Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

giovedì 28 marzo 2013

Omelia S.Messa del Crisma (Contributi 823)

Cari fratelli e sorelle, 
con gioia celebro la prima Messa Crismale come Vescovo di Roma. Vi saluto tutti con affetto, in particolare voi, cari sacerdoti, che oggi, come me, ricordate il giorno dell’Ordinazione. 
Le Letture, anche il Salmo, ci parlano degli “Unti”: il Servo di Javhè di Isaia, il re Davide e Gesù nostro Signore. I tre hanno in comune che l’unzione che ricevono è destinata a ungere il popolo fedele di Dio, di cui sono servitori; la loro unzione è per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi… Un’immagine molto bella di questo “essere per” del santo crisma è quella del Salmo 133: «È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste» (v. 2). L’immagine dell’olio che si sparge, che scende dalla barba di Aronne fino all’orlo delle sue vesti sacre, è immagine dell’unzione sacerdotale che per mezzo dell’Unto giunge fino ai confini dell’universo rappresentato nelle vesti. 
Le vesti sacre del Sommo Sacerdote sono ricche di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele impressi sopra le pietre di onice che adornavano le spalle dell’efod dal quale proviene la nostra attuale casula: sei sopra la pietra della spalla destra e sei sopra quella della spalla sinistra (cfr Es 28, 6-14). Anche nel pettorale erano incisi i nomi delle dodici tribù d’Israele (cfr Es 28,21). Ciò significa che il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti!. 
Dalla bellezza di quanto è liturgico, che non è semplice ornamento e gusto per i drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio che risplende nel suo popolo vivo e confortato, passiamo adesso a guardare all’azione. L’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge “le periferie”. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro. 
Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, “le periferie” dove il popolo fedele è più esposto all'invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede. La gente ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: “preghi per me, padre, perché ho questo problema”, “mi benedica, padre”, “preghi per me”, sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio. Quando siamo in questa relazione con Dio e con il suo Popolo e la grazia passa attraverso di noi, allora siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini. Ciò che intendo sottolineare è che dobbiamo ravvivare sempre la grazia e intuire in ogni richiesta, a volte inopportuna, a volte puramente materiale o addirittura banale - ma lo è solo apparentemente - il desiderio della nostra gente di essere unta con l’olio profumato, perché sa che noi lo abbiamo. Intuire e sentire, come sentì il Signore l’angoscia piena di speranza dell’emorroissa quando toccò il lembo del suo mantello. Questo momento di Gesù, in mezzo alla gente che lo circondava da tutti i lati, incarna tutta la bellezza di Aronne rivestito sacerdotalmente e con l’olio che scende sulle sue vesti. È una bellezza nascosta che risplende solo per quegli occhi pieni di fede della donna che soffriva perdite di sangue. Gli stessi discepoli – futuri sacerdoti – tuttavia non riescono a vedere, non comprendono: nella “periferia esistenziale” vedono solo la superficialità della moltitudine che si stringe da tutti i lati fino a soffocare Gesù (cfr Lc 8,42). Il Signore, al contrario, sente la forza dell’unzione divina che arriva ai bordi del suo mantello. 
Così bisogna uscire a sperimentare la nostra unzione, il suo potere e la sua efficacia redentrice: nelle “periferie” dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni. Non è precisamente nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente. 
Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” - questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà; però, se sappiamo infrangere la sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti. È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia appare chiaramente come pura grazia, in questo mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione - e non la funzione -, e risultano feconde le reti gettate unicamente nel nome di Colui del quale noi ci siamo fidati: Gesù. 
Cari fedeli, siate vicini ai vostri sacerdoti con l’affetto e con la preghiera perché siano sempre Pastori secondo il cuore di Dio. 
Cari sacerdoti, Dio Padre rinnovi in noi lo Spirito di Santità con cui siamo stati unti, lo rinnovi nel nostro cuore in modo tale che l’unzione giunga a tutti, anche alle “periferie”, là dove il nostro popolo fedele più lo attende ed apprezza. La nostra gente ci senta discepoli del Signore, senta che siamo rivestiti dei loro nomi, che non cerchiamo altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quest’olio di gioia che ci è venuto a portare Gesù, l’Unto. Amen
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mercoledì 27 marzo 2013

Il compagno di cammino (Contributi 822)

Un articolo di Vincent Nagle dal sito della Fraternità San Carlo 

Una delle parole che il nuovo Papa Francesco ha usato di più nei suoi primissimi discorsi, e che mi è rimasta subito in mente, è stata la parola “cammino”. Dal balcone sopra piazza San Pietro, quando lo abbiamo incontrato per la prima volta, ci ha detto: “E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo…”.
Anche nella sua prima omelia da Papa ci ha ripetuto questa parola. Ha detto: “Camminare: la nostra vita è un cammino e quando ci fermiamo, la cosa non va. Camminare sempre, in presenza del Signore, alla luce del Signore, cercando di vivere con quella irreprensibilità che Dio chiedeva ad Abramo, nella sua promessa”.
Questo “camminare in presenza del Signore” è proprio la pedagogia della Settimana Santa, che trova il suo apice nella vittoria di Cristo sulla morte, e ci orienta verso il nostro destino ultimo: sedere con Cristo alla destra del Padre. Non è casuale che questa settimana, la più ricca e significativa di tutto l’anno liturgico, cominci con una processione, un fisico camminare insieme nella Domenica delle Palme.
Più di una volta ho potuto assistere a questa grande processione della Domenica delle Palme in Terra Santa, partendo dalla Chiesa Francescana a Bètfage – paese indicato dal Vangelo di Marco come il posto dove Gesù inizio il suo percorso verso Gerusalemme su un puledro (Mc 11,1) – e arrivando nella città vecchia, nel cortile di una chiesa che sta appena fuori dal Haram Ash-Sharif, dove si collocava all'epoca il Tempio di Gerusalemme. È una processione piuttosto lunga e, se batte il sole, anche faticosa. Ma è allo stesso tempo una grande occasione di gioia e di unità per la comunità cristiana locale, che prende coraggio nel vedersi così numerosa insieme a molti pellegrini.
La bellezza di quest’evento annuale nella Terra Santa, tuttavia, non si colloca tanto nel trovarsi insieme, ma proprio nel camminare insieme col pastore del gregge, il Patriarca Latino di Gerusalemme. Senza di lui non sarebbe veramente un camminare insieme: è la sua presenza che esprime il motivo della nostra presenza. È lui che ripresenta e diviene segno speciale dell’unico uomo che ci rende tutti una “fratellanza”, come ha detto il Papa: Gesù, il Signore.
Questa è la grande lezione, perciò, della settimana santa, e, al fondo, di tutta la vita cristiana. È la presa di coscienza della compagnia dell’unica presenza che trasforma la nostra vita da una farsa o una tragedia in una avventura umana che vale la pena. Sì, la vita è un viaggio, ma è solo Lui, scoperto al nostro fianco, che ci offre la consapevolezza dello scopo, già intravisto, già incontrato, già presentito.
Mi è capitato, nella vita, di trovarmi di fronte una persona oppressa dal senso di sconfitta, e incapace di affrontare la fatica del cammino. Ciò che allora faccio è porgli questa domanda: se andassi in vacanza nel posto più bello del mondo, col cibo più buono, la salute migliore e le camere d’albergo più confortevoli, ma il tuo compagno di viaggio fosse la persona veramente sbagliata, come sarebbe? Brutto, no?
E se, invece, in un viaggio andasse tutto storto (coincidenze perse, posti deludenti, tempo orribile e un attacco di virus alla pancia), però lo facessi in compagnia di una persona amica, con cui è una gioia stare, come sarebbe? Una bella avventura complicata ma piena di risate, no? Ma allora è la compagnia che fa la vita, non la presenza o assenza di fatti sgradevoli.
Nel cammino di questa settimana santa, ci saranno momenti di grazia, di sublime condivisione e di amicizia da parte del Signore. Allo stesso tempo ci sarà il tradimento, il peccato, la paura, la tortura, il sangue e la morte. E poi ci sarà una gloria che ci fa stare a bocca aperta senza parole. Ma, innanzitutto, è un viaggio in cui prendiamo coscienza di qualcuno con cui vale la pena camminare, dovunque ci conduca questa strada; tanto che possiamo essere, con lui, già certi del destino. Come dice papa Francesco, è un cammino, un cammino di fratelli che hanno scoperto il loro destino comune nel compagno di viaggio che è il protagonista di tutti gli avvenimenti. 
Buona settimana santa.
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martedì 26 marzo 2013

”Speranza”, questa è la grande parola della Pasqua (Contributi 821)

Riporto da Tempi questa intervista al Card.Scola: 

Martedì 26 marzo, alle ore 20.45, Telenova (canale 14) trasmetterà l’intervista all'Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, realizzata da Marina Corradi, inviato di Avvenire. Nel dialogo, intitolato “Una speranza per tutti” il Cardinale affronta diversi temi. Innanzitutto la Pasqua e il suo significato. «La Pasqua ci introduce a questa esperienza di misericordia, di paternità che vince il nostro peccato, non perché lo elimina con un colpo di spugna, ma perché chiamando in gioco la nostra libertà, rispalanca le porte di casa – spiega l’Arcivescovo – Per questo abbiamo bisogno di rapporti stabili, organici, che ci diano sicurezza. Che ci diano speranza: ecco la grande parola della Pasqua». 


LA CROCE E LE FESSERIE. Il cardinale Angelo Scola affronta anche la questione del dolore e del peccato, invitando a guardare a Cristo in croce: «Perché il Crocifisso non ha fatto tante teorie sulla sofferenza, l’ha presa su di sé e l’ha portata fino in fondo aprendoci la strada. Di fronte alle prove più grandi, quando le nostre parole si spengono, quando uno giustamente deve stare zitto perché altrimenti direbbe solo delle fesserie», non resta che «contemplare l’Uomo della Croce che dal Venerdì Santo ci accompagna lungo tutta la storia. Ma l’ambito in cui guardare al Crocifisso è una compagnia amante, sono delle persone che vogliono solo il tuo bene non altro», chiarisce l’Arcivescovo. 

LA SITUAZIONE ITALIANA. Il cardinale Scola si sofferma poi sulla difficile situazione che attraversa il Paese: «Ci sono molte cose da correggere, soprattutto la questione del rapporto tra l’economia, la finanza, la finanza e la politica. La presente generazione è la prima che avrà di meno di quella precedente – osserva il Cardinale – Questo è già di per se stesso una tragedia, però ci sono molti segni vitali a tutti i livelli. Io li vedo girando in Diocesi. Bisogna guardare quei segni vitali e cercare di imparare». 

IL CONCLAVE. Venendo, infine, al recentissimo Conclave, l’Arcivescovo di Milano lo ricorda come «una prova spirituale straordinaria, che implica un grandissimo sacrificio interiore. È come se in quei giorni, prima nei colloqui tra noi Cardinali e nelle Congregazioni e poi nel Conclave in senso stretto, ognuno fosse messo a nudo di fronte a Dio. Quello che viene avanti è il motivo per cui siamo lì, siamo lì perché nonostante tutti i nostri limiti, Gesù possa essere posto come il fondamento della speranza per la nostra umanità. Allora tutto il resto si fa da parte». 

PAPA FRANCESCO. Il cardinale Scola esprime poi i propri sentimenti di gioia per la nomina di Papa Francesco: «Vogliamo dire al Santo Padre che gli siamo grati già per questi primi passi, siamo disponibili e vorremmo essere capaci di fare eco a questa grande speranza che ha suscitato in tutto il mondo e che è sotto i nostri occhi da quando è apparso per la prima volta». 
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lunedì 25 marzo 2013

Un frate salva l'Europa (Contributi 820)

Un'intervista di Rino Camilleri da La Bussola: 

Renzo Martinelli è l’unico regista italiano che abbia davvero il coraggio di andare controcorrente. E per «corrente» intendiamo il mainstream di pensiero che, quando non è marxista tout court, non riesce a uscire dalla vulgata politicamente corretta. In un cinema italiano che, dopo aver dato lezioni al mondo, si è immiserito nelle commediole, i cinepanettoni, l'immigrazionismo e l’agenda gay, Renzo Martinelli è quasi il solo che sia stato capace di misurarsi col genere epico. E storico, come il suo penultimo film Barbarossa con Rutger Hauer, incentrato sulla battaglia di Legnano. Con al suo attivo film di denuncia come Vajont, o la ricostruzione del sequestro Moro in Piazza delle Cinque Lune, la biografia di Carnera, o l’imbarazzante Porzûs (ricostruzione dell’eccidio della brigata partigiana Osoppo, di cui facevano parte il fratello di Pasolini e lo zio del cantautore De Gregori, per mano di partigiani stalinisti), Martinelli è rimasto colpito dal riaffacciarsi sulla scena mondiale del problema islamico e ha narrato ne Il mercante di pietre, con Harvey Keitel, la vicenda di un occidentale contemporaneo che si converte all'islam radicale e partecipa a un attentato. Ora ritorna sul tema del controverso rapporto con l’islam affondando il bisturi (anche se sarebbe meglio dire la cinepresa) nella storia europea con la sua ultima fatica, Undici settembre 1683, che sarà nelle sale in aprile. 


Martinelli, so che lei ha tre lauree ed è appassionato di storia. Perché ha deciso questa volta di inoltrarsi nel XVII secolo? 
 Ho voluto capire come mai Osama Bin Laden avesse scelto proprio un undici settembre per sferrare il suo attacco alla Grande Mela. 
Vienna, la capitale imperiale nel 1683, era per i musulmani la Mela d’Oro, e proprio col fallito assedio di Vienna da parte degli ottomani l’11 settembre di quell'anno comincia il declino della millenaria minaccia turca nei confronti dell’Occidente. In pochi anni, con una serie di folgoranti vittorie, il principe Eugenio di Savoia costringerà il sultano alla pace di Carlowitz e l’impero islamico inizierà il suo secolare arretramento, fino a sparire del tutto nel XX secolo. Ecco, sono convinto che Al Qaida abbia scelto l’11 settembre 2001 per attaccare di nuovo l’Occidente in quella che è la sua attuale capitale, New York, la nuova Mela. 

Centrale, nel film, la figura di un santo francescano, il beato Marco d’Aviano, interpretato da F. Murray Abraham. Era un cappuccino qualunque, anche se per i credenti era uno che faceva miracoli (guarigioni, profezie, bilocazioni…). Oggi nemmeno i cattolici conoscono il suo ruolo nella salvezza dell’Europa. Scommetto che è stata una sorpresa anche per lei.
Sarà una coincidenza, ma proprio nel 2001 sentii parlare per la prima volta di Marco d’Aviano. Doveva esserci la grande anteprima di uno dei miei film, Vajont, all’aperto. Ma si mise a piovere, scrosci d’acqua senza sosta. Rischiavamo un clamoroso flop. Una persona del luogo però mi disse di star tranquillo, perché avrebbe provveduto il «padre Marco», a cui vennero innalzate preghiere. Ebbene, proprio quando ormai ogni speranza era perduta, smise di piovere e potemmo proiettare col bel tempo. Fu così che decisi di informarmi su chi fosse questo «padre Marco».

Non era la prima volta che, nel disaccordo totale delle potenze europee, a salvare la civiltà cristiana doveva pensarci il papa. E sempre facendo ricorso a un francescano. Alla fine del XV secolo aveva mandato san Giovanni da Capestrano a liberare Belgrado dai turchi. Ora, mentre Luigi XIV di Francia trescava col sultano in funzione anti-imperiale, il cappuccino Marco d’Aviano, veneratissimo dal popolo, veniva inviato in soccorso all'imperatore Leopoldo, che già meditava di abbandonare Vienna. Fu lui, con la sua autorità morale, a mettere d’accordo i capi cristiani. 
Infatti, riuscì a fare accettare il condottiero polacco Jan Sobieski quale comandante supremo. Sobieski, con i suoi «ussari alati», calò dal monte Kahlemberg e, miracolosamente, mise in fuga i turchi. Poche decine di migliaia di combattenti cristiani contro un’armata di trecentomila musulmani. Il gran vizir Karà Mustafà, capo dell’esercito ottomano, ne pagò il fio: fu strangolato col rituale laccio di seta nera.

Paradossalmente, a quel lontano undici settembre dobbiamo i tradizionali cappuccino e cornetto delle nostre colazioni. Nell’immenso accampamento abbandonato da turchi, i viennesi trovarono moltissimi sacchi di caffè. Avendo finito il pane e rimasti solo con un po’ di pasta per dolci, foggiarono panini in forma di mezzaluna (croissant) per irridere il nemico, e li intinsero in quel caffè allungato col latte, il cui colore ricordava l’abito di chi li aveva salvati. 
Non dimentichiamo che scopo dichiarato dell’offensiva turca era, dopo aver preso Vienna, la stessa Roma. Come Santa Sofia di Costantinopoli era diventata una moschea, così doveva essere per San Pietro. Quella del 1683 doveva essere la jihad definitiva, che avrebbe vendicato la sconfitta di Lepanto nel secolo precedente.

Ci dica qualcosa sulla confezione del film. 
Si tratta di una produzione italo-polacca (i polacchi tengono molto alla vicenda narrata, visto il loro ruolo storico in essa) con partecipazione della Rai. Infatti, un film epico e di ricostruzione storica richiede ingenti investimenti. Alla sceneggiatura ha messo mano anche Valerio M. Manfredi, scrittore molto noto per i suoi romanzi storici. Undici settembre 1683 sarà nelle sale italiane l’11 aprile nella versione cinematografica. L’anno prossimo la versione estesa verrà trasmessa dalla Rai in due puntate.
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domenica 24 marzo 2013

Domenica delle Palme 24-mar-2013 (Angelus 127)

Cari fratelli e sorelle, 
al termine di questa celebrazione, invochiamo l’intercessione della Vergine Maria affinché ci accompagni nella Settimana Santa. Lei, che seguì con fede il suo Figlio fino al Calvario, ci aiuti a camminare dietro a Lui, portando con serenità e amore la sua Croce, per giungere alla gioia della Pasqua. La Vergine Addolorata sostenga specialmente chi sta vivendo situazioni più difficili. Un ricordo va alle persone affette da tubercolosi, poiché oggi ricorre la Giornata mondiale contro questa malattia. A Maria affido in particolare voi, carissimi giovani, e il vostro itinerario verso Rio de Janeiro. 
A luglio a Rio! Preparatevi spiritualmente il cuore. 
Buon cammino a tutti!
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Omelia Domenica delle Palme (Contributi 819)

1. Gesù entra in Gerusalemme. La folla dei discepoli lo accompagna in festa, i mantelli sono stesi davanti a Lui, si parla di prodigi che ha compiuto, un grido di lode si leva: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38). 
Folla, festa, lode, benedizione, pace: è un clima di gioia quello che si respira. Gesù ha risvegliato nel cuore tante speranze soprattutto tra la gente umile, semplice, povera, dimenticata, quella che non conta agli occhi del mondo. Lui ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima. 
Questo è Gesù. Questo è il suo cuore che guarda tutti noi, che guarda le nostre malattie, i nostri peccati. E’ grande l’amore di Gesù. E così entra in Gerusalemme con questo amore, e guarda tutti noi. E’ una scena bella: piena di luce - la luce dell’amore di Gesù, quello del suo cuore - di gioia, di festa. 
All'inizio della Messa l’abbiamo ripetuta anche noi. Abbiamo agitato le nostre palme. Anche noi abbiamo accolto Gesù; anche noi abbiamo espresso la gioia di accompagnarlo, di saperlo vicino, presente in noi e in mezzo a noi, come un amico, come un fratello, anche come re, cioè come faro luminoso della nostra vita. Gesù è Dio, ma si è abbassato a camminare con noi. E’ il nostro amico, il nostro fratello. Qui ci illumina nel cammino. E così oggi lo abbiamo accolto. E questa è la prima parola che vorrei dirvi: gioia! Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall'aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù 

2. Seconda parola. Perché Gesù entra in Gerusalemme, o forse meglio: come entra Gesù in Gerusalemme? La folla lo acclama come Re. E Lui non si oppone, non la fa tacere (cfr Lc 19,39-40). Ma che tipo di Re è Gesù? Guardiamolo: cavalca un puledro, non ha una corte che lo segue, non è circondato da un esercito simbolo di forza. Chi lo accoglie è gente umile, semplice, che ha il senso di guardare in Gesù qualcosa di più; ha quel senso della fede, che dice: Questo è il Salvatore. Gesù non entra nella Città Santa per ricevere gli onori riservati ai re terreni, a chi ha potere, a chi domina; entra per essere flagellato, insultato e oltraggiato, come preannuncia Isaia nella Prima Lettura (cfr Is 50,6); entra per ricevere una corona di spine, un bastone, un mantello di porpora, la sua regalità sarà oggetto di derisione; entra per salire il Calvario carico di un legno. E allora ecco la seconda parola: Croce. Gesù entra a Gerusalemme per morire sulla Croce. Ed è proprio qui che splende il suo essere Re secondo Dio: il suo trono regale è il legno della Croce! Penso a quello che Benedetto XVI diceva ai Cardinali: Voi siete principi, ma di un Re crocifisso. Quello è il trono di Gesù. Gesù prende su di sé... Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all'umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole, sete di denaro, che poi nessuno può portare con sé, deve lasciarlo. Mia nonna diceva a noi bambini: il sudario non ha tasche. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche - ciascuno di noi lo sa e lo conosce - i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della sua morte. 

3. Oggi in questa Piazza ci sono tanti giovani: da 28 anni la Domenica delle Palme è la Giornata della Gioventù! Ecco la terza parola: giovani! Cari giovani, vi ho visto nella processione, quando entravate; vi immagino a fare festa intorno a Gesù, agitando i rami d’ulivo; vi immagino mentre gridate il suo nome ed esprimete la vostra gioia di essere con Lui! Voi avete una parte importante nella festa della fede! Voi ci portate la gioia della fede e ci dite che dobbiamo vivere la fede con un cuore giovane, sempre: un cuore giovane, anche a settanta, ottant'anni! Cuore giovane! Con Cristo il cuore non invecchia mai! Però tutti noi lo sappiamo e voi lo sapete bene che il Re che seguiamo e che ci accompagna è molto speciale: è un Re che ama fino alla croce e che ci insegna a servire, ad amare. E voi non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé, nel dono di sé, nell'uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio Lui ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all'invito di Gesù «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (cfr Mt 28,19), che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace. Cari amici, anch'io mi metto in cammino con voi, da oggi, sulle orme del beato Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ormai siamo vicini alla prossima tappa di questo grande pellegrinaggio della Croce. Guardo con gioia al prossimo luglio, a Rio de Janeiro! Vi do appuntamento in quella grande città del Brasile! Preparatevi bene, soprattutto spiritualmente nelle vostre comunità, perché quell'Incontro sia un segno di fede per il mondo intero. I giovani devono dire al mondo: è buono seguire Gesù; è buono andare con Gesù; è buono il messaggio di Gesù; è buono uscire da se stessi, alle periferie del mondo e dell’esistenza per portare Gesù! Tre parole: gioia, croce, giovani.

Chiediamo l’intercessione della Vergine Maria. Lei ci insegna la gioia dell’incontro con Cristo, l’amore con cui lo dobbiamo guardare sotto la croce, l’entusiasmo del cuore giovane con cui lo dobbiamo seguire in questa Settimana Santa e in tutta la nostra vita. Così sia. 
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giovedì 21 marzo 2013

La gioia di Giuseppe (Contributi 818)

Un articolo di Jonah Lynch dal sito della Fraternità San Carlo: 

La nostra gioia è la gioia di Giuseppe. Lui viveva come ogni uomo giusto, illuminato da pochi bagliori di luce (per lo più incomprensibili), e continuava malgrado l’oscurità a fare il suo lavoro, a provvedere a Gesù e Maria, ad avere fede e speranza, a rinunciare all'affetto tutto umano e giusto per una verginità non scelta, non compresa, anzi inaudita! Tutto ciò faceva nella fede, sostenuta dallo sguardo di amore della sua Amata, che non toglieva il dolore del momento, ma lo riempiva di speranza. Ci sono anche momenti di celeste gioia sulla terra, dove si vede e si tocca la vittoria di Dio. Ma la gioia di Giuseppe, e la nostra, è più la gioia di chi torna da Dio, da Maria, di chi dubita e poi chiede perdono. La gioia è sotto, dentro quella sofferenza che brama l’unità totale, perché affida sempre nuovamente quella totalità nelle mani di chi la può compiere. La nostra croce ha sempre la possibilità dell’offerta, e questa la rende gioia. 
Se penso a Giuseppe nella tranquillità di un giorno qualunque durante l’adolescenza di Gesù – i tormenti dell’infanzia passati, il lavoro che va bene, l’unità di cui gode con la sposa e il figlio – penso che pur nella pace assoluta che quei giorni nascosti dovevano essere, lui non abbia dimenticato il caro prezzo pagato dagli innocenti e dalle loro madri. Non ha dimenticato la profezia strana detta nel tempio a sua moglie – «Una spada ti trafiggerà l’anima» – e non ha dimenticato i tre giorni di angoscia nella ricerca del figlio dodicenne, che poi ritrovato nel tempio non lo confortò in alcun modo ma quasi sembrava rimproverarlo. 
Qual è la gioia che non dimentica tutto questo e rimane gioia? 
Solo la fede può accogliere tutto ciò nel silenzio, continuamente richiamato dall'esaltazione e dalla tristezza all'umiltà e povertà del pellegrino. 
È appunto in questo pellegrinaggio che la gioia ci è possibile.
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mercoledì 20 marzo 2013

La penitenza non è condanna ma nuova speranza (Contributi 817)

Un articolo sulla confessione di padre Aldo Trento da Tempi: 


Mentre mi trovavo in Italia, volendo confessarmi, ho chiesto agli amici della Brianza se ci fosse un prete disponibile, magari anziano. Così mi hanno portato da don Pasquale. «Chi è don Pasquale?», ho domandato. E mi è stato risposto che è un sacerdote sugli 80 anni, che vive a Bernareggio e dice Messa ogni giorno nella parrocchia di Concorezzo (MB). Perché parlare di lui? Incontrandolo sono stato colpito dalla sua integrità di uomo tutto poggiato sulla santissima fede. Chi lo conosce da tempo mi ha raccontato che «Guardandolo agire e parlare emerge il fatto che la sua fede vissuta, la sua forte cattolicità ti mostra come sa forgiare la statura della personalità umana. Vedi in lui un realismo sano e positivo che non si basa su un non ben definito ottimismo ma sulla certezza del fatto di Cristo, della sua presenza e della sua azione contemporanea che avviene sempre nel presente». E ancora, «Don Pasquale conosce molto bene la storia della Chiesa e dei suoi Santi e la sa comunicare in modo incisivo ed essenziale facendoti vedere come Dio dentro le diverse vicende storiche agisca attraverso il temperamento e la precisa personalità di coloro che Egli chiama e che si lasciano afferrare, riconoscendolo come Signore, cioè Padrone di tutto ciò che esiste. Particolarmente si rendono evidenti in lui l’interesse e la passione singolare per la storia della presenza cristiana “milanese”: nulla sfugge al “don” su questo terreno. Ti fa capire che tu sei parte e protagonista dell’azione di Cristo oggi, proprio in questa terra ben precisa. Citando i grandi vescovi di Milano un giorno ci ha riferito che mai, come è accaduto ai tempi di Sant'Ambrogio, la Chiesa diede forma a tante opere di carità come gli ospedali, l’assistenza ai bisognosi, le opportunità di lavoro e tante altre ancora. Eppure, disse don Pasquale, “Leggendo le omelie di Ambrogio si scopre che l’unico contenuto delle sue prediche era il suo personale rapporto con Gesù, il fascino, la bellezza e la verità che Cristo è per ogni uomo e lo stupore per quanto Dio ami il destino di ognuno. Non si scova una sola esortazione al popolo milanese a darsi da fare per fare opere di carità”». «Pasquale ci ha fatto così ricapire che in prima istanza c’è la risposta alla domanda “chi sono io?”, c’è l’accorgersi della persona di Gesù, c’è lo scoprirlo e il guardarlo negli occhi. Il resto, le opere sociali e caritatevoli e pure quelle politiche, sono una conseguenza dell’impeto generativo che nasce dal riconoscere Dio fatto uomo».
Interessante, ho pensato; poi, sempre gli amici che lo frequentano, hanno aggiunto: «Don Pasquale dopo la Messa è solito ritrovarsi con semplicità e amicizia con alcuni dei partecipanti per un caffè. Prima però, in chiesa davanti alla statua della Madonna recita con chi vuole il rosario, parla del Santo del giorno e dà un giudizio sulle vicende sociali e politiche che accadono, un aiuto a tutti per districarsi dalla confusione odierna che regna indisturbata. Vedi che per lui la fede non sono i “massimi sistemi”, ma sa giudicare e orientare l’orizzonte vero della vita di oggi».
Recentemente don Pasquale ha detto: «È da molto tempo che la Chiesa milanese non genera dei santi» e a questo proposito si è dichiarato molto contento del fatto che si sia avviata la causa di beatificazione di don Luigi Giussani. Per lui è un segno e un grande dono dello Spirito per tutta la Chiesa milanese, universale e per il mondo intero. Quando poi mi sono confessato mi ha commosso la sua modalità di rapportarsi a me peccatore e mi ha sorpreso la “penitenza” che mi ha assegnato. Don Pasquale mi ha detto di pregare per questi tre motivi: 1) Perché il movimento di Cl rimanga fedele all'origine del suo carisma. 2) Perché si realizzi al più presto la causa di beatificazione di don Giussani per il bene di tutta la Santa Chiesa. 3) Perché la fraternità “San Carlo” (un gruppo di sacerdoti missionari che vivono la vita comune in case chiamate “missioni” sparse in tutto il mondo), realizzi sempre più il motivo per cui è nata.
Mi sono sentito abbracciato e mi sono stupito della coscienza e della consapevolezza di questo anziano sacerdote che senza quasi conoscermi ha saputo leggere così intelligentemente l’umanità della mia persona. Ho chiesto poi a Don Pasquale cosa significhi per lui obbedire, cos’è l’obbedienza e mi ha risposto così: «Essendo “innamorati” di Cristo noi siamo sempre servi obbedienti, (il Vangelo dice “inutili” ), anche se non siamo né sordi né muti…».
Pieno di gratitudine verso il Mistero che non smette mai di mostrarsi alla mia vita con la sua sapienza e misericordia ho salutato con gratitudine don Pasquale. Spero di confessarmi ancora da lui, un prete veramente cattolico, cioè un uomo vero.
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martedì 19 marzo 2013

Omelia Santa Messa per l'inizio del Ministero del Sommo Pontefice Francesco 19/3/2013 (Contributi 816)

Cari fratelli e sorelle! 
Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza. 
Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico. 
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all'educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1). 
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all'episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l'amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazareth, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù. 
Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall'uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato! 
La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio! 
E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna. 
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza! 
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all'altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza! 
Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull'amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire! 
Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio. 
Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato! 
Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! Amen.
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domenica 17 marzo 2013

Domenica 5^ Quaresima 17-mar-2013 (Angelus 126)

“Dio non si stanca mai di perdonarci”
Fratelli e sorelle, buongiorno! 
Dopo il primo incontro di mercoledì scorso, oggi posso rivolgere di nuovo il mio saluto a tutti! E sono felice di farlo di domenica, nel giorno del Signore! Questo è bello è importante per noi cristiani: incontrarci di domenica, salutarci, parlarci come ora qui, nella piazza. Una piazza che, grazie ai media, ha le dimensioni del mondo. 
In questa quinta domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenta l’episodio della donna adultera (cfr Gv 8,1-11), che Gesù salva dalla condanna a morte. Colpisce l’atteggiamento di Gesù: non sentiamo parole di disprezzo, non sentiamo parole di condanna, ma soltanto parole di amore, di misericordia, che invitano alla conversione. “Neanche io ti condanno: va e d’ora in poi non peccare più!” (v. 11). Eh!, fratelli e sorelle, il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito. “Grande è la misericordia del Signore”, dice il Salmo. 
In questi giorni, ho potuto leggere un libro di un Cardinale – il Cardinale Kasper, un teologo in gamba, un buon teologo – sulla misericordia. E mi ha fatto tanto bene, quel libro, ma non crediate che faccia pubblicità ai libri dei miei cardinali! Non è così! Ma mi ha fatto tanto bene, tanto bene … Il Cardinale Kasper diceva che sentire misericordia, questa parola cambia tutto. E’ il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo. Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza … Ricordiamo il profeta Isaia, che afferma che anche se i nostri peccati fossero rossi scarlatti, l’amore di Dio li renderà bianchi come la neve. E’ bello, quello della misericordia! Ricordo, appena Vescovo, nell'anno 1992, è arrivata a Buenos Aires la Madonna di Fatima e si è fatta una grande Messa per gli ammalati. Io sono andato a confessare, a quella Messa. E quasi alla fine della Messa mi sono alzato, perché dovevo amministrare una cresima. E’ venuta da me una donna anziana, umile, molto umile, ultraottantenne. Io l’ho guardata e le ho detto: “Nonna – perché da noi si dice così agli anziani: nonna – lei vuole confessarsi?”. “Sì”, mi ha detto. “Ma se lei non ha peccato …”. E lei mi ha detto: “Tutti abbiamo peccati …”. “Ma forse il Signore non li perdona …”. “Il Signore perdona tutto”, mi ha detto: sicura. “Ma come lo sa, lei, signora?”. “Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe”. Io ho sentito una voglia di domandarle: “Mi dica, signora, lei ha studiato alla Gregoriana?”, perché quella è la sapienza che dà lo Spirito Santo: la sapienza interiore verso la misericordia di Dio. Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci, mai! “Eh, padre, qual è il problema?”. Eh, il problema è che noi ci stanchiamo, noi non vogliamo, ci stanchiamo di chiedere perdono. Lui mai si stanca di perdonare, ma noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono. Non ci stanchiamo mai, non ci stanchiamo mai! Lui è il Padre amoroso che sempre perdona, che ha quel cuore di misericordia per tutti noi. E anche noi impariamo ad essere misericordiosi con tutti. Invochiamo l’intercessione della Madonna che ha avuto tra le sue braccia la Misericordia di Dio fatta uomo. 
Adesso tutti insieme preghiamo l’Angelus:

[preghiera dell’Angelus]
Rivolgo un cordiale saluto a tutti i pellegrini. Grazie della vostra accoglienza e delle vostre preghiere. Pregate per me, ve lo chiedo. Rinnovo il mio abbraccio ai fedeli di Roma e lo estendo a tutti voi, e lo estendo a tutti voi, che venite da varie parti dell’Italia e del mondo, come pure a quanti sono uniti a noi attraverso i mezzi di comunicazione. Ho scelto il nome del Patrono d’Italia, San Francesco d’Assisi, e ciò rafforza il mio legame spirituale con questa terra, dove – come sapete – sono le origini della mia famiglia. Ma Gesù ci ha chiamati a far parte di una nuova famiglia: la sua Chiesa, in questa famiglia di Dio, camminando insieme sulla via del Vangelo. Che il Signore vi benedica, che la Madonna vi custodisca. Non dimenticate questo: il Signore mai si stanca di perdonare! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere il perdono. Buona domenica e buon pranzo!

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venerdì 15 marzo 2013

Udienza a tutti i Cardinali 15/3/2013 (Contributi 815)

Sala Clementina 

Fratelli Cardinali, 
Questo periodo dedicato al Conclave è stato carico di significato non solo per il Collegio Cardinalizio, ma anche per tutti i fedeli. In questi giorni abbiamo avvertito quasi sensibilmente l’affetto e la solidarietà della Chiesa universale, come anche l’attenzione di tante persone che, pur non condividendo la nostra fede, guardano con rispetto e ammirazione alla Chiesa e alla Santa Sede. Da ogni angolo della terra si è innalzata fervida e corale la preghiera del Popolo cristiano per il nuovo Papa, e carico di emozione è stato il mio primo incontro con la folla assiepata in Piazza San Pietro. Con quella suggestiva immagine del popolo orante e gioioso ancora impressa nella mia mente, desidero manifestare la mia sincera riconoscenza ai Vescovi, ai sacerdoti, alle persone consacrate, ai giovani, alle famiglie, agli anziani per la loro vicinanza spirituale, così toccante e fervorosa. 
Sento il bisogno di esprimere la mia più viva e profonda gratitudine a tutti voi, venerati e cari Fratelli Cardinali, per la sollecita collaborazione alla conduzione della Chiesa durante la Sede Vacante. Rivolgo a ciascuno un cordiale saluto, ad iniziare dal Decano del Collegio Cardinalizio, il Signor Cardinale Angelo Sodano, che ringrazio per le espressioni di devozione e per i fervidi auguri che mi ha rivolto a nome vostro. Con lui ringrazio il Signor Cardinale Tarcisio Bertone, Camerlengo di Santa Romana Chiesa, per la sua premurosa opera in questa delicata fase di transizione, e anche al carissimo Cardinale Giovanni Battista Re, che ha fatto da nostro capo nel Conclave: grazie tante! Il mio pensiero va con particolare affetto ai venerati Cardinali che, a causa dell’età o della malattia, hanno assicurato la loro partecipazione e il loro amore alla Chiesa attraverso l’offerta della sofferenza e della preghiera. E vorrei dirvi che l’altro ieri il Cardinale Mejia ha avuto un infarto cardiaco: è ricoverato alla Pio XI. Ma si crede che la sua salute sia stabile, e ci ha mandato i suoi saluti. 
Non può mancare il mio grazie anche a quanti, nelle diverse mansioni, si sono adoperati attivamente nella preparazione e nello svolgimento del Conclave, favorendo la sicurezza e la tranquillità dei Cardinali in questo periodo così importante per la vita della Chiesa. 
Un pensiero colmo di grande affetto e di profonda gratitudine rivolgo al mio venerato Predecessore Benedetto XVI, che in questi anni di Pontificato ha arricchito e rinvigorito la Chiesa con il Suo magistero, la Sua bontà, la Sua guida, la Sua fede, la Sua umiltà e la Sua mitezza. Rimarranno un patrimonio spirituale per tutti! Il ministero petrino, vissuto con totale dedizione, ha avuto in Lui un interprete sapiente e umile, con lo sguardo sempre fisso a Cristo, Cristo risorto, presente e vivo nell'Eucaristia. Lo accompagneranno sempre la nostra fervida preghiera, il nostro incessante ricordo, la nostra imperitura e affettuosa riconoscenza. Sentiamo che Benedetto XVI ha acceso nel profondo dei nostri cuori una fiamma: essa continuerà ad ardere perché sarà alimentata dalla Sua preghiera, che sosterrà ancora la Chiesa nel suo cammino spirituale e missionario. 
Cari Fratelli Cardinali, questo nostro incontro vuol’essere quasi un prolungamento dell’intensa comunione ecclesiale sperimentata in questo periodo. Animati da profondo senso di responsabilità e sorretti da un grande amore per Cristo e per la Chiesa, abbiamo pregato insieme, condividendo fraternamente i nostri sentimenti, le nostre esperienze e riflessioni. In questo clima di grande cordialità è così cresciuta la reciproca conoscenza e la mutua apertura; e questo è buono, perché noi siamo fratelli. Qualcuno mi diceva: i Cardinali sono i preti del Santo Padre. Quella comunità, quell'amicizia, quella vicinanza ci farà bene a tutti. E questa conoscenza e questa mutua apertura ci hanno facilitato la docilità all'azione dello Spirito Santo. Egli, il Paraclito, è il supremo protagonista di ogni iniziativa e manifestazione di fede. E’ curioso: a me fa pensare, questo. Il Paraclito fa tutte le differenze nelle Chiese, e sembra che sia un apostolo di Babele. Ma dall’altra parte, è Colui che fa l’unità di queste differenze, non nella “ugualità”, ma nell’armonia. Io ricordo quel Padre della Chiesa che lo definiva così: “Ipse harmonia est”. Il Paraclito che dà a ciascuno di noi carismi diversi, ci unisce in questa comunità di Chiesa, che adora il Padre, il Figlio e Lui, lo Spirito Santo. 
Proprio partendo dall'autentico affetto collegiale che unisce il Collegio Cardinalizio, esprimo la mia volontà di servire il Vangelo con rinnovato amore, aiutando la Chiesa a diventare sempre più in Cristo e con Cristo, la vite feconda del Signore. Stimolati anche dalla celebrazione dell’Anno della fede, tutti insieme, Pastori e fedeli, ci sforzeremo di rispondere fedelmente alla missione di sempre: portare Gesù Cristo all’uomo e condurre l’uomo all’incontro con Gesù Cristo Via, Verità e Vita, realmente presente nella Chiesa e contemporaneo in ogni uomo. Tale incontro porta a diventare uomini nuovi nel mistero della Grazia, suscitando nell’animo quella gioia cristiana che costituisce il centuplo donato da Cristo a chi lo accoglie nella propria esistenza. 
Come ci ha ricordato tante volte nei suoi insegnamenti e, da ultimo, con quel gesto coraggioso e umile, il Papa Benedetto XVI, è Cristo che guida la Chiesa per mezzo del suo Spirito. Lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa con la sua forza vivificante e unificante: di molti fa un corpo solo, il Corpo mistico di Cristo. Non cediamo mai al pessimismo, a quell'amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno; non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento: abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra (cfr At 1,8). La verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi come lo fu all'inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande espansione missionaria del Vangelo. 
Cari Fratelli, forza! La metà di noi siamo in età avanzata: la vecchiaia è – mi piace dirlo così – la sede della sapienza della vita. I vecchi hanno la sapienza di avere camminato nella vita, come il vecchio Simeone, la vecchia Anna al Tempio. E proprio quella sapienza ha fatto loro riconoscere Gesù. Doniamo questa sapienza ai giovani: come il buon vino, che con gli anni diventa più buono, doniamo ai giovani la sapienza della vita. Mi viene in mente quello che un poeta tedesco diceva della vecchiaia: “Es ist ruhig, das Alter, und fromm”: è il tempo della tranquillità e della preghiera. E anche di dare ai giovani questa saggezza. Tornerete ora nelle rispettive sedi per continuare il vostro ministero, arricchiti dall'esperienza di questi giorni, così carichi di fede e di comunione ecclesiale. Tale esperienza unica e incomparabile, ci ha permesso di cogliere in profondità tutta la bellezza della realtà ecclesiale, che è un riverbero del fulgore di Cristo Risorto: un giorno guarderemo quel volto bellissimo del Cristo Risorto! 
Alla potente intercessione di Maria, nostra Madre, Madre della Chiesa, affido il mio ministero e il vostro ministero. Sotto il suo sguardo materno, ciascuno di noi possa camminare lieto e docile alla voce del suo Figlio divino, rafforzando l’unità, perseverando concordemente nella preghiera e testimoniando la genuina fede nella presenza continua del Signore. Con questi sentimenti – sono veri! – con questi sentimenti, vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica, che estendo ai vostri collaboratori e alle persone affidate alla vostra cura pastorale.
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Omelia 13/3/2013 (Contributi 814)

SANTA MESSA CON I CARDINALI 

In queste tre Letture vedo che c’è qualcosa di comune: è il movimento. Nella Prima Lettura il movimento nel cammino; nella Seconda Lettura, il movimento nell'edificazione della Chiesa; nella terza, nel Vangelo, il movimento nella confessione. Camminare, edificare, confessare. 
Camminare. «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2,5). Questa è la prima cosa che Dio ha detto ad Abramo: Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile. Camminare: la nostra vita è un cammino e quando ci fermiamo, la cosa non va. Camminare sempre, in presenza del Signore, alla luce del Signore, cercando di vivere con quella irreprensibilità che Dio chiedeva ad Abramo, nella sua promessa. 
Edificare. Edificare la Chiesa. Si parla di pietre: le pietre hanno consistenza; ma pietre vive, pietre unte dallo Spirito Santo. Edificare la Chiesa, la Sposa di Cristo, su quella pietra angolare che è lo stesso Signore. Ecco un altro movimento della nostra vita: edificare. 
Terzo, confessare. Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio. 
Camminare, edificare-costruire, confessare. Ma la cosa non è così facile, perché nel camminare, nel costruire, nel confessare, a volte ci sono scosse, ci sono movimenti che non sono proprio movimenti del cammino: sono movimenti che ci tirano indietro. **** Questo Vangelo prosegue con una situazione speciale. Lo stesso Pietro che ha confessato Gesù Cristo, gli dice: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo. Io ti seguo, ma non parliamo di Croce. Questo non c’entra. Ti seguo con altre possibilità, senza la Croce. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore. 
Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, abbiamo il coraggio, proprio il coraggio, di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti. 
Io auguro a tutti noi che lo Spirito Santo, per la preghiera della Madonna, nostra Madre, ci conceda questa grazia: camminare, edificare, confessare Gesù Cristo Crocifisso. Così sia.
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mercoledì 13 marzo 2013

Aldo Trento, Rodrigo e Lilly (Interventi 162)

In ritardo forse e non di piena attualità, ma le parole di Padre Aldo Trento dal Paraguay non credo siano soggette a scadenza... 

Cari amici, 
da tempo Carrón ci sta provocando con la domanda di Pavese: "Per caso qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora, perché attendiamo?" 
Passando ogni giorno tra i miei figli malati terminali la sfida di questo scrittore che mi ha sempre affascinato mi accompagna, risvegliando in me un potente desiderio di Infinito. Guardando quei letti bianchi, ben ordinati, penso ai corpi martoriati che vi stanno coricati. Ogni letto conserva, come il Tabernacolo Eucaristico, un Gesù con le membra piene di croste o putrefatte. 
Penso a Rodrigo, un uomo grande, arrivato da poco dall'Ospedale Nazionale dei Tumori. Il suo viso sfigurato da un cancro. Un giorno lo visito e vedo la bella e giovane infermiera Lilly al suo capezzale: "Padre, per favore, vieni qui, vicino a me." Sono rimasto scioccato: con una pinza gli stava togliendo un centinaio di vermi che, grazie a un farmaco spray, spruzzato sulla garza che copriva il lato sinistro del viso, marcio, uscivano dal naso, dalle orecchie, dalla bocca, eccetera.. 
Per giorni è stato il lavoro principale delle infermiere. Guardando questo tabernacolo dello Spirito Santo soffrire e che, con l'unico occhio che aveva sano -il destro- mi guardava come chiedendo aiuto, sentivo crescere in me la domanda: a cosa servirà la vita? Perché tanto soffrire? Perché i poveri devono marcire per la malattia senza che nessuno li aiuti? Tuttavia, che senso di gratitudine verso il Signore che mi dà la grazia di condividere questo dolore che in ogni istante sveglia in me la coscienza che, tanto Rodrigo quanto me, siamo fatti per l'Infinito. 
La notte in cui è morto non c'era con lui nessun parente. Sono rimasto lì, in compagnia di un'infermiera, accarezzandolo mentre lottava con la morte. Il suo respiro era affannoso, come se l'anima volesse uscire per raggiungere il suo destino amoroso, mentre il corpo voleva ancora tenerla legata a sé. 
Alla fine ha vinto l'anima, non la morte, ed è rimasto il corpo di Cristo martirizzato. 
L’abbiamo baciato e l’abbiamo portato all'obitorio, dove il giorno dopo è stata celebrata la funzione funebre. Il suo viso, la parte sana, esprimeva una profonda pace. 
L’ho guardato a lungo, seduto al suo fianco e pregando per lui, certo che Qualcuno ci ha promesso qualcosa e per questo esiste questa clinica. Per questo il mio unico desiderio è condividere con loro il dolore e anche, quando Dio lo vorrà, la morte. Molte volte, nelle ore della notte, quando tutto è tranquillo, amo rimanere in silenzio, di fianco al cadavere coperto con un bel lenzuolo, pregando e contemplando il miracolo della Resurrezione. Un tempo avrei avuto paura, ora è uno dei momenti più belli del giorno, perché mi rimette alla ragione unica per la quale vale la pena di vivere. In realtà credo che accompagnare Cristo a morire sia il compito più importante della mia vita e soprattutto il Cristo delle favelas che arriva qua distrutto sia moralmente che fisicamente. 
Ognuno è come il servo di Javhè del quale parla Isaia: non ha né fama né bellezza. Ma è Gesù e allora, come non abbracciarlo, non baciarlo? 
Amici, pregate per me, affinché il mio sguardo sia lo sguardo di Cristo, come quello dell'infermiera Lilly che toglieva i vermi a Rodrigo con tanta tenerezza. 
Con affetto, 
P. Aldo 
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Le prime parole di Papa Francesco

«Fratelli e sorelle, buonasera. Sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo. Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo. Prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito, Benedetto XVI, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca». 
 Poi papa Francesco recita il Padre nostro e l’Ave Maria e il Gloria al Padre. 
«E adesso cominciamo questo cammino la Chiesa di Roma. Preghiamo sempre per noi l’uno per l’altro, per tutto il mondo perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo – e mi aiuterà mia cardinale vicario qui presente – sia fruttuoso per evangelizzazione di questa bella città. E adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore, che voi preghiate Dio di benedire il vostro vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me». 
Dopo la Benedizione ha proseguito: 
«Vi lascio, grazie per l’accoglienza. A resto ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna. Buonanotte e buon riposo».
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Il sacrificio di Abramo (Contributi 813)

Vi propongo questo testo di Mons.Camisasca, Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla: 


Il posto che ciascuno occuperà nella storia del mondo è deciso da Dio e non da noi. E quello che Dio decide è la modalità più sicura della fecondità della nostra vita. Ciò è molto paradossale, ma può essere illuminato pensando alla figura di Abramo e al sacrificio che Dio gli chiede, raccontato nel capitolo XXII della Genesi. Dio chiede ad Abramo che la promessa di una generazione “più numerosa delle stelle del cielo” passi attraverso il sacrificio dell’unico figlio: questo è il paradosso estremo, che contiene in sé tutti gli altri attraverso cui Dio fa passare gli uomini. Dio in realtà non domanda ad Abramo di uccidere Isacco, ma gli chiede la disponibilità del figlio, cioè che per il figlio si compia ciò che vuole Lui e non ciò che vuole Abramo. Nel cuore dell’uomo abita la tentazione irresistibile di impadronirsi di ciò che Dio gli regala. Isacco rappresentava per Abramo una promessa, e questo contenuto di promessa era entrato nella psicologia di Abramo. Un figlio atteso per decenni che, alla fine, nasce: la tentazione di considerare quel figlio proprietà esclusiva è immensa. Più in generale: quando si ha dovuto patire tanto per avere una determinata cosa, come è possibile vivere il distacco da essa? 
Il distacco. Questo è l’insegnamento che Dio ha voluto dare ad Abramo, in linea con tutto l’insegnamento che Dio ha dato a Israele. Il disegno di Dio, che è universale, e quindi si serve di tutto, ha uno scopo ben preciso, che è educare la persona. Educarla, cioè distaccarla dall'idolatria e dalla forma più sottile di idolatria che non è adorare l’idolo, ma è adorare come idolo ciò che Dio ci ha dato. La profondità dell’idolatria sta nel fatto che essa è eminentemente naturale. La tentazione dell’uomo di sentire come proprio ciò che Dio gli ha dato come dono, appartiene alla stessa natura ferita dell’uomo. Per questo è necessaria l’esperienza del sacrificio. Ciò che don Giussani chiama la “distanza”. Entrare in un altro mondo dentro questo mondo. 
La fatica che facciamo a comprendere tutto quanto ho detto finora nasce dal fatto che riteniamo che il filo della vita sia tenuto in mano dall'uomo. Occorre ritornare alla radice dell’io, che è la creaturalità, la paternità di Dio. La questione più urgente di oggi, come nota il Papa, è la questione di Dio: la vita dell’uomo è l’espressione di un disegno positivo di cui noi non siamo in grado di tenere tutti i fili. Il filo dell’esistenza è qualcosa che Dio si incarica continuamente di riprendere in mano: è la complessità della Sua opera. Per questo è importante studiare la Scrittura e studiare la storia della Chiesa alla luce della Scrittura, scoprendo la continuità profonda tra il modo con cui Dio ha agito con Israele e il modo con cui Dio agisce nella Chiesa. Veramente la storia della Chiesa è la testimonianza che Dio tesse continuamente la sua tela e la tesse attraverso tutte le debolezze e le grandezze degli uomini.
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martedì 12 marzo 2013

La nostra misura è il Figlio di Dio (Contributi 812)

Riporto da La Bussola 

Oggi, la celebrazione della Missa Pro Eligendo Romano Pontifice fa da preludio all'inizio del Conclave che dovrà scegliere il successore di Benedetto XVI. Per l'occasione - e per la sua attualità - riprendiamo il passaggio centrale dell'omelia pronunciata in analoga circostanza dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, subito prima del Conclave che lo elesse Papa, otto anni fa. 

(...) Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo ad un vago misticismo religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull'inganno degli uomini, sull'astuzia che tende a trarre nell'errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie. 
Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell'amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1).

lunedì 11 marzo 2013

Tempi da Anticristo (Contributi 811)

Vi propongo questa intervista di Riccardo Cascioli a Padre Livio Fanzaga da La Bussola: 

 «Si avvicina il tempo della grande prova, e l’unico modo per rispondere è una riforma della Chiesa attraverso la santità». Padre Livio Fanzaga, direttore e vera anima di Radio Maria, non ha dubbi. Guidato anche dai messaggi trasmessi dai veggenti di Medjugorje, sa leggere in profondità questo nostro tempo così pieno di incognite, con un mondo attraversato da una grave crisi, morale ancora prima che economica, e una Chiesa che aspetta l’elezione del nuovo Papa tra tensioni e divisioni. 
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Padre Livio, dai microfoni di Radio Maria lei insiste molto sulla prova che aspetta il mondo e soprattutto la Chiesa. Ma quali sono i segni che questo tempo si avvicina? 
Mi sembra che i segni siano piuttosto evidenti: in una parola si potrebbe dire l’avanzata del potere delle tenebre. Non solo la grave crisi economica e finanziaria, ma la possibilità che oggi l’uomo ha di distruggere la terra su cui vive, il trionfo della religione umanitaria, la costruzione di un mondo senza Dio e quindi lo scatenarsi di un attacco furioso contro la Chiesa, la persecuzione. Se guardiamo con attenzione non possiamo non vedere come il tempo abbia preso un’accelerazione incredibile, come un masso che prende velocità staccandosi da una montagna e rotolando verso il basso. 

Lei parla di un grande attacco alla Chiesa, e lo ha detto più volte anche Benedetto XVI parlando di nemici esterni ma anche interni. 

Si deve leggere questa situazione come l’approssimarsi del grande attacco di Satana alla Chiesa, “Satana sciolto dalle catene” nel linguaggio dell’Apocalisse e come afferma la Madonna a Medjugorje. L’obiettivo è distruggere la Chiesa, delegittimare i suoi pastori, e il cristianesimo in generale. Mi sembra sia evidente come la Chiesa sia sotto attacco globale, anche attraverso i media e i grandi poteri che regolano il mondo, mentre si afferma una nuova religione umanitaria, con l’uomo ridotto ad animale. E’ l’impostura anticristica di cui parla anche il catechismo della Chiesa cattolica (no. 675-676). Il tempo della prova, per la Chiesa, è il tempo della grande apostasia, e lo stiamo già vedendo. 

Quali sono i segni all’interno della Chiesa? 

Lo vediamo soprattutto in uno sbriciolamento della fede, e responsabili ne sono gli stessi sacerdoti. Maria Valtorta lo aveva previsto già nel 1943, ma anche la Madonna nell'apparizione alle Tre Fontane lo aveva annunciato: la crisi del sacerdozio, che è ancora in atto. Non solo dopo il Concilio hanno abbandonato il sacerdozio il 20% dei preti, ma quelli che sono rimasti si sono in larga parte secolarizzati, hanno edulcorato la fede, la stanno dissolvendo. La crisi del sacerdozio è crisi intellettuale più che morale, cioè è crisi di fede. Lo vediamo in tanti libri di teologi, biblisti, negli insegnamenti nei seminari, c’è quello che già Paolo VI chiamava l’affermarsi di un pensiero non cattolico. Si dissolve la fede in Gesù figlio di Dio, si nega l’inferno – se c’è è vuoto, si dice -, addirittura si arriva a negare i miracoli, vale a dire il soprannaturale che è l’essenza della nostra fede. La parola di Cristo viene demolita, la Sua volontà – vedi la questione del sacerdozio alle donne – la si vorrebbe riaggiustare secondo criteri umani. Si dice che la Chiesa si deve aggiornare e si invocano riforme umane. Ma la Chiesa non si deve aggiornare, è la fedeltà alla sua identità che l’ha preservata nei secoli. Guai a noi se perdiamo la dimensione evangelica, radicale, l’affermazione di Cristo salvatore del mondo. La tentazione da superare è il cedimento al mondo. Cosa hanno risolto i protestanti ammettendo le donne al sacerdozio o eliminando il celibato dei preti? Nulla, anche dal punto di vista morale ci sono più pedofili tra i pastori protestanti che tra i preti cattolici. Queste sono le false riforme della Chiesa, e il mondo tifa per quelli che nella Chiesa si mettono su questa strada. 

E in questo panorama c’è la rinuncia del Papa… 

Anche questo è un segno del tempo che si sta preparando. Benedetto XVI è pienamente cosciente di ciò che si prepara, ha rinunciato per dare spazio a uno più forte fisicamente, e lo ha detto con chiarezza. Andiamo verso tempi in cui c’è bisogno anche della forza fisica, oltre che morale, serve un Papa guerriero, un vero soldato di Cristo. E Benedetto XVI continuerà a seguire la battaglia con la preghiera, che è l’arma principale, come desidera anche la Madonna. 

Può spiegare meglio questo passaggio? 

L’obiettivo della Madonna è rafforzare la fede attraverso la preghiera. Perché dalla preghiera viene tutto, è una sorgente d’acqua che fa ricrescere tutto: l’incontro con Dio, la scoperta dei sacramenti, la luce del discernimento, la forza del combattimento spirituale. Fin dall'inizio delle sue apparizioni a Medjugorje ha invitato i veggenti a dire il Credo, prima del rosario, dopo la messa: sempre il Credo, che Lei dice essere la preghiera più bella. La Madonna vuole riformare la vita cristiana, bisogna che la grazia cambi i cuori, vuole la conversione, ed ecco quindi l’importanza della confessione. Non è un caso che il simbolo di Medjugorie siano le decine di confessionali all'aperto a cui si accostano ogni giorno centinaia di fedeli. Anche questo peraltro conferma quello che dicevo sulla crisi del sacerdozio: qui da noi i confessionali sono vuoti, ma se le stesse persone qui non si confessano e poi si sentono spinte a farlo a Medjugorje, evidentemente c’è qualcosa che non funziona nei preti qui, non è colpa dei fedeli. Da questa conversione poi la Madonna desidera la pratica dei comandamenti: al proposito, ha fatto scalpore che nell'apparizione dello scorso 25 dicembre per la prima volta la Madonna non abbia parlato: si è invece alzato Gesù Bambino che ha ammonito “Io sono la vera pace, osservate i miei comandamenti”. Se non abbiamo la vita di Cristo dentro di noi, non siamo credibili. La vera riforma che è chiesta è la santità, e del resto le grandi riforme nella Chiesa le hanno sempre fatte i santi. E tutti i fedeli sono chiamati alla santità, tutti siamo chiamati a una conversione che dura tutta la vita. 

Insomma, sembra proprio che la Madonna stia preparando un piccolo esercito per la battaglia che s’avvicina. 

Esatto, c’è un’incessante chiamata a diventare suoi apostoli decisi a testimoniare fino a dare la vita. Nel tempo della prova è necessario che ci sia un piccolo gregge che resiste, per dare luce agli altri, punto di riferimento per gli altri. Dio ha sempre fatto così: laddove ci sono le tenebre accende una luce, basti ricordare Massimiliano Kolbe e Edith Stein nei lager nazisti. 
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