la Chiesa del futuro.
Il testo è una vera e propria “Storia dell’Eucaristia”, scritta in un linguaggio accessibile, per un pubblico anche di non specialisti, rigorosa nella documentazione e nell’analisi.
Si tratta di una nuova versione interamente riveduta e aggiornata da Don Gagliardi, dopo che la prima edizione di alcuni anni fa (Edizioni San Clemente, Roma, 2007), tuttora molto richiesta, è andata esaurita in pochi mesi, che vede anche la prefazione di Mons. Nicola Bux.
Il libro non affronta direttamente la questione dell’«ermeneutica della riforma», ossia del «rinnovamento nella continuità» della Chiesa, argomento su cui molto si è scritto e dibattuto dal 22 dicembre 2005, data del famoso discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana sulla ricezione del Concilio Vaticano II.
Esso rappresenta, piuttosto, un’applicazione fedele di tale principio allo studio del Sacramento dell’altare. La «storia dell’Eucaristia» che qui viene proposta, infatti, mostra il grande sviluppo della dottrina, della liturgia e della devozione eucaristiche, senza cogliere in esso nessun elemento di decadenza o di rottura rispetto a presunte epoche d'oro del primo millennio cristiano.
In particolare, questo saggio raccoglie, seleziona e ordina una grande mole di dati tratti dall’amplissima letteratura che esiste sull’argomento. Proposte quindi: la Sacra Scrittura; i Padri e Dottori; i documenti del Magistero ecclesiastico; i teologi delle diverse epoche, testi e riti della liturgia, le pratiche della devozione, l’esperienza dei santi, tutte componenti diverse, ma presentate in reciproca connessione.
Un modo, a detta dell’autore: “per far risplendere la bellezza della fede e del culto della Chiesa Cattolica riguardo al suo tesoro più prezioso: Cristo realmente presente nella Santissima Eucaristia”.
Don Mauro Gagliardi, dottore in teologia (Gregoriana, Roma 2002) e in filosofia (L’Orientale, Napoli 2008), nel 1999 è stato ordinato sacerdote nell’Arcidiocesi di Salerno, presso la quale ha svolto numerosi incarichi, tra cui quello di Segretario del Sinodo Diocesano.
Professore ordinario dell’Ateneo Pontificio «Regina Apostolorum», e professore incaricato presso l’Università Europea di Roma, ha pubblicato numerosi articoli in diverse lingue e molti libri, sia in qualità di autore che di curatore.
Nel 2008, Benedetto XVI lo ha nominato, inoltre, Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e, nel 2010, Consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
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venerdì 23 marzo 2012

Fare il cristianesimo nel web (Contributi 602)

Ritengo utile questa riflessione (datata 18 marzo 2012) di Don Gabriele Mangiarotti tratta dal sito Cultura Cattolica:

Ovunque volgiamo il nostro sguardo, quello che si nota con maggiore frequenza è la capacità pervasiva dei mezzi di comunicazione, tale che sembra sempre più diffondersi un tipo di pensiero non cristiano (e questo accade purtroppo anche per tanti che si dicono cristiani, come abbiamo mostrato a proposito, per esempio, di Enzo Bianchi e come su La Bussola Quotidiana ricorda il professor Livi).
Con il sito CulturaCattolica.it abbiamo documentato molte volte questa situazione drammatica, che ci ha fatto spesso parlare di “guerra” contro la fede, la cultura cattolica e la presenza della Chiesa nella società.
L’ultimo attacco, in ordine di tempo (ma su questo argomento siamo certi che non è possibile stare dietro a tutte le notizie) è la sentenza della Corte di Cassazione a proposito dei diritti alle coppie gay.
Riporto il lucido intervento del vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor Luigi Negri, che mette in chiaro i termini della questione.
«E’ una ferita mortale alla Costituzione, viene demolito ciò su cui la civiltà poggia da millenni. E’ una contraddizione logica e giuridica. Come può esserci vita familiare senza famiglia?». E’ profondamente turbato monsignor Luigi Negri, vescovo ciellino di San Marino-Montefeltro, commissario Cei per la Dottrina della fede e presidente della fondazione Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa. In cosa la Cassazione sbaglia? «E’ l’impostazione relativistica di chi confonde cose distinte. Si unifica tutto a livello neutrale ed è gravissimo che venga creata una figura inesistente nella Costituzione: la famiglia gay. L’amore di un uomo e una donna è il fondamento della vita umana, mentre le relazioni omosessuali contrastano con la legge morale naturale. Equiparare le unioni gay al matrimonio va contro valori basilari dell’umanità. La famiglia, cellula fondamentale di ogni società, è un bene troppo prezioso per esporla al rischio di pronunciamenti distruttivi e contrari all’etica».
Una coppia gay non può avere vita familiare? «E’ mistificatorio giocare con le parole. Come per il matrimonio tra omosessuali, anche per la famiglia gay si prendono i termini e si svuotano del loro significato reale. Questa sentenza scardina quanto di più necessario occorra alla società per non precipitare nel caos. E’ una pericolosa minaccia alla dignità umana e al futuro stesso dell’umanità. A pagare il prezzo più alto saranno i giovani. La famiglia fondata sul matrimonio uomo-donna non è una convenzione sociale». (Intervista di Giacomo Galeazzi su La Stampa di venerdì 16 marzo 2012)
Ora però ci chiediamo: “che fare?”
Ricordiamo quello che diceva il grande Péguy: “Questo mondo moderno non è solamente un mondo di cattivo cristianesimo, questo non sarebbe nulla, ma un mondo incristiano, scristianizzato. Ciò che è precisamente il disastro è che le nostre stesse miserie non sono più cristiane. C’era la cattiveria dei tempi anche sotto i Romani. Ma Gesù venne. Egli non perse i suoi anni a gemere ed interpellare la cattiveria dei tempi. Egli taglia corto. In un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Egli non si mise a incriminare, ad accusare qualcuno. Egli salvò. Non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo. [Charles Péguy, Veronique].
Fare il cristianesimo. Che cosa significa? Quali sono le caratteristiche della presenza cristiana oggi nel mondo? Ricordiamo questi due principi fondamentali:

- l’unità visibilmente espressa dei cristiani;
- il nesso con l’autorità della Chiesa.

Se questi sono i fondamenti, bisogna però rimboccarsi le maniche per impedire che il veleno del mondo ci contagi. L’antidoto al veleno c’è, ma viene spesso reso innocuo dal grave problema della comunicazione oggi.
“Fare il cristianesimo” significa anche questo: rendere possibile l’incontro con ogni giudizio che nasce dalla fede (Giovanni Paolo II diceva che se la fede non diventa cultura non è vissuta né pensata né accolta) e qui si colloca il grave e affascinante compito di chi usa i moderni mezzi della comunicazione.
La rete può fare quel servizio che rende più inoffensivo o meno offensivo il veleno del mondo. Basta saperla usare, secondo la sua dinamica specifica e originaria. E’ rete, trama di rapporti, suggerimento di siti, scambio di notizie: una relazione che mette insieme quelli che una volta si chiamavano gli “uomini di buona volontà”.
Guai a chi pensa che i propri visitatori vadano “tenuti” senza nessi, come in un recinto che non deve essere travalicato! Bisogna invece trovare il modo affinché crescano lo scambio e la comunicazione tra le realtà positive.
Quando gli oratori si concepivano come ambito “esauriente” della vita del giovane, il più delle volte, di fronte a momenti di crisi, perdevano la capacità di “tenere” e guidare i ragazzi. Riporto qui quanto diceva, anni fa, Don Giussani ai sacerdoti della Romagna: «Così come, se c’è un ragazzo che viene a scuola da me e non mi ascolta, perché gli sono antipatico, e a scuola di religione si tura le orecchie o studia latino (e io non ci posso far niente, perché, poniamo, finirei per inimicarmelo del tutto, e allora, un po’ discretamente, cerco di non farci caso), però ha in simpatia il vicario della sua parrocchia, va alla sua parrocchia, fa la Comunione alla sua parrocchia, va all’associazione della sua parrocchia e non aderisce al movimento cristiano che cerco di fare nella mia scuola, io dirò: «Meno male che va là». È la stessa cosa! L’umiliazione più grande di chi cerca di lavorare per il Regno di Dio, che è uno, di chi cerca di lavorare per il suo Vescovo (perché la Chiesa è nel Vescovo e stop), l’umiliazione più grande è quella di essere considerato dai propri confratelli un transfuga o un «sovvertitore di», oppure un individuo che tende a fare il suo proprio mondo e basta. Invece è lo stesso identico gesto! [Appunti da un intervento di Luigi Giussani su Gioventù Studentesca. Reggio Emilia, 1964]».
La gelosia o l’invidia tra i siti cattolici non solo è infondata e senza senso, è infeconda! 

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