Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

lunedì 30 giugno 2014

L'eroismo e la fede (Contributi 971)

Vi propongo un articolo di Antonio Socci dal suo sito:

Sembrano così lontani il nostro Meridione e il nostro Settentrione. Invece nel profondo sud di Scampia e nel profondo nord di Brembate Sopra, ci sono padri e madri che hanno lo stesso cuore, che condividono lo stesso dolore per lo strazio di un figlio ucciso e sanno dire parole cristiane, parole di amore, dove tutto griderebbe rabbia e vendetta.  
LUCE A SCAMPIA
Ventimila persone erano presenti ai funerali di Ciro Esposito, il giovane napoletano che il 3 maggio era andato a Roma per vedere una partita di calcio ed è stato assurdamente ammazzato senza motivo (è stato in agonia per cinquanta giorni). La madre Antonella si è espressa così davanti a tutti: “Noi abbiamo tanto pregato, abbiamo pregato da prima che sapessimo che Ciro era il ferito grave. Quando l’ho saputo non ho perso la pace che ho trovato con la preghiera. Questo ragazzo aveva mille motivi per bestemmiare e invece ringraziava e onorava il Signore. Ed anche io oggi ringrazio Dio per la forza che ha dato a me e alla mia famiglia. Voglio ringraziare le migliaia di persone che ci sono state vicine lì al Gemelli, dalle più umili alle più importanti. La memoria di Ciro porti gioia, pace ed amore. Grazie a tutti, mantenete alta la bandiera dello Sport e dell’Amore”. Anche la fidanzata, Simona, ha fatto appello alla tifoseria napoletana – “Sotterrate la violenza!” – perché non ci si abbandoni a una spirale di odio e vendette per la morte di Ciro (e speriamo che queste testimonianze di pace facciano breccia nel cuore di tutti).
LUCE A BREMBATE
In circostanze e luoghi del tutto diversi – nella bergamasca – il giorno dell’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, per l’uccisione di Yara Gambirasio, il papà della ragazzina, Fulvio, ha detto a don Corinno, il parroco di Brembate Sopra: “prega per tutti, anche per la famiglia della persona fermata, anche per lui, c’è bisogno di preghiera”. Pochissime parole, confidate al suo parroco, ma sconvolgenti sulle labbra di un padre che ha vissuto una tragedia così crudele. Non hanno nemmeno bisogno di essere spiegate e commentate. Sono parole semplici e vertiginose, da rileggere e custodire nel cuore. Ricordano quelle scritte da uno scultore trecentesco su una piccola pergamena nascosta poi dentro un crocifisso ligneo che egli aveva scolpito: “abbi pietà di tutta l’umana generazione”.
Nel primo caso, la madre di Ciro ha dovuto e voluto parlare pubblicamente per prevenire e scongiurare qualunque tipo di violenza e vendetta fosse progettata da certi ambienti nel nome del ragazzo napoletano. Nel secondo caso, in cui non c’era da calmare bollenti tifoserie calcistiche, i genitori di Yara si sono negati totalmente ai riflettori. Ma in entrambi i casi si è manifestata la stessa pietà. Lo stesso desiderio di sottrarre i propri figli al circo della violenza o al circo mediatico della chiacchiera e del rimestare nel fango. Infatti ore e ore di trasmissioni televisive sono state dedicate al caso di Yara Gambirasio (di nuovo in questi giorni, per l’arresto di Bossetti e la svolta delle indagini), ma mai, nemmeno per un nanosecondo, il padre e la madre di Yara si sono concessi ai microfoni e alle telecamere. Fiumi di inchiostro sono corsi sulle pagine dei giornali in questi anni sulla ragazzina di Brembate, scomparsa e poi ritrovata crudelmente uccisa, ma nemmeno una parola si è potuta attribuire fra virgolette alla povera e dolente famiglia della vittima. Dei due genitori si hanno solo pochissime immagini catturate durante i loro fugaci e silenziosi passaggi nei giorni in cui entravano nella caserma dei carabinieri o in procura. Quel papà e quella mamma, sempre gentili nei modi (mai irritati o infastiditi), hanno costantemente rifiutato con ferma decisione di rilasciare dichiarazioni. Con un passo svelto e con un mesto sorriso di cortesia che impedisce alle telecamere di “rubare” loro perfino un’espressione del volto da cui traspaia l’immensità del dolore che hanno nel cuore e che hanno sofferto fino ad ora. Nella società del frastuono mediatico e della spettacolarizzazione del crimine, il loro silenzio è stato rivoluzionario. Non voglio certo puntare il dito moralisticamente sui media o sui colleghi che fanno il loro lavoro. Ma – almeno per un momento – bisognerebbe riuscire a soffermarsi su quel silenzio e sulla scelta dei genitori di Yara. Soprattutto quando poi – per interposta persona – veniamo a conoscere parole immense come quelle che papà Fulvio ha detto al suo parroco. Antonella, la madre di Ciro, Fulvio, il padre di Yara, con le loro famiglie, sono persone meravigliose. Altri come loro – andando a ritroso in questi anni – ci hanno commosso per lo stesso amore, la stessa pace interiore e la stessa pietà. Penso al signor Carlo Castagna o alla signora Margherita Coletta.
LUCE A ERBA E A NAPOLI
Ricordate? Il signor Castagna nel delitto di Erba, l’11 dicembre 2006, aveva perduto la figlia, la moglie e il nipotino. Ma, pur dentro il suo immenso dolore, quest’uomo buono e profondamente cristiano, disse: “Li perdono e li affido al Signore. Bisogna perdonare in questi momenti. Bisogna finirla con l’odio”Commosse tutto il Paese anche la testimonianza di Margherita Coletta, vedova del brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta, ucciso il 12 novembre 2003 nella strage di Nasiriyah con altri diciotto colleghi: “Se amate quelli che vi amano che merito avete? Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”Era il giorno della strage e a ricordare a tutti queste parole di Gesù davanti alle telecamere era una giovane sposa e madre, di 33 anni, che già aveva perso un bambino per leucemia e che aveva appena appreso dell’uccisione del suo uomo in missione di pace. La signora Margherita, davanti ai giornalisti che avevano invaso la sua casa di Napoli, quel giorno, con una figlia di due anni in braccio, pur soffrendo in modo spaventoso, volle ricordare quelle parole e indicando il Vangelo aggiunse: “La nostra vita è tutta qua dentro”Poco tempo dopo ha spiegato: “E’ Gesù che ha fatto sì che io potessi rispondere con l’amore all’odio. Non mi sono domandata chi avesse ucciso mio marito. Senza perdono non siamo cristiani”Certamente sono parole così immense che non vanno considerate per nulla ovvie o automatiche. Non c’è nulla di automatico in esse, sono un miracolo, sono un dono di grazia. Noi uomini da soli non ne saremmo capaci. Infatti ricordando poi la morte del figlio Paolo, a sei anni, per leucemia, Margherita aggiunse: “Dio mi ha sorretto in questi dolori; davanti a mio figlio con grossi aghi sulla schiena per la chemioterapia, davanti a mio marito che non c’è più. Le difficoltà sono tante, forse ce ne saranno anche altre, ma io mi sono aggrappata a Cristo e alla sua Croce, unica salvezza per tutti”.
Periodicamente la cronaca ci spalanca davanti agli occhi questa Italia profonda, forte e buona, piena di fede e capace di perdono e di compassione. Un’Italia commovente e veramente eroica nella vita quotidiana. Un’Italia che normalmente sembra non esistere nelle nostre cronache. E invece è quella che resiste. E’ un immenso tesoro di sapienza e di amore. Spesso bistrattata con disprezzo certe élite intellettuali e politiche. E’ lì la speranza per tutti.
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domenica 29 giugno 2014

Solennità Santi Pietro e Paolo (Angelus 199)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Fin dai tempi antichi la Chiesa di Roma celebra gli Apostoli Pietro e Paolo in un’unica festa nello stesso giorno, il 29 giugno. La fede in Gesù Cristo li ha resi fratelli e il martirio li ha fatti diventare una sola cosa. San Pietro e San Paolo, così diversi tra loro sul piano umano, sono stati scelti personalmente dal Signore Gesù e hanno risposto alla chiamata offrendo tutta la loro vita. In entrambi la grazia di Cristo ha compiuto grandi cose, li ha trasformati. Eccome li ha trasformati! Simone aveva rinnegato Gesù nel momento drammatico della passione; Saulo aveva perseguitato duramente i cristiani. Ma entrambi hanno accolto l’amore di Dio e si sono lasciati trasformare dalla sua misericordia; così sono diventati amici e apostoli di Cristo. Perciò essi continuano a parlare alla Chiesa e ancora oggi ci indicano la strada della salvezza. Anche noi, se per caso cadessimo nei peccati più gravi e nella notte più oscura, Dio è sempre capace di trasformarci, come ha trasformato a Pietro e a Paolo; trasformarci il cuore e perdonarci tutto, trasformando così il nostro buio del peccato in un’alba di luce. Dio è così: ci trasforma, ci perdona sempre, come ha fatto con Pietro e come ha fatto con Paolo.
Il libro degli Atti degli Apostoli mostra molti tratti della loro testimonianza. Pietro, ad esempio, ci insegna a guardare i poveri con sguardo di fede e a donare loro ciò che abbiamo di più prezioso: la potenza del nome di Gesù. Questo ha fatto con quel paralitico: gli ha dato tutto quello che aveva, cioè Gesù (cfr At 3,4-6).
Di Paolo, viene raccontato per tre volte l’episodio della chiamata sulla via di Damasco, che segna la svolta della sua vita, marcando nettamente un prima e un dopo. Prima, Paolo era un acerrimo nemico della Chiesa. Dopo, mette tutta la sua esistenza a servizio del Vangelo. Anche per noi l’incontro con la Parola di Cristo è in grado di trasformare completamente la nostra vita. Non è possibile ascoltare questa Parola e restare fermi al proprio posto, restare bloccati sulle proprie abitudini. Essa ci spinge a vincere l’egoismo che abbiamo nel cuore per seguire decisamente quel Maestro che ha dato la vita per i suoi amici. Ma è Lui che con la sua parola ci cambia; è Lui che ci trasforma; è Lui che ci perdona tutto, se noi apriamo il cuore e chiediamo il perdono.
Cari fratelli e sorelle, questa festa suscita in noi una grande gioia, perché ci pone di fronte all’opera della misericordia di Dio nel cuore di due uomini. E’ l’opera della misericordia di Dio in questi due uomini, che erano grandi peccatori. E Dio vuole colmare anche noi della sua grazia, come ha fatto con Pietro e con Paolo. La Vergine Maria ci aiuti ad accoglierla come loro con cuore aperto, a non riceverla invano! E ci sostenga nell’ora della prova, per dare testimonianza a Gesù Cristo e al suo Vangelo. Lo chiediamo oggi in particolare per gli Arcivescovi Metropoliti nominati nell’ultimo anno, che stamani hanno celebrato con me l’Eucaristia in San Pietro. Li salutiamo tutti con affetto insieme con i loro fedeli e i familiari, e preghiamo per loro!

Dopo l'Angelus:
Cari fratelli e sorelle,
le notizie che giungono dall’Iraq sono purtroppo molto dolorose. Mi unisco ai Vescovi del Paese nel fare appello ai governanti perché, attraverso il dialogo, si possa preservare l’unità nazionale ed evitare la guerra. Sono vicino alle migliaia di famiglie, specialmente cristiane, che hanno dovuto lasciare le loro case e che sono in grave pericolo. La violenza genera altra violenza; il dialogo è l’unica via per la pace. Preghiamo la Madonna, perché custodisca il popolo dell’Iraq.
Ave Maria...
Saluto tutti voi, in modo speciale i fedeli di Roma, nella festa dei Santi Patroni; come pure i familiari degli Arcivescovi Metropoliti che stamattina hanno ricevuto il Pallio e le delegazioni che li hanno accompagnati.
Saluto gli artisti di tante parti del mondo che hanno realizzato una grande infiorata, e ringrazio la Pro Loco di Roma per averla promossa. Sono stati bravi questi artisti, complimenti!
Saludo cordialmente a los fieles de San Fernando y de Ubrique (Cádiz), de Elche de la Sierra (Albacete), y de Parla, Madrid, así como a los numerosos alfombristas que han participado en la gran muestra floreal.
Saluto i pellegrini provenienti dal Madagascar, gli studenti di alcune scuole cattoliche degli Stati Uniti d’America e di Londra; i fedeli di Messina, Napoli, Neviano, Taranto, Rocca di Papa e Pezzoro, e quelli venuti in bicicletta da Cardito; il gruppo “Amici del Venerabile Francesco Antonio Marcucci”.
Saluto il Forum delle Associazioni Familiari del Lazio e auguro ogni bene per l’attività dei prossimi giorni presso l’Istituto Pio XI di Roma.
Un augurio anche per il tradizionale spettacolo di fuochi d’artificio che avrà luogo stasera a Castel Sant’Angelo, il cui ricavato sosterrà una iniziativa per i ragazzi della Terra Santa.
A tutti voi auguro buona domenica, buona festa dei Patroni. E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.
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Silenzio, luce, sangue, comunione (Contributi 970)

Propongo ai lettori l'Omelia di mons. Massimo Camisasca alla prima messa di don Michele Benetti (22-giu-2014 Solennità del Corpus Domini) a Roma (S. Maria in Domnica) dal sito della Fraternità Sacerdotale San Carlo. 


Carissimo Michele, rivolgo innanzitutto a te il mio saluto e il mio augurio affettuoso. Saluto poi i tuoi genitori, i tuoi fratelli, i tuoi parenti e amici. 
Arrivare al sacerdozio implica una storia breve e lunga nello stesso tempo. Lunga perché fatta di tanti momenti, di tanti «sì», ma anche di fatiche, di incertezze. Breve perché, se la si guarda assieme, ci si accorge di essere stati condotti da Dio. E certamente nella conduzione che Dio opera della nostra vita ci sono i volti dei genitori, dei parenti, i volti di coloro che ci hanno educato, di coloro che ci hanno aiutato e accompagnato. Sarebbe lungo e impossibile per me oggi ricordare tutti i loro nomi. Voglio ricordare don Giussani e in lui raccogliere tutti coloro che, in diversi modi, ti sono stati vicini, dalla terra e dal cielo. 
Sei fortunato a celebrare la tua prima messa nel giorno del Corpus Domini. Il Corpus Domini è un mistero che si riallaccia direttamente al sacramento che hai ricevuto. Soprattutto, è un mistero che illumina e riassume tutta la vita cristiana. 
Vorrei allora brevemente illuminare il tuo sacerdozio attraverso quattro parole, che esprimono molto bene, tra le altre, il mistero dell’eucarestia. 
Essa è innanzitutto un mistero di silenzio e di adorazione. Dall’eucarestia dunque sei chiamato a imparare il silenzio, cioè quella posizione per cui la vita viene vissuta realmente davanti a Dio. E poi l’adorazione, il riconoscimento del tuo essere creatura e dell’avere bisogno di Lui. Il riconoscimento che Cristo conduce la vita, e la conduce sulle strade, sulle spiagge, tra i prati della nostra esistenza, con una mano sicura e tenera nello stesso tempo. È il silenzio del ventre di Maria, quando ella aveva appena detto «sì». È il silenzio delle notti di Gesù, in Galilea o in Giudea, quando si raccoglieva in solitudine, pregava il Padre e parlava con lui. Il silenzio di certi giorni nella casa di Nazareth, quando Giuseppe e Maria guardavano quel bambino e traevano da quello sguardo la fonte di luce della loro giornata. Il silenzio con cui iniziava sempre la predicazione di Gesù e soprattutto i suoi miracoli: Alzati gli occhi al cielo… (Gv 17, 1). Il silenzio di quel venerdì sulla croce, a cui tutto sembrava assistesse. Quel silenzio della croce si riallacciava al silenzio di Betlemme quando, nel mezzo della notte, apparve la grande luce degli angeli. E al silenzio della croce si sostituì poi, all'alba della domenica, la luce della resurrezione. 
La tua vita sia dunque governata dal silenzio e dall'adorazione. Ama la preghiera. Ama la liturgia delle ore, ama la celebrazione dei sacramenti. Ricordati sempre che ciò che governa il mondo non è il rumore degli uomini, il rumore delle chiacchiere, dei giornali o di Internet. Ciò che governa e conduce il mondo verso il suo compimento buono è il silenzio di Dio. Il silenzio di Dio è un silenzio che parla, un silenzio eloquente per chi lo sa ascoltare. Un silenzio pieno di parole, di avvertimenti, di consigli. È, infine, un silenzio che attrae e che protegge. 
L’Eucarestia è un mistero di luce. Ho detto sopra che nel pieno del silenzio di Betlemme si è manifestata la luce degli angeli e che dopo il silenzio della croce è esplosa la luce della resurrezione. Il sacerdote è un uomo di luce. È un uomo della resurrezione, che vive della resurrezione. Il sacerdozio, infatti, sgorga come attualità della resurrezione nel tempo e nello spazio. Dio vivo, Dio che ha mandato il suo Spirito, permette al sacerdote di essere un uomo vivo, testimone della resurrezione. La testimonianza apostolica che vive nella missione del sacerdote è testimonianza di Gesù morto e risorto. 
Sii un cercatore della resurrezione. Sii cercatore delle tracce della resurrezione nella storia dell’uomo, per poter indicare a te stesso e ai tuoi fratelli i segni di Gesù risorto dentro la vita quotidiana. 
La resurrezione di Gesù porti nella tua vita una grande positività. Non la positività umana di chi vuole essere ottimista a tutti i costi, ma la positività realistica del cristiano, il quale sa che Cristo ha vinto la morte e, anche attraverso le battaglie della vita, ci conduce a una vittoria sicura, a un porto di speranza. 
Sii presso i tuoi fratelli colui che li aiuta a guardare la luce, a vedere la luce di Cristo che vive nel sacrificio di padri e madri che educano i loro figli, nel sacrificio e nella gioia di tanti educatori, nella gioia di tante donazioni, nella gioia nascosta della fede del popolo, nella gioia di tante testimonianze a Cristo. 
L’eucarestia è anche un mistero di sangue. Non dobbiamo avere paura di riconoscerlo. L’eucarestia è la presenza del sacrificio di Cristo. Ogni sacerdote è chiamato a partecipare a questo sacrificio. Egli non può dire «Questo è il mio Corpo», «Questo è il mio sangue», se non partecipa anche con la sua stessa vita al sacrificio di Cristo, nella natura e nelle modalità che Cristo gli chiederà. Dobbiamo parteciparvi con letizia, sapendo che Dio non chiede mai nulla che noi non possiamo dare. E soprattutto egli, rendendoci partecipi del sacrificio di Cristo, ci rende partecipi anche della sua obbedienza e della sua gloria. 
Infine, e conclusivamente, l’eucarestia è un mistero di comunione. Il sacerdote è innanzitutto uomo della comunione, un uomo che è stato investito dell’unzione di Cristo per potere essere generatore del popolo cristiano. Lo è attraverso la sua predicazione, la sua intercessione, attraverso la celebrazione dei sacramenti: l’eucarestia, la penitenza, il battesimo; il battesimo, soprattutto, genera nuovi figli alla maternità della Chiesa. 
Sii uomo di comunione anche ascoltando le persone, aiutandole a camminare, a perdonare, a riconoscere il bene che c’è anche in coloro che sentiamo lontani. Sii uomo di comunione affermando sempre l’unità: l’unità della tua casa, l’unità della Fraternità, l’unità nella vita del movimento, nella Chiesa. Sii uomo di comunione affermando l’umiltà nella carità, poiché questa è la strada dell’unità. Sii uomo di comunione anche quando ti costerà; vedrai che Dio ricompenserà sempre la tua fatica, facendoti godere già nel tempo i frutti del tuo lavoro. 

Mistero di silenzio, mistero di luce, mistero di sangue, mistero di comunione. 

Nell'eucarestia, anche così sommariamente raccontata nella povertà delle mie parole, vedo descritta pienamente tutta la realtà del tuo sacerdozio.

Ti affido perciò ai santi, in particolare alla Vergine Madre di Dio. Ti affido a tutti i nostri cari che sono già in cielo. Ti affido ai tuoi amici. Non pensare mai che sia bene separarti per conto tuo dai tuoi amici. L’amicizia è un grande sostegno, è un prezioso dono di Dio. Sono certo che la tua vita sacerdotale sarà ricca di molti frutti. Nella misura della tua sequela di Gesù, essa sarà coronata da tante consolazioni e da tante gioie. Ricordati di noi. Ricordati di coloro che hanno già donato qualcosa alla tua vita, che sono stati tramiti di Dio, e camminiamo tutti assieme verso il compimento del Regno di Dio. Amen.
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lunedì 23 giugno 2014

Caccia al tesoro

«Soldi, vanità e potere» non rendono felice l’uomo. I veri tesori, le ricchezze che contano, sono «l’amore, la pazienza, il servizio agli altri e l’adorazione di Dio». È questo il messaggio che Papa Francesco ha proposto nella messa celebrata il 20 giugno, nella cappella della Casa Santa Marta.
Cuore della meditazione del Pontefice sono state le parole di Gesù riportate dal Vangelo di Matteo (6, 19-23): «Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore». Insomma, è stato il commento del Papa, «il consiglio di Gesù è semplice: non accumulate per voi tesori sulla terra! È un consiglio di prudenza». Tanto che Gesù aggiunge: «Guarda, questo non serve a niente, non perdere tempo!».
Sono tre, in particolare, i tesori dai quali Gesù mette in guardia a più riprese. «Il primo tesoro è l’oro, i soldi, le ricchezze» ha spiegato il vescovo di Roma. E infatti «non sei sicuro con questo» tesoro, «perché forse te lo ruberanno. Non sei sicuro con gli investimenti: forse crolla la Borsa e tu rimani senza niente!». E «poi dimmi: un euro in più ti fa più felice o no?». Dunque, ha proseguito il Pontefice, «le ricchezze sono un tesoro pericoloso». Certo, possono anche servire «per fare tante cose buone», per esempio «per portare avanti la famiglia». Ma, ha avvertito, «se tu le accumuli come un tesoro, ti rubano l’anima». Per questo «Gesù nel Vangelo torna su questo argomento, sulle ricchezze, sul pericolo delle ricchezze, sul mettere le speranze nelle ricchezze». E dice di stare attenti perché è un tesoro «che non serve».
Il secondo tesoro di cui parla il Signore «è la vanità», cioè cercare di «avere un prestigio, di farsi vedere». Gesù condanna sempre questo atteggiamento: «Pensiamo a cosa dice ai dottori della legge quando digiunano, quando danno l’elemosina, quando pregano per farsi vedere». Del resto, anche «la vanità non serve, finisce. La bellezza finisce». Su questo concetto il Pontefice ha citato un’espressione — definita «un po’ forte» — di san Bernardo, secondo cui «la tua bellezza finirà per essere pasto dei vermi».
L’orgoglio, il potere, «è il terzo tesoro» che Gesù indica come inutile e pericoloso. Una realtà evidenziata nella prima lettura della liturgia tratta dal secondo libro dei Re (11, 1-4.9-18.20), dove si legge la storia della «crudele regina Atalia: il suo grande potere durò sette anni, poi è stata uccisa». Insomma «tu sei lì e domani sei caduto», perché «il potere finisce: quanti grandi, orgogliosi, uomini e donne di potere hanno finito nell’anonimato, nella miseria o in prigione...».
Ecco, allora, l’essenza dell’insegnamento di Gesù: «Non accumulate! Non accumulate soldi, non accumulate vanità, non accumulate orgoglio, potere! Questi tesori non servono!». Piuttosto sono altri i tesori da accumulare, ha affermato il Pontefice. Infatti «c’è un lavoro di accumulare tesori che è buono». Lo dice Gesù nella stessa pagina evangelica: «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore». Questo è proprio «il messaggio di Gesù: avere un cuore libero». Invece «se il tuo tesoro è nelle ricchezze, nella vanità, nel potere, nell’orgoglio, il tuo cuore sarà incatenato lì, il tuo cuore sarà schiavo delle ricchezze, della vanità, dell’orgoglio».
In questa prospettiva Papa Francesco ha esortato appunto ad avere «un cuore libero», proprio perché espressamente «Gesù ci parla della libertà del cuore». E «un cuore libero si può avere soltanto con i tesori del cielo: l’amore, la pazienza, il servizio agli altri, l’adorazione a Dio». Queste «sono le vere ricchezze che non vengono rubate». Le altre ricchezze — soldi, vanità, potere — «appesantiscono il cuore, lo incatenano, non gli danno la libertà».
Bisogna dunque puntare ad accumulare le vere ricchezze, quelle che «liberano il cuore» e ti rendono «un uomo e una donna con quella libertà dei figli di Dio». Si legge in proposito nel Vangelo che «se il tuo cuore è schiavo, non sarà luminoso il tuo occhio, il tuo cuore». Infatti, ha sottolineato Papa Francesco, «un cuore schiavo non è un cuore luminoso: sarà tenebroso!». Perciò «se noi accumuliamo tesori della terra, accumuliamo tenebre che non servono, non ci danno la gioia. Ma soprattutto non ci danno la libertà».
Invece, ha rimarcato il vescovo di Roma, «un cuore libero è un cuore luminoso, che illumina gli altri, che fa vedere la strada che porta a Dio». È «un cuore luminoso, che non è incatenato, è un cuore che va avanti e che anche invecchia bene, perché invecchia come il buon vino: quando il buon vino invecchia è un bel vino invecchiato!». Viceversa, ha aggiunto, «il cuore che non è luminoso è come il vino non buono: passa il tempo e si guasta di più e diventa aceto».
Il Pontefice ha concluso invitando a pregare il Signore perché «ci dia questa prudenza spirituale per capire bene dove è il mio cuore, a che tesoro è attaccato il mio cuore». E «ci dia anche la forza di “scatenarlo”, se è incatenato, perché divenga libero, divenga luminoso e ci dia questa bella felicità dei figli di Dio, la vera libertà».
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Quando l’odio uccide

Per praticare la giustizia fino in fondo, vivendo il comandamento dell’amore, bisogna essere realisti, coerenti e riconoscersi figli dello stesso Padre, quindi fratelli. Sono i tre criteri pratici suggeriti da Papa Francesco nella messa celebrata il 12 giugno, nella cappella della Casa Santa Marta.
Nel passo evangelico di Matteo (5, 20-26) proposto dalla liturgia, Gesù — ha spiegato il Pontefice — ci parla di «come dev’essere l’amore fra noi». Egli comincia il suo discorso «dicendo una cosa per capire bene come noi dobbiamo andare sulla strada dell’amore fraterno». Ecco le sue parole: «Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli».
Dunque, afferma Gesù, «dobbiamo essere giusti, dobbiamo amare il prossimo, che è il problema di oggi; ma non come questi dottori della legge che avevano una filosofia speciale», cioè dire bene «tutto quello che si deve fare» — ritenendosi «intelligenti» e «bravi» — ma «poi non farlo». Ed è per questo che, riguardo a loro, «Gesù dice: fate quello che dicono ma non quello che fanno». E lo dice «perché non erano coerenti».
Erano infatti persone che «sapevano che il primo comandamento era amare Dio; sapevano che il secondo è amare il prossimo». Però «avevano tante sfumature di idee, perché erano ideologi». E operavano tutta una serie di distinguo su ciò che significa «amare il prossimo». Finendo, quindi, per assumere «un atteggiamento che non era amore», ma piuttosto «indifferenza verso il prossimo». Ecco allora che Gesù raccomanda di superare questo modo di fare, che «non è giustizia ma è equilibrio sociale».
E per farlo, ha affermato il Papa, Gesù ci suggerisce «tre criteri». Il primo è proprio «un criterio di sano realismo». Dice infatti Gesù che «se tu hai qualcosa contro l’altro, e voi non potete sistemare» la questione e «cercare una soluzione», è opportuno trovare il modo «almeno di mettervi d’accordo». Soprattutto, raccomanda il Signore, «mettiti d’accordo col tuo avversario mentre sei in cammino». Forse «non sarà l’ideale, ma l’accordo è una cosa buona: è realismo!».
E a quanti obiettano che «gli accordi non durano» tanto che, come si suol dire, «si fanno per romperli», la risposta è che «lo sforzo di fare accordi» serve a «salvare tante cose: uno fa un passo, l’altro fa un altro passo» e «così almeno c’è la pace». Anche se, ha riconosciuto il Papa, forse è «una pace molto provvisoria» perché nasce da un accordo.
In sintesi, «Gesù è realista» quando afferma che «questa capacità di fare accordi tra noi significa anche superare la giustizia dei farisei e dei dottori della legge». È «il realismo della vita». Tanto che Gesù raccomanda espressamente di raggiungere «un accordo mentre siamo in cammino, proprio per fermare la lotta e l’odio tra noi. Invece noi tante volte vogliamo finire le cose, portarle al limite».
«Un secondo criterio che ci dà Gesù è il criterio della verità» ha spiegato il Pontefice. C’è, infatti, il comandamento di non uccidere; ma «anche sparlare dell’altro è uccidere, perché la radice è lo stesso odio: non hai il coraggio di ucciderlo o pensi che è troppo, ma lo uccidi in un’altra maniera, con le chiacchiere, con le calunnie, con la diffamazione».
Nel Vangelo di Matteo, le parole di Gesù a riguardo sono nette: «Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna». Perciò, ha spiegato il Papa, «quando sentiamo persone che si dicono tante cose brutte», bisogna sempre ricordare che dando dello «stupido» o del «pazzo» si uccide il fratello, perché l’insulto «ha una radice di odio». Esso infatti «nasce dalla stessa radice del crimine: è la stessa, l’odio!». Invece, ha proseguito, «cercare insulti è una abitudine molto comune fra noi». C’è «gente — ha notato — che per esprimere il suo odio contro un’altra persona ha una capacità impressionante». E non pensa quanto faccia male «sgridare e insultare».
Il terzo criterio che ci dà Gesù «è un criterio di filiazione». Noi, ha affermato il Pontefice, «non dobbiamo uccidere il fratello» proprio in quanto egli è nostro fratello: «abbiamo lo stesso padre». E, si legge nel Vangelo, «non posso andare dal padre se non sono in pace con il mio fratello». Dice infatti Gesù: «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono». Dunque, raccomanda il Signore, «non parlare con il padre se non sei in pace con tuo fratello» o «almeno con un accordo».
Ecco, ha riepilogato il Papa, «i tre criteri: un criterio di realismo; un criterio di coerenza, cioè non ammazzare ma non insultare pure perché chi insulta ammazza, uccide; e un criterio di filiazione: non si può parlare col padre se non posso parlare col mio fratello». Sono i tre criteri per «superare la giustizia degli scribi e dei farisei».
Un «programma non facile», ha riconosciuto il vescovo di Roma, «ma è la via che Gesù ci indica per andare avanti». E in conclusione Papa Francesco ha chiesto al Signore proprio «la grazia di poter andare avanti in pace fra noi», magari anche «con gli accordi ma sempre con coerenza e con spirito di filiazione».
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La carta d'identità del cristiano

Le beatitudini sono «la carta d’identità del cristiano». Per questo Papa Francesco — nell’omelia della messa celebrata il 9 giugno, nella cappella della Casa Santa Marta — ha invitato a riprendere in mano quelle pagine del Vangelo e a rileggerle più volte, per poter vivere fino in fondo un «programma di santità» che va «controcorrente» rispetto alla mentalità del mondo.
Il Pontefice ha richiamato punto per punto il passo evangelico di Matteo (5, 1-12) proposto dalla liturgia. E ha riproposto le beatitudini inserendole nel contesto della nostra quotidianità. Gesù, ha spiegato, parla «con tutta semplicità» e fa come «una parafrasi, una glossa dei due grandi comandamenti: amare il Signore e amare il prossimo». Così «se qualcuno di noi fa la domanda: “Come si fa per diventare un buon cristiano?”», la risposta è semplice: bisogna fare quello che dice Gesù nel discorso delle beatitudini.
Un discorso, ha riconosciuto il Papa, «tanto controcorrente» rispetto a ciò «che è abituale, che si fa nel mondo». La questione, del resto, è che il Signore «sa dov’è il peccato, dov’è la grazia, e lui conosce bene le strade che ti portano al peccato e che ti portano alla grazia». Ecco allora il senso delle sue parole «beati i poveri in spirito»: ossia «povertà contro ricchezza».
«Il ricco — ha spiegato il vescovo di Roma — normalmente si sente sicuro con le sue ricchezze. Lo stesso Gesù ce lo ha detto nella parabola del granaio», parlando di quell’uomo sicuro che, da stolto, non pensa di poter morire quello stesso giorno.
«Le ricchezze — ha aggiunto — non ti assicurano niente. Di più: quando il cuore è ricco, è tanto soddisfatto di se stesso, che non ha posto per la parola di Dio». È per questo che Gesù dice: «Beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero perché possa entrare il Signore». E ancora: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati».
Al contrario, ha fatto notare il Pontefice, «il mondo ci dice: la gioia, la felicità, il divertimento, quello è il bello della vita!». E «ignora, guarda da un’altra parte, quando ci sono problemi di malattia, problemi di dolore nella famiglia». Infatti «il mondo non vuole piangere: preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle». Invece «soltanto la persona che vede le cose come sono, e piange nel suo cuore, è felice e sarà consolata»: con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo.
«Beati i miti», ha continuato il Pontefice, è un’espressione forte, soprattutto «in questo mondo che dall’inizio è un mondo di guerre; un mondo dove dappertutto si litiga, dove dappertutto c’è l’odio». Eppure «Gesù dice: niente guerre, niente odio! Pace, mitezza!». Qualcuno potrebbe obiettare: «Se io sono così mite nella vita, penseranno che sono uno stolto». Forse è così, ha affermato il Papa, tuttavia lasciamo pure che gli altri «pensino questo: ma tu sei mite, perché con questa mitezza avrai in eredità la terra!».
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» è un’altra grande affermazione di Gesù rivolta a quanti «lottano per la giustizia, perché ci sia giustizia nel mondo». La realtà ci mostra, ha notato il vescovo di Roma, quanto sia «facile entrare nelle cricche della corruzione», far parte di «quella politica quotidiana del do ut des» dove «tutto è affari». E, ha aggiunto, «quanta gente soffre per queste ingiustizie!». Proprio davanti a questo «Gesù dice: sono beati quelli che lottano contro queste ingiustizie». Così, ha specificato il Papa, «vediamo proprio che è una dottrina controcorrente» rispetto a «quello che il mondo ci dice».
Ancora: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». Si tratta, ha spiegato, di «quelli che perdonano, capiscono gli errori degli altri». Gesù «non dice: beati quelli che fanno la vendetta, che si vendicano», o che dicono «occhio per occhio, dente per dente», ma chiama beati «quelli che perdonano, i misericordiosi». E bisogna pur sempre pensare, ha ricordato, che «tutti noi siamo un esercito di perdonati! Tutti noi siamo stati perdonati! E per questo è beato colui che va per questa strada del perdono».
«Beati i puri di cuore», poi, è una frase di Gesù che si riferisce a quanti «hanno un cuore semplice, puro, senza sporcizie: un cuore che sa amare con quella purezza tanto bella». Quindi «beati gli operatori di pace» richiama le tanti situazioni di guerra che si ripetono. Per noi, ha riconosciuto il Papa, «è tanto comune essere operatori di guerre o almeno operatori di malintesi». Accade «quando io sento una cosa da questo e vado da quello e la dico; e anche faccio una seconda edizione un po’ allargata e la riporto». Insomma, è «il mondo delle chiacchiere», fatto da «gente che chiacchiera, che non fa pace», che è nemica della pace e non è certo beata.
Infine, proclamando «beati i perseguitati per la giustizia», Gesù ricorda «quanta gente è perseguitata» ed «è stata perseguitata semplicemente per avere lottato per la giustizia».
Dunque, ha puntualizzato il Pontefice, «questo è il programma di vita che ci propone Gesù». Un programma «tanto semplice ma tanto difficile» allo stesso tempo. «E se noi volessimo qualcosa di più — ha affermato — Gesù ci dà anche altre indicazioni», in particolare «quel protocollo sul quale noi saremo giudicati che si trova al capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare; ero assetato e mi hai dato da bere; ero ammalato e mi hai visitato; ero in carcere e sei venuto a trovarmi”».
Ecco la strada, ha spiegato, per «vivere la vita cristiana a livello di santità». Del resto, ha aggiunto, «i santi non hanno fatto altro che» vivere le beatitudini e quel «protocollo del giudizio finale». Sono «poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica», da praticare, da fare, non solo da pensare.
E pratica è anche la proposta conclusiva di Papa Francesco: «Oggi, se voi avete un po’ di tempo a casa, prendete il Vangelo di Matteo, capitolo quinto, all’inizio ci sono queste beatitudini». E poi al «capitolo 25, ci sono le altre» parole di Gesù. «Vi farà bene — ha esortato — leggere una volta, due volte, tre volte questo che è il programma di santità».
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domenica 22 giugno 2014

Corpus Domini (Angelus 198)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In Italia e in molti altri Paesi si celebra in questa domenica la festa del Corpo e Sangue di Cristo – si usa spesso il nome latino: Corpus Domini o Corpus Christi. La Comunità ecclesiale si raccoglie attorno all’Eucaristia per adorare il tesoro più prezioso che Gesù le ha lasciato.
Il Vangelo di Giovanni presenta il discorso sul “pane di vita”, tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, nel quale afferma: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). Gesù sottolinea che non è venuto in questo mondo per dare qualcosa, ma per dare sé stesso, la sua vita, come nutrimento per quanti hanno fede in Lui. Questa nostra comunione con il Signore impegna noi, suoi discepoli, ad imitarlo, facendo della nostra esistenza, con i nostri atteggiamenti, un pane spezzato per gli altri, come il Maestro ha spezzato il pane che è realmente la sua carne. Per noi, invece, sono i comportamenti generosi verso il prossimo che dimostrano l’atteggiamento di spezzare la vita per gli altri.
Ogni volta che partecipiamo alla Santa Messa e ci nutriamo del Corpo di Cristo, la presenza di Gesù e dello Spirito Santo in noi agisce, plasma il nostro cuore, ci comunica atteggiamenti interiori che si traducono in comportamenti secondo il Vangelo. Anzitutto la docilità alla Parola di Dio, poi la fraternità tra di noi, il coraggio della testimonianza cristiana, la fantasia della carità, la capacità di dare speranza agli sfiduciati, di accogliere gli esclusi. In questo modo l’Eucaristia fa maturare uno stile di vita cristiano. La carità di Cristo, accolta con cuore aperto, ci cambia, ci trasforma, ci rende capaci di amare non secondo la misura umana, sempre limitata, ma secondo la misura di Dio. E qual è la misura di Dio? Senza misura! La misura di Dio è senza misura. Tutto! Tutto! Tutto! Non si può misurare l’amore di Dio: è senza misura! E allora diventiamo capaci di amare anche chi non ci ama: e questo non è facile. Amare chi non ci ama… Non è facile! Perché se noi sappiamo che una persona non ci vuole bene, anche noi siamo portati a non volerle bene. E invece no! Dobbiamo amare anche chi non ci ama! Opporci al male con il bene, di perdonare, di condividere, di accogliere. Grazie a Gesù e al suo Spirito, anche la nostra vita diventa “pane spezzato” per i nostri fratelli. E vivendo così scopriamo la vera gioia! La gioia di farsi dono, per ricambiare il grande dono che noi per primi abbiamo ricevuto, senza nostro merito. E’ bello questo: la nostra vita si fa dono! Questo è imitare Gesù. Io vorrei ricordare queste due cose. Primo: la misura dell’amore di Dio è amare senza misura. E’ chiaro questo? E la nostra vita, con l’amore di Gesù, ricevendo l’Eucaristia, si fa dono. Come è stata la vita di Gesù. Non dimenticare queste due cose: la misura dell’amore di Dio è amare senza misura. E seguendo Gesù, noi, con l’Eucaristia, facciamo della nostra vita un dono. 
Gesù, Pane di vita eterna, è disceso dal cielo e si è fatto carne grazie alla fede di Maria Santissima. Dopo averlo portato in sé con ineffabile amore, Ella lo ha seguito fedelmente fino alla croce e alla risurrezione. Chiediamo alla Madonna di aiutarci a riscoprire la bellezza dell’Eucaristia, a farne il centro della nostra vita, specialmente nella Messa domenicale e nell'adorazione.

Dopo l'Angelus:
Cari fratelli e sorelle,
il 26 giugno prossimo ricorrerà la Giornata delle Nazioni Unite per le vittime della tortura. In questa circostanza ribadisco la ferma condanna di ogni forma di tortura e invito i cristiani ad impegnarsi per collaborare alla sua abolizione e sostenere le vittime e i loro familiari. Torturare le persone è un peccato mortale! Un peccato molto grave!
Rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini!
In particolare saluto gli studenti della London Oratory School, i fedeli della Diocesi di Como e quelli di Ormea (Cuneo), il “Coro della Gioia” di Matera, l’associazione “L’Arca” di Borgomanero e i bambini di Massafra. Saluto anche i ragazzi del Liceo “Canova” di Treviso, il gruppo ciclistico di San Pietro in Gu, (Padova) e l’iniziativa “Vivere da Campione”, che ispirandosi a san Giovanni Paolo II ha portato in giro per l’Italia un messaggio di solidarietà.
Auguro a tutti una buona domenica e un buon pranzo. Pregate per me! Pregate per e arrivederci!
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lunedì 16 giugno 2014

La Consulta tradisce la Costituzione (Contributi 969)

Questo è in realtà un doppio post, o un post e mezzo per essere più precisi. Il mezzo lo sbrigo subito in quanto si tratta di rendere pubblico il fatto che molti avranno già notato: la mia personale latitanza dal blog. Purtroppo diversi "intoppi" rendono la mia disponibilità di tempo limitata e riducono la possibilità di pubblicare testi miei o altrui. Mi scuso e colgo l'occasione per chiedere a tutti una preghiera affinchè i vari "nodi" di salute (non tanto miei ma di chi mi vive accanto), lavorativi ed economici (e qui vengo toccato anch'io) possano essere sciolti con la materna intercessione di Maria.
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Vengo ora al vero post proponendovi un'intervista a Mons. Negri che è apparsa su "La Bussola Quotidiana" :

Stupefatto e preoccupato per la deriva ideologica della più alta magistratura italiana, che tradisce la Costituzione arrogandosi competenze non sue e promuovendo forme giuridiche e istituzionali nuove. È la reazione di monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio – ma ci tiene a precisare che in questo caso parla da «cittadino comune, senza implicare la responsabilità ecclesiale» – alle ultime sentenze della Corte costituzionale che hanno stabilito «il diritto al figlio» (leggi qui) e imposto al Parlamento di riconoscere le unioni civili, anche fra persone dello stesso sesso (leggi qui).

Monsignor Negri, anche a proposito di queste ultime sentenze della Corte Costituzionale si è parlato in questi giorni di magistratura creativa.Non so se la magistratura debba essere creativa, io so che la magistratura deve cercare di applicare la legge in un modo che sia adeguato: adeguato alla vita della società, adeguato anche a coloro che contingentemente si trovano ad essere oggetto della responsabilità della magistratura. Invece il cittadino comune assiste ogni giorno più stupefatto alla sostanziale modifica dei criteri fondamentali che hanno costituito il riferimento ideale della Costituzione e delle nostre istituzioni. In questi giorni ci siamo sentiti dire che appartiene alla struttura ultima della Costituzione italiana il diritto ad avere un figlio come principio incoercibile ed espressione della autodeterminazione della persona.
Princìpi che in effetti non troviamo nella Costituzione.Autodeterminazione è concetto ideologico, facilmente recuperabile all’interno di quel movimento secolarista, laicista e anticattolico che costituisce una parte delle ideologie presenti nel nostro paese, ma che certamente non ha determinato i princìpi fondamentali della Costituzione. Dire che in nome della Costituzione è necessario consentire questo diritto ad avere un figlio è fatto sostanzialmente incomprensibile.
Cosa è invece il figlio per la Costituzione?Per la immagine di famiglia naturale - e non di famiglia cattolica, si badi bene - che sta alla base della nostra Costituzione, il figlio trova la sua collocazione ideale e pratica all’interno di una comunione di vita precisamente normata dalla Costituzione e dal diritto italiano e che non lo vede come diritto dell’autodeterminazione né del singolo né della coppia, ma lo vede come gravissima e irriducibile responsabilità culturale, etica e sociale. Affermare che il figlio è un diritto incoercibile significa surrettiziamente far passare dei principi di riferimento della famiglia e del nostro Stato che non trovano alcuna formulazione né alcuna difesa nella nostra Costituzione. Questo è il fatto grave per il presente e per il futuro della nostra società.
Certe sentenze vengono giustificate con la difficoltà che hanno tante coppie nell’avere figli e dei problemi che ne derivano.Ma tutt’altro la “gente gente” (il popolo, secondo la definizione che ne dava monsignor Luigi Giussani) si sarebbe aspettata dai difensori della nostra Costituzione: collocare la difficoltà con cui talune coppie sono chiamate a vivere questa loro responsabilità ma in termini che tengano presenti tutti i fattori che costituiscono il riferimento della nostra Costituzione e hanno costituito l’impianto vivo e attivo della nostra socialità.
Poi è arrivata anche la sentenza sulla coppia dove uno dei protagonisti cambia sesso e però vogliono restare sposati. Qui la Corte Costituzionale ha confermato lo scioglimento del matrimonio ma imponendo al Parlamento di riconoscere le unioni civili in modo che i due possano continuare a godere degli stessi diritti.È una sentenza altrettanto stupefacente, anche questa chiaramente ideologica. È certo che non compete alla più alta magistratura – sia essa la Corte Costituzionale o la Corte di Cassazione - operare interventi di carattere ideologico che eccede i suoi compiti e le sue responsabilità. Oggi come oggi il diritto della persona, della famiglia, dei gruppi, delle realtà sociali, sembra più riferito o dipendente dalle ideologie che di volta in volta vengono messe in primo piano da una parte della magistratura, che non da quell’ethos sociale e storico di cui la magistratura dovrebbe essere in ogni caso custode e promotrice. Le grandi rivoluzioni - se proprio si vuole sprecare questo termine per queste vicende assolutamente banali - non si affermano in questo modo surrettizio e ultimamente imposto alla mentalità dei nostri cittadini e della nostra vita sociale.
Protestiamo giustamente per queste sentenze della Corte Costituzionale che toccano famiglia e vita, però vediamo che nel frattempo in Parlamento sta arrivando una valanga di proposte di legge che vanno nella stessa direzione.Con una grande differenza: che il Parlamento fa il suo lavoro. Esso è espressione di una vita sociale in difficoltà, in contrapposizione, talora in contraddizione in cui vivono profonde lacerazioni; è comprensibile che sia chiamato a legiferare tenendo conto della varietà delle posizioni. Toccherà poi alla maggioranza stabilire una linea e alla minoranza eventualmente mettere in atto tutte le contromisure.
Il Parlamento nell’affronto di questi problemi gode di una sua sovranità, la magistratura invece non ha il compito di promuovere forme giuridiche e istituzionali nuove. Se lo fa eccede dal suo preciso ambito e competenze. Mi sembra avesse ragione il presidente Cossiga, che in molte occasioni esprimeva fortissime riserve con questo modo di procedere della magistratura, che adesso sta raggiungendo le estreme e deplorevoli conseguenze.
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domenica 15 giugno 2014

Santissima Trinità (Angelus 197)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi celebriamo la solennità della Santissima Trinità, che presenta alla nostra contemplazione e adorazione la vita divina del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: una vita di comunione e di amore perfetto, origine e meta di tutto l’universo e di ogni creatura, Dio. Nella Trinità riconosciamo anche il modello della Chiesa, nella quale siamo chiamati ad amarci come Gesù ci ha amato. È l’amore il segno concreto che manifesta la fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. È l’amore il distintivo del cristiano, come ci ha detto Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). E’ una contraddizione pensare a cristiani che si odiano. E’ una contraddizione! E il diavolo cerca sempre questo: farci odiare, perché lui semina sempre la zizzania dell’odio; lui non conosce l’amore, l’amore è di Dio!
Tutti siamo chiamati a testimoniare ed annunciare il messaggio che «Dio è amore», che Dio non è lontano o insensibile alle nostre vicende umane. Egli ci è vicino, è sempre al nostro fianco, cammina con noi per condividere le nostre gioie e i nostri dolori, le nostre speranze e le nostre fatiche. Ci ama tanto e a tal punto che si è fatto uomo, è venuto nel mondo non per giudicarlo ma perché il mondo si salvi per mezzo di Gesù (cfr Gv 3,16-17). E questo è l’amore di Dio in Gesù, quest’amore che è tanto difficile da capire ma che noi sentiamo quando ci avviciniamo a Gesù. E Lui ci perdona sempre, Lui ci aspetta sempre, Lui ci ama tanto. E l’amore di Gesù che noi sentiamo è l’amore di Dio.
Lo Spirito Santo, dono di Gesù Risorto, ci comunica la vita divina e così ci fa entrare nel dinamismo della Trinità, che è un dinamismo di amore, di comunione, di servizio reciproco, di condivisione. Una persona che ama gli altri per la gioia stessa di amare è riflesso della Trinità. Una famiglia in cui ci si ama e ci si aiuta gli uni gli altri è un riflesso della Trinità. Una parrocchia in cui ci si vuole bene e si condividono i beni spirituali e materiali è un riflesso della Trinità.
L’amore vero è senza limiti, ma sa limitarsi, per andare incontro all’altro, per rispettare la libertà dell’altro. Tutte le domeniche andiamo alla Messa, celebriamo l’Eucaristia insieme e l’Eucaristia è come il “roveto ardente” in cui umilmente abita e si comunica la Trinità; per questo la Chiesa ha messo la festa del Corpus Domini dopo quella della Trinità. Giovedì prossimo, secondo la tradizione romana, celebreremo la Santa Messa a San Giovanni in Laterano e poi faremo la processione con il Santissimo Sacramento. Invito i romani e i pellegrini a partecipare per esprimere il nostro desiderio di essere un popolo «adunato nell’unità del Padre e del figlio e dello Spirito Santo» (San Cipriano). Vi aspetto tutti il prossimo giovedì, alle 19.00, per la Messa e la Processione del Corpus Christi.
La Vergine Maria, creatura perfetta della Trinità, ci aiuti a fare di tutta la nostra vita, nei piccoli gesti e nelle scelte più importanti, un inno di lode a Dio, che è Amore.

Dopo l'Angelus:
Cari fratelli e sorelle,
sto seguendo con viva preoccupazione gli avvenimenti di questi ultimi giorni in Iraq. Invito tutti voi ad unirvi alla mia preghiera per la cara nazione irachena, soprattutto per le vittime e per chi soffre maggiormente le conseguenze dell’accrescersi della violenza, in particolare per le molte persone, tra cui tanti cristiani, che hanno dovuto lasciare la propria casa. Auspico per tutta la popolazione la sicurezza e la pace ed un futuro di riconciliazione e di giustizia dove tutti gli iracheni, qualunque sia la loro appartenenza religiosa, possano costruire insieme la loro patria, facendone un modello di convivenza. Preghiamo la Madonna, tutti insieme per il popolo iracheno.
Ave Maria…
Voglio oggi annunciare che, accogliendo l’invito dei Vescovi e delle Autorità civili albanesi, intendo recarmi a Tirana nella giornata di domenica 21 settembre prossimo. Con questo breve viaggio desidero confermare nella fede la Chiesa in Albania e testimoniare il mio incoraggiamento e amore ad un Paese che ha sofferto a lungo in conseguenza delle ideologie del passato.
Ed ora saluto tutti voi, cari pellegrini presenti oggi: gruppi parrocchiali, tanti, famiglie e associazioni. In particolare saluto i militari della Colombia, i fedeli venuti da Taiwan e Hong Kong, da Ávila e La Rioja, in Spagna, da Venado Tuerto, in Argentina, da Cagliari, Albino, Vignola, Lucca e Battipaglia.
Saluto il Movimento Pro Sanctitate, nel centenario della nascita del fondatore, il Servo di Dio Guglielmo Giaquinta: cari amici, vi incoraggio a portare avanti con gioia l’apostolato della santità. Saluto i ragazzi di Casaleone che hanno ricevuto la Cresima, e i dipendenti del Gruppo IDI Sanità di Roma.
Un pensiero speciale va oggi alle collaboratrici domestiche e badanti, che provengono da tante parti del mondo e svolgono un servizio prezioso nelle famiglie, specialmente a sostegno degli anziani e delle persone non autosufficienti. Tante volte noi non valorizziamo con giustizia il grande e bel lavoro che loro fanno nelle famiglie. Grazie tante a voi!
E a tutti auguro buona domenica e buon pranzo. E non dimenticatevi di pregare per me. Arrivederci!
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giovedì 12 giugno 2014

La scoperta di essere fratelli (Contributi 968)

 Un articolo di Nicolò Ceccolini dal sito della Fraternità San Carlo:


Una delle gioie più profonde di questi primi mesi di sacerdozio è la celebrazione della Messa, in modo particolare quella nel carcere minorile di Casal del Marmo alla presenza dei ragazzi detenuti. Durante la settimana li invitiamo sempre e tutti. «Ma io non me la sento» è la classica risposta che riceviamo. «Guarda, proprio perché non te la senti devi venire. Gesù è lì per chi è barcollante. Vieni, siamo in buona compagnia».
Alla messa della domenica partecipa la maggior parte di loro, tra cui anche alcuni musulmani. È l’unico momento della settimana in cui hanno l’opportunità di incontrarsi, essendo divisi normalmente nelle due palazzine dove trascorrono la gran parte delle loro giornate. La messa diventa così un momento di incontro e un luogo dove poter rivolgere una parola a tutti i ragazzi.
Quando celebro con loro e per loro ci sono però due momenti della celebrazione che mi riempiono di meraviglia e gratitudine, i due momenti in cui la liturgia “costringe” il sacerdote a pronunciare la parola «fratelli»: la prima volta subito all'inizio quando, tutti assieme, ci si riconosce peccatori, si pensa alle proprie malefatte e si tiene lo sguardo fisso a terra per poter accogliere il perdono di Dio: «Fratelli, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamoci peccatori»; e la seconda, dopo aver presentato i doni all'altare: «Pregate fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio». A volte, guardando i loro volti mi chiedo: «Cosa ho a che fare con te?». Ed è proprio quella parola pronunciata, «fratelli», a mostrarmi la verità e a raccogliere tutto attorno a sé. È una parola che unisce le nostre vite e lo fa attraverso due atti: il pentimento e l’offerta a Dio delle nostre esistenze. Riconoscendoci peccatori, miseri e meschini ci scopriamo fratelli perché tutti accomunati dallo stesso bisogno di essere guardati nel nulla che siamo e così finalmente perdonati.
Allo stesso tempo, è proprio questa polvere, questa terra, questo fango, di cui siamo impastati, che di lì a poco verrà posto sull’altare e, attraverso le mani del sacerdote, diventerà il tesoro più prezioso del mondo, il corpo e il sangue di Cristo. Attorno all’altare storie lontanissime si incontrano, le rivalità che fino a poco prima bruciavano in cuore si attenuano, sguardi che prima neppure si incrociavano tornano ad unirsi. La messa rende possibile l’impossibile. E così viene riaperta la strada perché tutti insieme possiamo dire: «Padre nostro che sei nei cieli».
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domenica 8 giugno 2014

Pentecoste (Angelus 196)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
La festa di Pentecoste commemora l’effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli riuniti nel Cenacolo. Come la Pasqua, è un evento accaduto durante la preesistente festa ebraica, e che porta un compimento sorprendente. Il libro degli Atti degli Apostoli descrive i segni e i frutti di quella straordinaria effusione: il vento forte e le fiammelle di fuoco; la paura scompare e lascia il posto al coraggio; le lingue si sciolgono e tutti capiscono l’annuncio. Dove arriva lo Spirito di Dio, tutto rinasce e si trasfigura. L’evento della Pentecoste segna la nascita della Chiesa e la sua manifestazione pubblica; e ci colpiscono due tratti: è una Chiesa che sorprende e scompiglia.
Un elemento fondamentale della Pentecoste è la sorpresa. Il nostro Dio è il Dio delle sorprese, lo sappiamo. Nessuno si aspettava più nulla dai discepoli: dopo la morte di Gesù erano un gruppetto insignificante, degli sconfitti orfani del loro Maestro. Invece si verifica un evento inatteso che suscita meraviglia: la gente rimane turbata perché ciascuno udiva i discepoli parlare nella propria lingua, raccontando le grandi opere di Dio (cfr At 2,6-7.11). La Chiesa che nasce a Pentecoste è una comunità che suscita stupore perché, con la forza che le viene da Dio, annuncia un messaggio nuovo – la Risurrezione di Cristo – con un linguaggio nuovo – quello universale dell’amore. Un annuncio nuovo: Cristo è vivo, è risorto; un linguaggio nuovo: il linguaggio dell’amore. I discepoli sono rivestiti di potenza dall’alto e parlano con coraggio - pochi minuti prima erano tutti codardi, ma adesso parlano con coraggio e franchezza, con la libertà dello Spirito Santo.
Così è chiamata ad essere sempre la Chiesa: capace di sorprendere annunciando a tutti che Gesù il Cristo ha vinto la morte, che le braccia di Dio sono sempre aperte, che la sua pazienza è sempre lì ad attenderci per guarirci, per perdonarci. Proprio per questa missione Gesù risorto ha donato il suo Spirito alla Chiesa.
Attenzione: se la Chiesa è viva, sempre deve sorprendere. E’ proprio della Chiesa viva sorprendere. Una Chiesa che non abbia la capacità di sorprendere è una Chiesa debole, ammalata, morente e deve essere ricoverata nel reparto di rianimazione, quanto prima!
Qualcuno, a Gerusalemme, avrebbe preferito che i discepoli di Gesù, bloccati dalla paura, rimanessero chiusi in casa per non crearescompiglio. Anche oggi tanti vogliono questo dai cristiani. Invece il Signore risorto li spinge nel mondo: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). La Chiesa di Pentecoste è una Chiesa che non si rassegna ad essere innocua, troppo “distillata”. No, non si rassegna a questo! Non vuole essere un elemento decorativo. È una Chiesa che non esita ad uscire fuori, incontro alla gente, per annunciare il messaggio che le è stato affidato, anche se quel messaggio disturba o inquieta le coscienze, anche se quel messaggio porta, forse, problemi e anche, a volte, ci porta al martirio. Essa nasce una e universale, con un’identità precisa, ma aperta, una Chiesa che abbraccia il mondo ma non lo cattura; lo lascia libero, ma lo abbraccia come il colonnato di questa Piazza: due braccia che si aprono ad accogliere, ma non si richiudono per trattenere. Noi cristiani siamo liberi, e la Chiesa ci vuole liberi!
Ci rivolgiamo alla Vergine Maria, che in quel mattino di Pentecoste era nel Cenacolo, e la Madre era con i figli. In lei la forza dello Spirito Santo ha compiuto davvero “cose grandi” (Lc 1,49). Lei stessa lo aveva detto. Lei, Madre del Redentore e Madre della Chiesa, ottenga con la sua intercessione una rinnovata effusione dello Spirito di Dio sulla Chiesa e sul mondo.

Dopo il Regina Coeli:
Cari fratelli e sorelle,
vi saluto tutti, romani e pellegrini: le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni e i singoli fedeli. In particolare, saluto gli studenti della diocesi di Valencia (Spagna), il pellegrinaggio promosso dalla Congregazione del Santissimo Crocifisso di Vittoria, i bambini della Prima Comunione di Borgo a Buggiano (Pistoia), il gruppo Apostoli della Misericordia di Bitonto, i giovani di Latina Scalo, e i partecipanti al raduno delle automobili “Ferrari”.
Come sapete, questa sera in Vaticano i Presidenti di Israele e Palestina si uniranno a me e al Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, mio fratello Bartolomeo, per invocare da Dio il dono della pace nella Terra Santa, in Medio Oriente e nel mondo intero. Desidero ringraziare tutti coloro che, personalmente e in comunità, hanno pregato e stanno pregando per questo incontro, e si uniranno spiritualmente alla nostra supplica. Grazie! Grazie tante!
A tutti auguro una buona domenica. Pregate per me. Buon pranzo e arrivederci!
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giovedì 5 giugno 2014

Il centuplo della gioia (Contributi 967)

Ecco una riflessione di Michael Konrad dal sito della Fraternità S.Carlo

Mentre Gesù sale a Gerusalemme per offrire la propria vita per la salvezza degli uomini, gli apostoli Giovanni e Giacomo gli chiedono di poter sedere nella sua gloria uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. Come per gli altri dieci apostoli, anche per noi questa pretesa di un posto d’onore sembra fuori luogo. Gesù ammonisce Giacomo e Giovanni invitandoli a cercare la propria felicità non tanto nel dominio sugli altri, ma nel servizio reciproco. Forse noi saremmo tentati anche da un’altra obiezione alla loro richiesta (che Gesù in verità non fa): in Paradiso non ci saranno posti d’onore, ma tutti saranno trattati in modo uguale. 
Meditando con attenzione il brano evangelico troviamo però delle parole che ci sorprendono. Gesù dice infatti: «Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato» (Mc 10, 40). Questo vuol forse dire che ci saranno delle preferenze anche in Paradiso? Può la giustizia di Dio permettere che un santo sia più felice di un altro? 
Già sant'Agostino ha dovuto affrontare simili obiezioni. Per spiegare ai suoi amici la differenza tra i vari gradi di santità scrive: «Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna, altro lo splendore delle stelle; sì, perfino stella da stella differisce in splendore; così è per la risurrezione dei morti». Secondo sant'Agostino, in Paradiso ciascuno riceverà al banchetto escatologico un posto secondo il proprio merito: chi uno più vicino al Signore, chi uno più lontano. 
Questa verità ci sconcerta. Viviamo infatti in un mondo dove ciascuno invidia all’altro i suoi beni ed è contento solo se possiede più del vicino. Com’è dunque possibile che in Paradiso nessuno sarà deluso del suo posto, nemmeno coloro che siederanno nelle file posteriori? Ci sono due motivi. In primo luogo, tutti saranno contenti per il fatto stesso di essere in Paradiso e di poter godere dell’amicizia di Dio. Ma il motivo principale per il quale nessuno sarà amareggiato è perché non ci sarà più invidia. Nessuno paragonerà più la sua felicità con quella dell’altro, ma tutti godranno della gioia degli altri. Come in una famiglia una madre non è addolorata per il fatto che un figlio è contento, ma gode con lui ella stessa, così sarà per tutti alla fine dei tempi. Saremo raggianti nel vedere la gioia di Maria che è in cielo accanto a suo Figlio e la sua esultanza sarà la nostra. Spiega sempre sant’Agostino: «Per effetto della carità, ciò che ognuno possiede diventa comune a tutti. Quando uno ama, possiede nell’altro ciò che egli non ha. La diversità dello splendore non susciterà invidia perché regnerà in tutti l’unità della carità». 
Possiamo dunque paragonare la carità a un catalizzatore della gioia. La gioia del singolo non rimane riservata a lui personalmente, ma circola fra tutti i suoi amici. Uno non gode solo per la propria felicità, ma più ancora per quella del fratello. Il dono che Dio fa al mio prossimo, è in verità un dono fatto a me. 
La beatitudine in Paradiso sarà insieme perfetta (perché alla presenza di Dio e degli amici felici non manca più niente) e in permanente crescendo. Io vedendo la letizia dell’altro sarò grato, e poiché vedrò anche la sua gratitudine mi rallegrerò a mia volta. La gioia di tutti aumenterà così di giorno in giorno.
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domenica 1 giugno 2014

Ascensione (Angelus 195)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra l’Ascensione di Gesù al cielo, avvenuta quaranta giorni dopo la Pasqua. Gli Atti degli Apostoli raccontano questo episodio, il distacco finale del Signore Gesù dai suoi discepoli e da questo mondo (cfr At 1,2.9). Il Vangelo di Matteo, invece, riporta il mandato di Gesù ai discepoli: l’invito ad andare, a partire per annunciare a tutti i popoli il suo messaggio di salvezza (cfr Mt 28,16-20). “Andare”, o meglio, “partire” diventa la parola chiave della festa odierna: Gesù parte verso il Padre e comanda ai discepoli di partire verso il mondo.
Gesù parte, ascende al Cielo, cioè ritorna al Padre dal quale era stato mandato nel mondo. Ha fatto il suo lavoro, quindi torna al Padre. Ma non si tratta di una separazione, perché Egli rimane per sempre con noi, in una forma nuova. Con la sua ascensione, il Signore risorto attira lo sguardo degli Apostoli – e anche il nostro sguardo – alle altezze del Cielo per mostrarci che la meta del nostro cammino è il Padre. Lui stesso aveva detto che se ne sarebbe andato per prepararci un posto in Cielo. Tuttavia, Gesù rimane presente e operante nelle vicende della storia umana con la potenza e i doni del suo Spirito; è accanto a ciascuno di noi: anche se non lo vediamo con gli occhi, Lui c’è! Ci accompagna, ci guida, ci prende per mano e ci rialza quando cadiamo. Gesù risorto è vicino ai cristiani perseguitati e discriminati; è vicino ad ogni uomo e donna che soffre. È vicino a tutti noi, anche oggi è qui con noi in piazza; il Signore è con noi! Voi credete questo? Allora lo diciamo insieme: Il Signore è con noi!
Gesù, quando ritorna al Cielo porta al Padre un regalo. Quale è il regalo? Le sue piaghe. Il suo corpo è bellissimo, senza lividi, senza le ferite della flagellazione, ma conserva le piaghe. Quando ritorna dal Padre gli mostra le piaghe e gli dice: “Guarda Padre, questo è il prezzo del perdono che tu dai”. Quando il Padre guarda le piaghe di Gesù ci perdona sempre, non perché noi siamo buoni, ma perché Gesù ha pagato per noi. Guardando le piaghe di Gesù, il Padre diventa più misericordioso. Questo è il grande lavoro di Gesù oggi in Cielo: fare vedere al Padre il prezzo del perdono, le sue piaghe. È una cosa bella questa che ci spinge a non avere paura di chiedere perdono; il Padre sempre perdona, perché guarda le piaghe di Gesù, guada il nostro peccato e lo perdona.
Ma Gesù è presente anche mediante la Chiesa, che Lui ha inviato a prolungare la sua missione. L’ultima parola di Gesù ai discepoli è il comando dipartire: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). È un mandato preciso, non è facoltativo! La comunità cristiana è una comunità “in uscita”, “in partenza”. Di più: la Chiesa è nata “in uscita”. E voi mi direte: ma le comunità di clausura? Sì, anche quelle, perché sono sempre “in uscita” con la preghiera, con il cuore aperto al mondo, agli orizzonti di Dio. E gli anziani, i malati? Anche loro, con la preghiera e l’unione  alle piaghe di Gesù.
Ai suoi discepoli missionari Gesù dice: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (v. 20). Da soli, senza Gesù, non possiamo fare nulla! Nell’opera apostolica non bastano le nostre forze, le nostre risorse, le nostre strutture, anche se sono necessarie. Senza la presenza del Signore e la forza del suo Spirito il nostro lavoro, pur ben organizzato, risulta inefficace. E così andiamo a dire alla gente chi è Gesù.
E insieme con Gesù ci accompagna Maria nostra Madre. Lei è già nella casa del Padre, è Regina del Cielo e così la invochiamo in questo tempo; ma come Gesù è con noi, cammina con noi, è la Madre della nostra speranza.

Dopo il Regina Coeli:
APPELLO
Con animo rattristato, prego per le vittime delle tensioni che ancora continuano in alcune regioni dell’Ucraina, come pure nella Repubblica Centroafricana. Rinnovo il mio accorato appello a tutte le parti implicate, perché siano superate le incomprensioni e si ricerchi con pazienza il dialogo e la pacificazione. Maria, Regina della Pace, ci aiuti tutti con la sua intercessione materna. Maria, Regina della Pace, prega per noi.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
si celebra oggi la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, sul tema dellacomunicazione al servizio della cultura dell’incontro. I mezzi di comunicazione sociale possono favorire il senso di unità della famiglia umana, la solidarietà e l’impegno per una vita dignitosa per tutti. Preghiamo affinché la comunicazione, in ogni sua forma, sia effettivamente al servizio dell’incontro tra le persone, le comunità, le nazioni; un incontro fondato sul rispetto e sull’ascolto reciproco.
Ieri, a Collevalenza, è stata proclamata Beata Madre Speranza, nata in Spagna col nome di María Josefa Alhama Valera, fondatrice in Italia delle Ancelle e dei Figli dell’Amore Misericordioso. La sua testimonianza aiuti la Chiesa ad annunciare dappertutto, con gesti concreti e quotidiani, l’infinita misericordia del Padre celeste per ogni persona. Salutiamo tutti, con un applauso, la Beata Madre Speranza!
Saluto tutti voi, cari romani e pellegrini: le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni, le scuole. In particolare, saluto i fedeli di Lione e di Parigi, quelli provenienti dal Texas e da Aulendorf (Germania), e il gruppo di italiani che vivono a Ulm e Neu-Ulm. Saluto i ragazzi che hanno ricevuto o si preparano a ricevere la Cresima, incoraggiandoli ad essere gioiosi testimoni di Gesù. Saluto il coro di Palazzolo sull’Oglio e quello di Longi. Un pensiero speciale va ai numerosi Camperisti italiani, impegnati in opere di solidarietà, e ai ciclisti che danno vita all’iniziativa “Un chilometro per la Siria”.
A tutti auguro una buona domenica. Buon pranzo e arrivederci, e pregate per me!
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