Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

domenica 27 febbraio 2011

Maria nei Vangeli (Articoli 36)

Ecco un altro articolo di Ruggero Sangalli tratto da La Bussola ci parla di Maria al tempo della sua gravidanza:...

Si avvicina l’uscita del secondo libro del Santo Padre sulla vita di Gesù. In attesa di poterne essere edificato ed istruito, propongo questo articolo dedicato alla vita della donna che più da vicino ha contribuito all’incarnazione di Gesù, Dio fattosi uomo tra gli uomini.

Dal vangelo apprendiamo che quando Gesù prese carne in lei, Maria era una vergine, sposa di Giuseppe (Lc 1,27) ma non ancora in casa con lui (Mt 1,18). Questo fatto coincide con il sesto mese di gravidanza dell’anziana parente (il concetto di cugina era inesistente e c’era almeno una generazione di differenza di età) Elisabetta, moglie di Zaccaria, sacerdote della classe di Abia.
Il sesto mese di gravidanza inizia dopo cinque mesi ed un giorno e dura fino al compiersi del mese: dunque il concepimento di Giovanni, grossolanamente, datava da 150 a 180 giorni prima.
Non avvenne in un periodo qualunque, ma in corrispondenza del turno di servizio al tempio della classe di Abia, che quell’anno permetteva a Zaccaria di essere il sacerdote incaricato di offrire l’incenso al tempio, nel giorno dello yom kippur.
Questa chiave di lettura molto precisa trova la sua ragione in diversi indizi: l’insistenza sull’incenso (citato in tre versetti consecutivi in Lc 1,9-11); l’entrare dentro il santuario, nel Santo dei santi, oltre le imponenti cortine del “velo” del tempio, presso l’altare (Lc 1,9), tipico di questo peculiare giorno (Levitico 16 ed anche Es 30,10; Lev 23,27-31 e 25,9; Num 29,7-11); l’accenno al “toccare in sorte” che induce a pensare che potevano passare anni prima che la rotazione delle 24 classi sacerdotali (1 Cr 24,1-19) nell’ambito del calendario lunare con anni a lunghezza variabile, portasse un sacerdote (più d’uno per ogni classe) a poter officiare da solo lo yom kippur nel cuore del tempio.
Altre logiche considerazioni già illustrate a proposito dell’anno di battesimo di Gesù (nel XVI anno di regno di Tiberio) e sulla data di morte di Erode (che non fu nel 4 a.C., ma quasi quattro anni più tardi), portano a stabilire che il turno di Zaccaria del quale stiamo parlando è quello del 3 a.C. ed in particolare quello yom kippur (10 tishri), in base agli algoritmi dei calendari perpetui disponibili in internet, corrisponderebbe al 17 settembre del nostro attuale calendario gregoriano, un martedì (per quanto i calendari utilizzabili siano differenti, sette giorni sono sempre sette per tutti ed anche dove sono stati aggiunti o persi giorni, non è mai cambiato l’ordine dei sette).
Si era nel 3759 del calendario ebraico. Il turno sacerdotale durava una settimana ed andava da sabato a sabato. Per quanto ammutolito (Lc 1,22), Zaccaria terminò il proprio servizio e poi tornò a casa: il primo giorno utile (dopo il sabato immediatamente successivo) è il 20 settembre.
Il concepimento di Giovanni, annunciato a Zaccaria al tempio, deve essere avvenuto necessariamente dopo il suo ritorno a casa. Nella tradizione cristiana orientale se ne fa memoria liturgica, da data antichissima, al 22 settembre. Capitava in piena festa delle Capanne (dal 15 al 22 tishri), tra l’altro una festività di altissimo significato messianico.
I cinque mesi di gravidanza celata da Elisabetta, si compiono attorno al 20 di febbraio del 2 a.C.: nel mese successivo a questa data, nel sesto mese di Elisabetta, avviene l’Annunciazione.
Le parole utilizzate da Maria, come le ha riportate Luca (che a logica può averle sapute proprio dalla Madonna) fanno echeggiare la preghiera di Ester (Est 4,17), sia nell’atteggiamento tenuto con l’Angelo, sia, pochissimi giorni dopo, visitando Elisabetta e declamando il Magnificat.
Questo ulteriore indizio rimanda alla festività del purim, festa del “rovesciamento delle sorti”, che alla luce del cristianesimo rappresenta una vera grande debacle per satana e le sue losche manovre: in effetti la festa del purim (il 14 adar) del 2 a.C. è databile, nel nostro attuale calendario, al periodo che stiamo considerando, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo. Per Zaccaria è l’ora di tornare al turno al tempio, 24 settimane (168 giorni) dopo quello stranissimo settembre.
Giuseppe è aiutato da Dio nel suo momento difficile ad avere la forza ed il coraggio per iniziare a comprendere, ed a prendersi cura di Maria nel suo “sì” al Creatore. In effetti il “fiat” di Maria non fu un irenico assenso a una pia ispirazione: la giovane rischiava persino la lapidazione!
Le ragazze a quel tempo prendevano marito al compimento dei 14 anni di età. Il periodo di “fidanzamento” durava circa sei mesi. Queste conoscenze sui costumi del popolo ebraico a quei tempi fanno pensare che Maria compì l’età da marito nell’estate del 3 a.C. e che quindi nacque 14 anni prima, nel 17 a.C. Oggi ha 2026 anni compiuti e chi l’ha vista, la vede giovane.
Possiamo stupirci di fronte alla ricchezza di informazioni che provengono dai vangeli: i 46 anni del tempio, di cui ci parla il vangelo di Giovanni (Gv 2,20) corrispondono anche all’età di Maria nel 31 d.C., all’epoca in cui Gesù discusse a proposito degli anni da cui esisteva il tempio dopo i lavori di ristrutturazione avvenuti sotto Erode il grande.
In effetti il tempio è il luogo dove abita Dio; e Dio, per abitare tra gli uomini, ha preso casa in Maria di Nazaret. Ed è sempre al tempio che Gesù fu presentato, mettendo Maria (e non Giuseppe che infatti morì prima) di fronte alla raggelante profezia della spada di dolore che le avrebbe trapassato l’anima il giorno della crocifissione. Ancora al tempio Giuseppe e Maria seppero da Gesù dodicenne che il suo compito era differente da ciò che in cuor loro si sarebbero accontentati di accompagnare a compimento. Maria collegava le informazioni, ragionandole: la sua fede è tanto forte quanto razionalmente fondata sulla capacità e volontà di capire, alla luce dei fatti e forte della sua profonda conoscenza delle Scritture.
Maria è a Cana, a favorire la gioia degli sposi, forzando un po’ Gesù, che sa che non è ancora l’ora. Lei, la “piena di grazia” è presente a Pentecoste assistendo alla discesa dello Spirito di Dio sui discepoli, certamente usciti “meno bene” di lei, quanto a fede, dalle recentissime vicende pasquali.
Fanno un po’ tristezza (ma anche sorridere) coloro i quali ritengono eccessive le devozioni a Maria, la giovane di Nazaret, la sempre vergine, la dolce sposa di Giuseppe, la madre di Dio.
La Tradizione cattolica ha dogmaticamente proposto la sua straordinaria vicenda di concepita priva del peccato originale, assunta in cielo nel suo corpo glorioso e madre della Chiesa.
Maria ci è di decisivo aiuto nel capire chi sia davvero Gesù, come fidarci di Dio e come affidarci a lei, la mamma, per essere pieni di grazia anche nelle circostanze più dure, quando la fede emerge dal pianto, come nel sabato santo e dopo ogni venerdì santo della storia, sperando senza paura nella pasqua di Gesù, vero Dio e vero uomo, nostro Salvatore, vittorioso sul peccato e la morte.
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Assemblea PAV (Contributi 435)

Si è tenuta sabato 26/2 in Vaticano l'udienza di Benedetto XVI ai partecipanti alla XVII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, questo il discorso pronunciato dal Pontefice, che riporto in quanto è stato criticato.
Ma questo discorso è un chiaro esempio di "pensiero cristiano":

Signori Cardinali,

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari Fratelli e Sorelle,
vi accolgo con gioia in occasione dell’Assemblea annuale della Pontificia Accademia per la Vita. Saluto in particolare il Presidente, Mons. Ignacio Carrasco de Paula, e lo ringrazio per le sue cortesi parole. A ciascuno rivolgo il mio cordiale benvenuto! Nei lavori di questi giorni avete affrontato temi di rilevante attualità, che interrogano profondamente la società contemporanea e la sfidano a trovare risposte sempre più adeguate al bene della persona umana.
La tematica della sindrome post-abortiva - vale a dire il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all’aborto volontario - rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l’azione umana tradisce l’innata vocazione al bene dell’essere umano, che essa testimonia.
In questa riflessione sarebbe utile anche porre l’attenzione sulla coscienza, talvolta offuscata, dei padri dei bambini, che spesso lasciano sole le donne incinte.
La coscienza morale - insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica - è quel "giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto" (n. 1778). È infatti compito della coscienza morale discernere il bene dal male nelle diverse situazioni dell’esistenza, affinché, sulla base di questo giudizio, l’essere umano possa liberamente orientarsi al bene. A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale nell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o ad un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano. Nella coscienza morale Dio parla a ciascuno e invita a difendere la vita umana in ogni momento. In questo legame personale con il Creatore sta la dignità profonda della coscienza morale e la ragione della sua inviolabilità.
Nella coscienza l’uomo tutto intero - intelligenza, emotività, volontà - realizza la propria vocazione al bene, cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere. Tutto l’uomo, infatti, rimane ferito quando il suo agire si svolge contrariamente al dettame della propria coscienza.
Tuttavia, anche quando l’uomo rifiuta la verità e il bene che il Creatore gli propone, Dio non lo abbandona, ma, proprio attraverso la voce della coscienza, continua a cercarlo e a parlargli, affinché riconosca l’errore e si apra alla Misericordia divina, capace di sanare qualsiasi ferita.
I medici, in particolare, non possono venire meno al grave compito di difendere dall’inganno la coscienza di molte donne che pensano di trovare nell’aborto la soluzione a difficoltà familiari, economiche, sociali, o a problemi di salute del loro bambino. Specialmente in quest’ultima situazione, la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l’aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto "terapeutico" per evitare sofferenze al bambino e alla sua famiglia, e un "ingiusto" peso alla società.
Su uno sfondo culturale caratterizzato dall’eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell’aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana, si richiede ai medici una speciale fortezza per continuare ad affermare che l’aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare.
Tale compito, tuttavia, non riguarda solo la professione medica e gli operatori sanitari. È necessario che la società tutta si ponga a difesa del diritto alla vita del concepito e del vero bene della donna, che mai, in nessuna circostanza, potrà trovare realizzazione nella scelta dell’aborto.
Parimenti sarà necessario - come indicato dai vostri lavori - non far mancare gli aiuti necessari alle donne che, avendo purtroppo già fatto ricorso all’aborto, ne stanno ora sperimentando tutto il dramma morale ed esistenziale. Molteplici sono le iniziative, a livello diocesano o da parte di singoli enti di volontariato, che offrono sostegno psicologico e spirituale, per un recupero umano pieno.
La solidarietà della comunità cristiana non può rinunciare a questo tipo di corresponsabilità. Vorrei richiamare a tale proposito l’invito rivolto dal Venerabile Giovanni Paolo II alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto: "La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s’è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita" (Enc. Evangelium vitae, 99).
La coscienza morale dei ricercatori e di tutta la società civile è intimamente implicata anche nel secondo tema oggetto dei vostri lavori: l’utilizzo delle banche del cordone ombelicale, a scopo clinico e di ricerca. La ricerca medico-scientifica è un valore, e dunque un impegno, non solo per i ricercatori, ma per l’intera comunità civile. Ne scaturisce il dovere di promozione di ricerche eticamente valide da parte delle istituzioni e il valore della solidarietà dei singoli nella partecipazione a ricerche volte a promuovere il bene comune. Questo valore, e la necessità di questa solidarietà, si evidenziano molto bene nel caso dell’impiego delle cellule staminali provenienti dal cordone ombelicale. Si tratta di applicazioni cliniche importanti e di ricerche promettenti sul piano scientifico, ma che nella loro realizzazione molto dipendono dalla generosità nella donazione del sangue cordonale al momento del parto e dall’adeguamento delle strutture, per rendere attuativa la volontà di donazione da parte delle partorienti. Invito, pertanto, tutti voi a farvi promotori di una vera e consapevole solidarietà umana e cristiana. A tale proposito, molti ricercatori medici guardano giustamente con perplessità al crescente fiorire di banche private per la conservazione del sangue cordonale ad esclusivo uso autologo. Tale opzione - come dimostrano i lavori della vostra Assemblea - oltre ad essere priva di una reale superiorità scientifica rispetto alla donazione cordonale, indebolisce il genuino spirito solidaristico che deve costantemente animare la ricerca di quel bene comune a cui, in ultima analisi, la scienza e la ricerca mediche tendono.
Cari Fratelli e Sorelle, rinnovo l’espressione della mia riconoscenza al Presidente e a tutti i Membri della Pontificia Accademia per la Vita per il valore scientifico ed etico con cui realizzate il vostro impegno a servizio del bene della persona umana. Il mio augurio è che manteniate sempre vivo lo spirito di autentico servizio che rende le menti e i cuori sensibili a riconoscere i bisogni degli uomini nostri contemporanei. A ciascuno di voi e ai vostri cari imparto di cuore la Benedizione Apostolica.
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Domenica 8^ t.ord. (Angelus 11)

Cari fratelli e sorelle!

Nella Liturgia odierna riecheggia una delle parole più toccanti della Sacra Scrittura. Lo Spirito Santo ce l’ha donata mediante la penna del cosiddetto “secondo Isaia”, il quale, per consolare Gerusalemme abbattuta dalle sventure, così si esprime: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). Questo invito alla fiducia nell’indefettibile amore di Dio viene accostato alla pagina, altrettanto suggestiva, del Vangelo di Matteo, in cui Gesù esorta i suoi discepoli a confidare nella provvidenza del Padre celeste, il quale nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo, e conosce ogni nostra necessità (cfr 6,24-34). Così si esprime il Maestro: “Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno”.
Di fronte alla situazione di tante persone, vicine e lontane, che vivono in miseria, questo discorso di Gesù potrebbe apparire poco realistico, se non evasivo. In realtà, il Signore vuole far capire con chiarezza che non si può servire a due padroni: Dio e la ricchezza. Chi crede in Dio, Padre pieno d’amore per i suoi figli, mette al primo posto la ricerca del suo Regno, della sua volontà.
E ciò è proprio il contrario del fatalismo o di un ingenuo irenismo.
La fede nella Provvidenza, infatti, non dispensa dalla faticosa lotta per una vita dignitosa, ma libera dall’affanno per le cose e dalla paura del domani.
E’ chiaro che questo insegnamento di Gesù, pur rimanendo sempre vero e valido per tutti, viene praticato in modi diversi a seconda delle diverse vocazioni: un frate francescano potrà seguirlo in maniera più radicale, mentre un padre di famiglia dovrà tener conto dei propri doveri verso la moglie e i figli.
In ogni caso, però, il cristiano si distingue per l’assoluta fiducia nel Padre celeste, come è stato per Gesù.
E’ proprio la relazione con Dio Padre che dà senso a tutta la vita di Cristo, alle sue parole, ai suoi gesti di salvezza, fino alla sua passione, morte e risurrezione. Gesù ci ha dimostrato che cosa significa vivere con i piedi ben piantati per terra, attenti alle concrete situazioni del prossimo, e al tempo stesso tenendo sempre il cuore in Cielo, immerso nella misericordia di Dio.
Cari amici, alla luce della Parola di Dio di questa domenica, vi invito ad invocare la Vergine Maria con il titolo di Madre della divina Provvidenza. A lei affidiamo la nostra vita, il cammino della Chiesa, le vicende della storia. In particolare, invochiamo la sua intercessione perché tutti impariamo a vivere secondo uno stile più semplice e sobrio, nella quotidiana operosità e nel rispetto del creato, che Dio ha affidato alla nostra custodia.
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Aldo Trento 05/02/11 (Interventi 77)

Come detto nel post precedente, è un po' che ho ricevuto questa mail ma riesco a pubblicarla solo ora, ma nulla è tolto alla dellezza della sua  testimonianza:

Cari amici,

La Presenza del Mistero, presente in ogni istante nella Clinica in Cristo Eucarestia e nel Cristo que soffre rende questo luogo un’esperienza quotidiana del miracolo.
Guardate il mio figlio adottivo Aldo come con gioca con il mio Marietto. I letti erano separati e –non so come abbiamo fatto– d’improvviso entro nella camera con il Santissimo Sacramento e li trovo accostati e loro che giocano.
Quel “Tu che mi fai” veramente. quando diventa la coscienza dell’io, permette che perfino due bambini, apparentemente incapaci di comunicare, di viver con vera letizia la loro condizione umana.
Guardandoli giocare, mentre tenevo il S.S in mano, mi sono comosso perché vedevo nei loro occhi e nel loro chiasso l’evidente Presenza di quell “Tu” che domina la mia vita e tutto ció che mi circonda. Mentre il mondo direbbe che sono handiccapati e – chissá– molti genitori si vergognerebbero di avere dei figli cosí belli. Belli perché sono Gesú e per questo mi metto in adorazione davanti a loro.
Che Dio doni ad ognuno un cuore capace di vederi nei propri figli Gesú, in particolare a quelle mamme inciente che aspettano con ansia il risultato di una ecografia, intimorite che il bambino abbia qualche difetto, dimenticando che, qualunque sia la sua condizione, é Gesú.
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Aldo Trento 26/01/11 (Interventi 76)

E' già un po' che ho ricevuto, tramite una cara amica questa nuova, bellissima lettera di Padre Aldo dal Paraguay e anche tardando un mese la pubblicazione non v'è perdita alcuna di contenuto:

Cari amici,

Guardateli come sono felici, eppure tutti hanno un passato di violenza. Guardate Vittoria che occhi bellissimi, la bambina abbandonata per la mamma appena nata e incontrata vicino a una tomba.
Perché sono felici? Perché il loro DNA é totalmente definito da “Io sono Tu che mi fai”. Hanno un casino di problemi, ma sono felici perché amati. É la sorpresa perfino della psicologa che cammina con noi.
Lei parla di contenzione rispetto al loro comportamento, io parlo di commozione, di sguardo come quello che ha incontrato Zaccheo.
Non so se ve l’ho detto, ma i miei bambini in etá scolare sono stati tutti promossi con la media del 4 (il massimo voto é 5).
Amici la vita é una appartenenza, e non una preoccupazione o una strategia.
Cosí quando ne fanno di tutti colori e la pazienza é al limite, scatta quella certezza “Io sono Tu che mi fai” e lo sguardo diventa stupore e riprendi il cammino.
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giovedì 24 febbraio 2011

..e prenda ogni giorno la sua croce su di sè-2 (Interventi 75)

Proseguo (e concludo) l'intervento di ieri..

Se nel santo segno della croce – dapprima probabilmente tracciato solo "nel nome del nostro Salvatore Gesù Cristo", poi "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Barsanufio e Giovanni, Epist. 46) – è insito un tale potere, allora si capisce che non solo non è possibile farlo per futile ricerca di gloria, ma nemmeno con distrazione. La tradizione della chiesa ha perciò fissato anche il modo in cui si deve fare il segno di croce.

Come mostrano i testi tratti dall’epoca patristica che sono stati citati finora, ci si imprimeva in un primo tempo il "piccolo segno" (signaculum) – probabilmente anche solo con un dito – sia nell’oriente greco che nell’occidente latino, soprattutto sulla propria fronte. Allo stesso modo, poi, per occasioni particolari, si "poneva il sigillo" anche sulle labbra, sul cuore, finché, col tempo, di qui si sviluppò quell’ampio gesto che è familiare a tutti, mediante il quale, per così dire, il credente si pone con tutto il suo corpo sotto la croce di Cristo.
Si deve ammirare come i demoni e le molte specie di malattie vengono cacciati dal segno della croce preziosa e vivificante, che ognuno può fare senza spesa e senza fatica. E chi sarebbe in grado di enumerare le lodi [a onore della santa croce]? Ma i santi padri ci hanno trasmesso il significato del suo santo segno per confutare gli increduli e gli eretici.
Dunque, le due dita e l’unica mano rappresentano il Signore Gesù Cristo crocifisso, che viene riconosciuto in due nature e in un’unica ipostasi. La mano destra ricorda la sua sconfinata potenza (Sal 117,15 e passim) e il suo essere assiso alla destra del Padre (Sal 109,1 / Mt 22,44 e passim). E si incomincia dall’alto [a fare il segno] a causa della sua discesa dai cieli sino a noi . (Ef 4,10) e inoltre, [il portare la mano] dalla parte destra alla sinistra mette in fuga i nemici e indica che il Signore, con la sua invincibile potenza, ha vinto il diavolo, che è un essere sinistro, impotente e tenebroso .
(Pietro Damasceno, Libro I. la differenza tra i pensieri e gli stimoli (cf. Filocalia III, p. 192).
E’ facile vedere che questa "croce con le due dita", che ci è ben nota come gesto di benedizione da numerose rappresentazioni di Cristo in oriente e in occidente e che i "vecchi credenti" in Russia hanno conservato fino ad oggi, deve aver avuto origine in un ambiente caratterizzato da "non credenti" ed "eretici". Le due dita e l’unica mano sono – contro monofisiti e nestoriani – una muta confessione delle due nature del Figlio fatto uomo in un’unica ipostasi (o persona). Molto più antico e non legato a un determinato tempo è, invece, il simbolismo biblico "alto - basso", "destra - sinistra", che fino ad oggi è rimasto profondamente radicato nel linguaggio e nelle consuetudini della vita quotidiana.

Con la scomparsa delle sopraccitate controversie cristologiche o, forse, in un contesto libero da esse, il segno di croce ha dispiegato, allora, tutta la pienezza del suo simbolismo e ha trovato la sua forma definitiva.
Si deve fare il segno di croce con [le] tre [prime] dita [della mano destra], perché viene impresso sotto invocazione della Trinità – di cui il profeta dice: "Chi tiene appesa con tre dita la massa della terra?" (Is 40,12 Vulg.)  – in modo tale che si scenda dall’alto verso il basso e si vada da destra a sinistra, perché Cristo è disceso dal cielo fin sulla terra ed è passato dagli ebrei ai pagani
(Innocenzo III papa, De sacro altaris mysterio II, 45 (PL 217,825))

Allo stesso modo in cui Innocenzo III, allora ancora diacono della chiesa di Roma, descrive l’esecuzione del segno di croce – siamo sul finire del XII secolo –, così veniva fatto, a quell’epoca, anche nell’ambito della chiesa d’oriente e così fanno, ancora oggi, i cristiani ortodossi. Anche al di là del grande scisma del 1054, dunque, il segno della santa croce rimase, per un certo tempo, un gesto di profondo, ben ponderato simbolismo, che continuava a unire oriente e occidente.

Come mostra, però, il seguito del capitolo appena citato, già allora "alcuni" cominciarono a tracciare in direzione opposta il lato trasversale della croce, dunque da sinistra a destra, come è, oggi, l’unico modo in uso in occidente. A questo si addiceva una giustificazione simbolica e una pratica: dobbiamo infatti – è detto – passare dalla miseria (simboleggiata dalla sinistra, il lato "non buono") allo splendore (simboleggiato dalla destra, il lato "buono"), come anche Cristo è passato dalla morte alla vita e dagli inferi al paradiso. Inoltre, ci si dovrebbe fare il segno della croce nella stessa maniera in cui si viene "segnati" nella benedizione.
Innocenzo non si esprime riguardo alla motivazione simbolica; quella pratica, tuttavia, non l’ammette come valida. Infatti, egli richiama giustamente l’attenzione sul fatto che noi non facciamo certo il segno della croce sugli altri come se ci girassero la schiena, bensì stando faccia a faccia. Per questo il prete segna il lato trasversale da sinistra a destra, cosicché il credente lo riceva da destra a sinistra, in modo del tutto uguale a come egli fa il segno di croce su se stesso.
E’ cosa deplorevole che da "alcuni" si sia passati presto a "molti" e poi a "tutti", nonostante le parole molto chiare del grande papa, e così sia andato perso un pezzo in più di quella comune eredità che in passato legava oriente e occidente. E cosa ancor più deplorevole è il fatto che oggi, in occidente, probabilmente più nessuno conosca il simbolismo del segno di croce, così come ce lo hanno trasmesso i padri.
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mercoledì 23 febbraio 2011

..e prenda ogni giorno la sua croce su di sè-1 (Interventi 74)


Gabriel Bunge
 Una delle cose belle che mi sono capitate cominciando l'avventura di questo blog è stato quello di conoscere persone. Conoscerle virtualmente o anche, come in questo caso, qualcosa in più, dove, dopo una conversazione telefonica con questa amica, è nata l'idea di una collaborazione, di cui il presente post è il primo passo e che viene proposto in due puntate.
Si tratta di un testo di Padre Gabriel Bunge, eremita benedettino che ci spiega il significato profondo di un gesto che dovrebbe essere a noi arci-noto: il segno della croce.

Uno dei più antichi gesti esclusivamente cristiani, che tuttavia non è limitato solo all’ambito della preghiera, è quello di farsi il segno di croce o, più precisamente, "sigillarsi" o "segnarsi" (con il segno di croce).

A ogni passo, nell’entrare e nell’uscire, nel vestirsi e nel calzarsi, nel lavarsi, nel mangiare, nell’accendere il lume, nell’andare a dormire, nel mettersi a sedere e in qualunque attività che esercitiamo, noi imprimiamo sulla nostra fronte il piccolo segno [di croce]
(Tertuliano, De corona 3 (tr. It.: La corona, a cura di P. A. Gramaglia, Roma 1980, p. 153)
Per l’oriente greco, Origene attesta che "tutti i credenti, prima di iniziare una qualsiasi attività, ma soprattutto prima della preghiera o delle sante letture [della Scrittura] ", segnano la loro fronte con la croce. Facevano questo segno perché scorgevano in esso la lettera tau – scritta come una croce (+) in ebraico antico e come una " Т " in greco – con la quale venivano contrassegnati i fedeli secondo Ez 9,4, il che era come "una profezia del segno [di croce] sulla fronte, così usuale presso i cristiani" . (Origene, Selecta in Ez. 9 (PG 13,800-801). Faceva questo probabilmente già il veggente stesso dell’Apocalisse, che parlava del "sigillo del nostro Dio da imprimere sulla fronte dei suoi servi" . (Ap 7,3 e passim) Anche in Lc 9, 23, e paralleli, il senso è probabilmente da intendersi in riferimento a un tale "contrassegno".
Comunque valutino gli storici l’origine di questo gesto, per i padri si tratta di una di quelle "primitive tradizioni non scritte" (Evagrio, Mal. Cog. 33 r.l.) che risalgono agli apostoli e, con essi, alla chiesa stessa delle origini, sebbene – intenzionalmente – non siano state fissate per iscritto (Basilio, Spir. Sancto XXVII,66.). Anche Tertulliano, nella sua opera sopraccitata, redatta nel 211, rimanda già a questa tradizione della chiesa. Un testo che proviene dall’ambiente dai monaci pacomiani d’Egitto spiega che questo gesto – al pari del volgersi a oriente durante la preghiera – ricordava ai primi cristiani anche il loro battesimo, quell’evento, dunque, che sovrasta ogni cosa e al quale erano debitori del loro essere cristiani e, con questo, della loro redenzione.
Segnamoci all’inizio delle nostre preghiere con il segno del battesimo, facciamo sulla nostra fronte il segno della croce come nel giorno in cui fummo battezzati e come sta scritto in Ezechiele
(Ez 9, 4)
Non fermiamo prima la nostra mano, alla bocca o alla barba, ma portiamola sulla fronte, dicendo nel nostro cuore: "Ci siamo segnati con il sigillo!". Questo non equivale al sigillo del battesimo, ma il giorno in cui siamo stati battezzati, sulla fronte di ciascuno di noi fu impresso il segno della croce
(Pacomio, Reg. 7.)

In realtà, nessun altro gesto come questo di farsi il segno di croce mostra il cristiano in quanto "cristiano", come un uomo, dunque, la cui salvezza viene solo dalla morte in croce di Cristo, nella quale è stato inserito misteriosamente mediante il battesimo.
"Portare il segno della croce"(Cf. Lc 14,27). Clemente sostituisce qui, spontaneamente, la parola "croce" con "segno" (semeîon), perché intende il testo in riferimento al segno di croce. (Cf. anche Mt 24,30): il "segno del Figlio dell’uomo") significa, però, "portare sempre e dovunque la morte con sé" (Cf. 2Cor 4,10.) "avendo rinunciato a tutto" (Cf. Lc 14,33.)  mentre si è ancora in vita, poiché vi è una differenza tra l’amore per chi ha generato la carne e [l’amore] per chi ha creato l’anima per la conoscenza
(Clemente di Alessandria, Strom. VII, 79,7.)
Per questo motivo il santo segno di croce, che facciamo su noi stessi o su altri, è sempre una confessione della vittoria che Cristo ha conseguito su ogni potere avverso. Perciò, i padri si servivano sempre di tale segno, allorquando si sapevano messi a confronto con queste forze avverse. Già Antonio il Grande insegnava ai suoi
discepoli che i demoni e i loro fantasmi, in realtà, non sono "nulla e svaniscono ben presto, soprattutto se ci armiamo con la fede e con il segno della croce" (VA 23,4; cf. 13,5.). La stessa cosa vale nei confronti di tutte le forme di magia pagana (Ibid. 78, 5.).
Se apponi spesso il sigillo alla tua fronte e al [tuo] cuore con il segno della croce del Signore, i demoni, tremando, fuggiranno davanti a te, perché rabbrividiscono violente- mente di fronte a questo beato segno !
(Nilo di Ancira, Epistulae II, 304)
Se vuoi annientare i ricordi non buoni e i multiformi attacchi del nemico che tengono prigioniero lo spirito, allora armati in fretta del pensiero del Salvatore e dall’infuocata invocazione del suo nome sublime, giorno e notte, apponendo, ripetutamente, il sigillo con il segno della croce del Signore, tanto sulla tua fronte quanto sul petto. Infatti, ogni qualvolta viene nominato il nome del nostro Salvatore Gesù Cristo e viene posto il sigillo della croce del Signore sul cuore e sulla fronte e sulle altre membra del corpo, senza dubbio viene eliminato il potere del nemico e i demoni malvagi fuggono tremanti davanti a noi .
(Nilo di Ancira, Epistolae III,278.)
Ma, per quanto sia grande il potere del segno della croce, non si tratta di un gesto magico. E’ la fede che lo fa diventare potente!
Quando sei tentato, segnati la fronte con devozione. Questo segno della passione è un segno contro il diavolo, se lo fai con fede e non per essere visto dagli uomini. Tu lo devi presentare con accortezza, come uno scudo, e l’avversario vedrà la forza che viene dal cuore
(Ippolito di Roma, Traditio apostolica 42)
[CONTINUA]

L’attualità di don Giussani (Contributi 434)

Ieri, o anche meno di 1 ora fà,ricorreva il sesto anniversario della scomparsa di Mons.Giussani, fondatore del Movimento di Comunione e Liberazione. Quest'articolo de Il Sussidiario lo ricorda:


Ai crescenti dubbi che il cosiddetto “pensiero debole” sia in grado di sopportare le sfide dei cambiamenti in corso, si oppongono, sempre più numerosi, quanti pensano che ai processi decostruttivi frutto della razionalità nichilista occorra opporre il richiamo alla virtù e al bene comune esito dell’esercizio razionale capace di misurarsi con la realtà.
Il campo dell’educazione può essere assunto come caso paradigmatico dell’urgenza di un cambiamento di rotta. Troppi giovani crescono nel libertarismo e quasi dell’anarchia morale, troppi cattivi maestri vivono rinchiusi nel narcisismo quotidiano, troppe parole sono scomparse - o quasi - dal vocabolario educativo quotidiano come impegno, rigore, esempio, maestro, interiorità, bene. Per contro genitori, insegnanti, educatori chiedono aiuto e moltiplicano gli sforzi per rispondere al bisogno educativo sempre più diffuso e incalzante.
La rilettura del Rischio educativo e delle tante pagine ricche di profondità pedagogica che si trovano nelle opere di Luigi Giussani forniscono importanti apporti, utili a riproporre alcune significative riflessioni della cultura educativa cristiana del secolo scorso, svolgendosi nel solco tracciato da Maritain e Guardini, da Ricoeur e Ratzinger.
L’architrave della proposta pedagogica giussaniana sta nella concezione “piena” dell’educazione: un evento che coinvolge la persona nella sua globalità fatta di intelligenza, affettività, comunione con gli altri, apertura al trascendente e un’esperienza realizzata tra persone vive e non solo affidata a “esperti” (formatori, istruttori, operatori, terapeuti, ecc.) che di volta in volta si preoccupano dell’altro come una persona da “plasmare” o da “curare” e non da far crescere nella sua libertà. Contro ogni riduzionismo antropologico, Giussani alza forte l’avvertimento che l’uomo non è un semplice prodotto della natura o della società.
Perché l’educazione sia “piena” c’è bisogno che essa sia libera. L’introduzione nella “realtà totale” (come Giussani definisce l’educazione) si compie, infatti, attraverso la prova di sé, con l’ineluttabile “rischio” che essa comporta, perché la prova dell’umano coinvolge e talvolta sconvolge ogni nostra fibra. Ma solo attraverso questa prova si conquista la dignità di persone libere e capaci di volere.
Contro l’assurda idea della libertà che trova se stessa nella rottura di ogni legame, nel vuoto delle infinite possibilità del Nulla, Giussani ci parla invece di una libertà che per crescere ha bisogno di “qualcuno” e di “qualcosa” e cioè di una testimonianza personale e di una storia da vivere. L’educazione si compie quando si manifesta “il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che si è fatta carico di te”, non per diventare come “quella persona nella sua concretezza piena di limiti”, ma “come quella persona per quello che ti ha amato”.
Detto in altro modo, e sempre con le parole di Giussani, “educare è proporre una risposta”.
Nessuno si “fa da sé”. Oggi siamo poveri di educazione perché scarseggiano gli adulti capaci di testimoniare e di amare, di accompagnare e sostenere, adulti credibili che non dicono “fai così”, ma “fai con me”, adulti disposti a intraprendere il cammino con figli e allievi con pazienza e speranza, due parole “pedagogiche” per eccellenza. La vita ha le sue lentezze e l’uomo lentamente si libera adagio dai suoi impulsi e dalla sua naturale spontaneità.
Senza la speranza si cede all’assurdo: tutto si distrugge perché nulla può essere raggiunto.
A chi pensa di migliorare le scuole aumentando i test e a chi si illude di vincere la solitudine dei giovani con gli “sportelli psicologici”, Giussani risponde che l’educazione è qualcosa di ben più profondo: è l’incontro tra persone vere che amano, aspirano al bello, soffrono e gioiscono, sono aperte al Mistero.
In questo sta l’attualità del suo insegnamento: l’educazione come esperienza viva, non una tecnica.
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martedì 22 febbraio 2011

Un ricordo (Post 118)

Ho avuto problemi con il pc in questo fine settimana e ho avuto una pausa forzata nel mio collegarmi ad internet. Per questo non ho potuto partecipare pienamente, come avrei desiderato, agli ultimi giorni di una cara amica. Rita è stata una delle prime persone con cui sono entrato in contatto quando ho cominciato a muovermi nel mondo virtuale. Non so quale fosse la sua voce e conosco il suo volto solo tramite foto digitali, ma i numericamente scarni contatti che ho avuto con lei, colpa fondalmente mia che spesso latito, non sono mai stati formali o di cortesia.
Io sapevo di avere un amica sicura e che in qualunque momento e dopo qualunque silenzio avrebbe risposto con paziente bontà alla mia mail o al mio contatto. Come so ora di avere un ulteriore angelo custode in cielo e vegliare sul mio cammino e a pregare Dio, Gesù e Maria di non farmi mai mancare la loro protezione, senza la quale faccio, dico e penso una caterba di inutili e perniciose banalità. E come so che posso imparare,e molto, dal suo esempio e dalle ultime cose che scriveva e che ho avuto la grazia di leggere.
Anche se sarà triste vedere il suo blog fermo a dicembre 2010 sarà di conforto saperla immersa nell'abbraccio di quel Dio che ha tanto amato.
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lunedì 21 febbraio 2011

Domenica 7^ t.ord. (Angelus 10)

Cari fratelli e sorelle!

In questa settima domenica del Tempo Ordinario, le letture bibliche ci parlano della volontà di Dio di rendere partecipi gli uomini della sua vita: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» - si legge nel Libro del Levitico (19,1). Con queste parole, e i precetti che ne conseguono, il Signore invitava il popolo che si era scelto ad essere fedele all’alleanza con Lui camminando sulle sue vie e fondava la legislazione sociale sul comandamento «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Se ascoltiamo, poi, Gesù, nel quale Dio ha assunto un corpo mortale per farsi prossimo di ogni uomo e rivelare il suo amore infinito per noi, ritroviamo quella stessa chiamata, quello stesso audace obiettivo.
Dice, infatti, il Signore: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48).
Ma chi potrebbe diventare perfetto? La nostra perfezione è vivere con umiltà come figli di Dio compiendo concretamente la sua volontà. San Cipriano scriveva che «alla paternità di Dio deve corrispondere un comportamento da figli di Dio, perché Dio sia glorificato e lodato dalla buona condotta dell’uomo» (De zelo et livore, 15: CCL 3a, 83).
In che modo possiamo imitare Gesù? Gesù stesso dice: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45).
Chi accoglie il Signore nella propria vita e lo ama con tutto il cuore è capace di un nuovo inizio.
Riesce a compiere la volontà di Dio: realizzare una nuova forma di esistenza animata dall’amore e destinata all’eternità. L’apostolo Paolo aggiunge: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 3,16). Se siamo veramente consapevoli di questa realtà, e la nostra vita ne viene profondamente plasmata, allora la nostra testimonianza diventa chiara, eloquente ed efficace. Un autore medievale ha scritto: «Quando l’intero essere dell’uomo si è, per così dire, mescolato all’amore di Dio, allora lo splendore della sua anima si riflette anche nell’aspetto esteriore» (Giovanni Climaco, Scala Paradisi, XXX: PG 88, 1157 B), nella totalità della vita. «Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3).
Cari amici, dopodomani, 22 febbraio, celebreremo la festa della Cattedra di San Pietro. A lui, primo degli Apostoli, Cristo ha affidato il compito di Maestro e di Pastore per la guida spirituale del Popolo di Dio, affinché esso possa innalzarsi fino al Cielo. Esorto, pertanto, tutti i Pastori ad «assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli» (Lettera Indizione Anno Sacerdotale). Invochiamo la Vergine Maria, Madre di Dio e della Chiesa, affinché ci insegni ad amarci gli uni gli altri e ad accoglierci come fratelli, figli dello stesso Padre celeste.
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giovedì 17 febbraio 2011

Consigli sulla lotta spirituale di S. Faustina Kowalska (Interventi 73)

Da un sito suggeritomi da un amico trovo e propongo questo testo:

Figlia Mia, voglio istruirti sulla lotta spirituale:

1. Non confidare mai in te stessa, ma affidati completamente alla Mia volontà.
2. Nell'abbandono, nelle tenebre e nei dubbi di ogni genere ricorri a Me ed al tuo direttore spirituale, che ti risponderà sempre a Mio nome.
3. Non metterti a discutere con nessuna tentazione, chiuditi subito nel Mio Cuore ed alla prima occasione rivelala al confessore.
4. Metti l'amor proprio all'ultimo posto, in modo che non contamini le tue azioni.
5. Sopporta te stessa con molta pazienza.
6. Non trascurare le mortificazioni interiori.
7. Giustifica sempre dentro di te l'opinione dei superiori e del confessore.
8. Allontanati dai mormoratori come dalla peste.
9. Lascia che gli altri si comportino come vogliono, tu comportati come voglio Io da te.
10. Osserva la regola nella maniera più fedele.
11. Dopo aver ricevuto un dispiacere, pensa a che cosa potresti fare di buono per la persona che ti ha procurato quella sofferenza.
12. Evita la dissipazione.
13. Taci quando vieni rimproverata.
14. Non domandare il parere di tutti, ma quello del tuo direttore spirituale; con lui sii sincera e semplice come una bambina.
15. Non scoraggiarti per l'ingratitudine.
16. Non indagare con curiosità sulle strade attraverso le quali ti conduco.
17. Quando la noia e lo sconforto bussano al tuo cuore, fuggi da te Stessa e nasconditi nel Mio Cuore.
18. Non aver paura della lotta; il solo coraggio spesso spaventa le tentazioni che non osano assalirci.
19. Combatti sempre con la profonda convinzione che Io sono accanto a te.
20. Non lasciarti guidare dal sentimento poiché esso non sempre è in tuo potere, ma tutto il merito sta nella volontà.
21. Sii sempre sottomessa ai superiori anche nelle più piccole cose.
22. Non t'illudo con la pace e le consolazioni; preparati a grandi battaglie.
23. Sappi che attualmente sei sulla scena dove vieni osservata dalla terra e da tutto il cielo; lotta come un valoroso combattente, in modo che Io possa concederti il premio.
24. Non aver troppa paura, poiché non sei sola


Quaderno n. 6/2 di Suor Faustina
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lunedì 14 febbraio 2011

Quando la Madonna indossò il Tricolore… (Contributi 433)

Ecco un interessante articolo di Antonio Socci che ci ricorda che nei nostri "colori più cari" (il tricoloro e l'azzurro della nazionali) ci sia più di un riferimento alla Madonna.... Ve lo propongo anche se non condivido al 100% il giudizio sui Savoia.

Gli italiani sono “gli azzurri”. Nessuno sa che con i 150 anni dell’Italia unita, si festeggiano anche i 100 anni dell’ “azzurro” come colore nazionale. Viene dall’iconografia mariana e la dinastia sabauda ne fece un suo simbolo.

Scrive Luigi Cibrario, storico della monarchia: “quel colore di cielo consacrato a Maria è l’origine del nostro color nazionale”.

Urbano V
 Tutto cominciò il 21 giugno 1366. Amedeo VI di Savoia salpa da Venezia per la Terra Santa, per la crociata voluta da papa Urbano V e sulla sua nave ammiraglia – accanto al vessillo dei Savoia – fa sventolare uno stendardo azzurro con una corona di stelle attorno all’ immagine della Madonna, per invocare “Maria Santissima, aiuto dei cristiani”.
L’azzurro di quel vessillo mariano fu ripreso da alcuni cavalieri sabaudi che, in onore alla Santa Vergine, cinsero delle sciarpe azzurre sull’uniforme.
Ne nacque una tradizione, fra gli ufficiali savoiardi. L’azzurro entrò a far parte dei simboli dinastici e il 10 gennaio 1572, con Emanuele Filiberto, la sciarpa azzurra diventò ufficialmente parte dell’uniforme. E poi dell’araldica del Regno d’Italia.
Pare che sia diventato il nostro colore ufficiale nelle competizioni sportive, per la prima volta, a Milano, il 6 gennaio 1911, per la partita di calcio Italia-Ungheria: quindi cento anni fa.
La piccola storia di questo simbolo fa capire che la tradizione cattolica impregna totalmente la storia italiana. D’altra parte il Regno dei Savoia è sempre stato cattolicissimo.
Con la restaurazione fu l’unico regno italiano, insieme allo Stato pontificio, ad abolire il Codice napoleonico: “la dinastia sabauda” scrive De Leonardis “aveva dato alla Chiesa cinque beati e vantava titoli di fedeltà al Cattolicesimo che fino al 1848 erano forse superiori a quelli dei Borbone e degli Asburgo; a differenza di questi ultimi i sovrani sabaudi non si erano compromessi con le idee illuministe e massoniche”.
Sarà l’ultimo re d’Italia infine a donare alla Chiesa la più preziosa delle reliquie: la Sindone.
Che l’unificazione d’Italia sotto il re sabaudo – con Cavour – abbia preso la forma di un conflitto contro la Chiesa è una di quelle tragedie storiche che probabilmente nessuno volle in maniera deliberata.
Basti pensare che il Regno sabaudo nel suo Statuto proclamava il Cattolicesimo come sua religione ufficiale. E poi c’è anche il cattolicesimo di molti patrioti (come il Pellico) e infine il fatto che lo stesso Pio IX era un entusiastico sostenitore dell’unificazione nazionale (per via federale).
Non solo quando fu eletto, con il Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”, quando il nome del Pontefice veniva invocato dai patrioti (ed erroneamente costoro pretesero di trascinare il Papa a far la guerra all’Austria: da qui il no e la rottura).
Pio IX restò legato all’ideale dell’Italia sempre, anche nel pieno del conflitto risorgimentale. E questo è un aspetto quasi sconosciuto.
Come i cattolicissimi Savoia, anche il Papa visse un drammatico conflitto interiore fra il dovere di difendere la Chiesa – che veniva aggredita e spogliata dal nuovo Stato – e la sua personale simpatia per la causa nazionale.
Un giorno un conte germanico in visita al Santo Padre gli manifestò il suo sdegno per l’aggressione in corso ai danni dello Stato Pontificio e della Chiesa, e, dopo averlo ascoltato, Pio IX mormorò ai suoi: “Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana”.
Errori tragici ve ne furono da entrambe le parti. E certamente l’idea di unificare l’Italia non per via pacifica e federale come prospettava il Papa, ma per via militare e sotto una sola dinastia fu devastante anche per il meridione d’Italia, dove da secoli governava una monarchia legittima quanto quella sabauda.
Ben ventidue anni fa, nel 1988, quando ancora non era emersa la Lega Nord, scrissi un libro di denuncia contro il Risorgimento come “conquista piemontese” e – curiosamente – fu pubblicato dalla Sugarco di Massimo Pini, un editore molto vicino al garibaldino Bettino Craxi. Il libro – riedito sei anni fa col titolo “La dittatura anticattolica” uscì quando nessuno metteva in discussione il Risorgimento.
Oggi che – al contrario – è diventata una moda, vorrei sommessamente dire il mio “Viva l’Italia!” e penso che si debba festeggiare il 17 marzo.
Per noi cattolici c’è comunque qualcosa di provvidenziale nel Risorgimento italiano (anche nella fine del potere temporale dei papi, come ebbe a dire Paolo VI), perché Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini.
E infine ha fatto salvare l’indipendenza, l’unità e la libertà dell’Italia proprio ai cattolici e al Papa, il 18 aprile 1948, a cento anni esatti dalla preghiera per l’Italia di Pio IX.
Del resto il cattolicesimo era il solo cemento degli italiani.
Infatti cosa li univa nell’Ottocento? La lingua no.
Nel 1861 gli italiofoni erano solo il 2,5 per cento della popolazione, perlopiù toscani (gli stessi Savoia a corte parlavano francese).
Nemmeno l’economia li univa: la Sicilia era più integrata economicamente all’Inghilterra che alla Lombardia e il Piemonte più alla Francia che alla Sicilia.
Ciò che univa il Paese erano Roma e le tradizioni cattoliche. Tanto è vero che il poema della risorgente nazione italiana fu il poema della Provvidenza, “I promessi sposi” del cattolicissimo Manzoni.
E fu deciso “a tavolino” che la lingua italiana fosse, da allora, quella della Divina Commedia dantesca, cioè il più grande poema mistico e addirittura liturgico della storia della Chiesa.
Perfino il tricolore adottato dai Savoia – nato apparentemente ghibellino – è intriso di tradizione cattolica.
Lo studente bolognese Luigi Zamboni, che col De Rolandis lo concepì nel settembre 1794, nell’entusiastica attesa dell’arrivo napoleonico che avrebbe liberato dal giogo dello Stato pontificio, partì dallo stemma di Bologna, quella croce rossa in campo bianco che viene dalle crociate e dalla Lega lombarda (a cui Bologna appartenne). Al bianco e rosso lui aggiunse “il verde”, che – disse – era “segno della speranza”.
In effetti simboleggiava la speranza nella tradizione cattolica, come virtù teologale, insieme alla fede, che aveva come simbolo il bianco, e alla carità (il rosso).
Non a caso il primo “bianco, rosso e verde” lo troviamo proprio nella Divina Commedia, sono i vestiti delle tre fanciulle che, nel Paradiso terrestre, accompagnano Beatrice e che simboleggiano appunto le virtù teologali (Purg. XXX, 30-33).
Lo stesso “mangiapreti” Carducci, che certo non era ignaro di Dante, né di dottrina cattolica, nel suo discorso ufficiale per il primo centenario della nascita del Tricolore, a Reggio Emilia, dà, a quei tre colori, proprio il significato della Divina Commedia (fede, speranza e amore, sia pure in senso laico).
E’ ovvio che la Chiesa sia intimamente legata a questa terra “onde Cristo è romano” e pare evidente la missione religiosa dell’Italia (sembra che la parola I-t-a-l-y-a in ebraico significhi “isola della rugiada divina”).
Vergine della Rivelazione,1947 Tre Fontane
Nessuno però sa che è stata addirittura la Madonna in persona a “consacrare” il tricolore nell’importante apparizione del 12 aprile 1947 a Roma, alle Tre Fontane, a Bruno Cornacchiola (il mangiapreti che si convertì).
Era un fanciulla di sfolgorante bellezza e indossava un lungo abito bianco, con una fascia rossa in vita e un mantello verde.
Consegnò al Cornacchiola un importante messaggio per il Santo Padre. E poi alla mistica Maria Valtorta spiegò che apparve “vestita dei colori della tua Patria, che sono anche quelli delle tre virtù teologali, perché virtù e patria sono troppo disamate, trascurate, calpestate, ed io vengo a ricordare, con questa mia veste inusitata, per me, che occorre tornare all’amore, alle Virtù e alla Patria, al vero Amore”.
Aggiunse che era apparsa a Roma perché “sede del papato e il Papa avrà tanto e sempre più a soffrire, questo, e i futuri, per le forze d’Inferno scagliate sempre più contro la S. Chiesa”.
Aggiunse che apparve per la terribile minaccia del “Comunismo, la spada più pungente infissa nel mio Cuore, quella che mi fa cadere queste lacrime”.
Essa è “la piovra orrenda, veleno satanico” che “stringe e avvelena e si estende a far sempre nuove prede”, una minaccia “mondiale, che abbranca e trascina al naufragio totale: di corpi, anime, nazioni”.
Era in effetti il 1947. L’Armata Rossa stava marciando su mezza Europa, fino a Trieste. E l’Italia il 18 aprile 1948 si salvò solo per l’impegno del papa e della Chiesa, da cui venne alla patria uno statista come De Gasperi, che salvò la libertà e così compì davvero il Risorgimento.
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domenica 13 febbraio 2011

Domenica 6^ t.ord. (Angelus 9)

Cari fratelli e sorelle!

Nella Liturgia di questa domenica prosegue la lettura del cosiddetto “Discorso della montagna” di Gesù, che occupa i capitoli 5, 6 e 7 del Vangelo di Matteo. Dopo le “Beatitudini”, che sono il suo programma di vita, Gesù proclama la nuova Legge, la sua Torah, come la chiamano i nostri fratelli ebrei. In effetti, il Messia, alla sua venuta, avrebbe dovuto portare anche la rivelazione definitiva della Legge, ed è proprio ciò che Gesù dichiara: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti: non sono venuto ad abolire, ma a dare il pieno compimento”. E, rivolto ai suoi discepoli, aggiunge: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,17.20). Ma in che cosa consiste questa “pienezza” della Legge di Cristo, e questa “superiore” giustizia che Egli esige?
Gesù lo spiega mediante una serie di antitesi tra i comandamenti antichi e il suo modo di riproporli. Ogni volta inizia: “Avete inteso che fu detto agli antichi…”, e poi afferma: “Ma io vi dico…”. Ad esempio: “Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio” (Mt 5,21-22). E così per sei volte. Questo modo di parlare suscitava grande impressione nella gente, che rimaneva spaventata, perché quell’“io vi dico” equivaleva a rivendicare per sé la stessa autorità di Dio, fonte della Legge. La novità di Gesù consiste, essenzialmente, nel fatto che Lui stesso “riempie” i comandamenti con l’amore di Dio, con la forza dello Spirito Santo che abita in Lui. E noi, attraverso la fede in Cristo, possiamo aprirci all’azione dello Spirito Santo, che ci rende capaci di vivere l’amore divino. Perciò ogni precetto diventa vero come esigenza d’amore, e tutti si ricongiungono in un unico comandamento: ama Dio con tutto il cuore e ama il prossimo come te stesso. “Pienezza della Legge è la carità”, scrive san Paolo (Rm 13,10).
Davanti a questa esigenza, ad esempio, il pietoso caso dei quattro bambini Rom, morti la scorsa settimana alla periferia di questa città, nella loro baracca bruciata, impone di domandarci se una società più solidale e fraterna, più coerente nell’amore, cioè più cristiana, non avrebbe potuto evitare tale tragico fatto. E questa domanda vale per tanti altri avvenimenti dolorosi, più o meno noti, che avvengono quotidianamente nelle nostre città e nei nostri paesi.
Cari amici, forse non è un caso che la prima grande predicazione di Gesù si chiami “Discorso della montagna”! Mosè salì sul monte Sinai per ricevere la Legge di Dio e portarla al Popolo eletto. Gesù è il Figlio stesso di Dio che è disceso dal Cielo per portarci al Cielo, all’altezza di Dio, sulla via dell’amore. Anzi, Lui stesso è questa via: non dobbiamo far altro che seguire Lui, per mettere in pratica la volontà di Dio ed entrare nel suo Regno, nella vita eterna. Una sola creatura è già arrivata alla cima della montagna: la Vergine Maria. Grazie all’unione con Gesù, la sua giustizia è stata perfetta: per questo la invochiamo Speculum iustitiae. Affidiamoci a lei, perché guidi anche i nostri passi nella fedeltà alla Legge di Cristo.
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