Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

mercoledì 29 gennaio 2014

Come si fa il dialogo

Il dialogo si fa con l’umiltà, anche a costo di «ingoiare tanti rospi», perché non bisogna lasciare che nel nostro cuore crescano «muri» di risentimenti e odio. Lo ha detto Papa Francesco nella messa celebrata venerdì 24 gennaio, memoria liturgica di san Francesco di Sales, nella cappella della Casa Santa Marta.
Lo spunto per l’omelia è stato il passo del primo libro di Samuele (24, 3-21), che racconta il confronto fra Saul e Davide. «Ieri — ha ricordato il Papa — abbiamo sentito la parola di Dio» che «ci faceva vedere cosa fa la gelosia, cosa fa l’invidia nelle famiglie, nelle comunità cristiane». Sono atteggiamenti negativi che «portano sempre a tante liti, a tante divisioni. Anche all’odio». E «questa storia l’abbiamo vista nel cuore di Saul contro Davide: lui aveva quella gelosia» a tal punto «che voleva ucciderlo».
Ma «oggi — ha proseguito — la parola di Dio ci fa vedere un altro atteggiamento: quello di Davide». Il quale «sapeva benissimo» di essere «in pericolo; sapeva che il re voleva ucciderlo. E si è trovato proprio nella situazione di poter uccidere il re: e così finiva la storia». Eppure «ha scelto un’altra strada»; ha preferito «la strada dell’avvicinarsi, di chiarire la situazione, di spiegarsi. La strada del dialogo per fare la pace».
Invece il re Saul «rimuginava nel suo cuore queste amarezze», insultava «Davide perché credeva che era suo nemico. E questa cresceva nel suo cuore». Purtroppo, ha affermato il Papa, «queste fantasie crescono sempre quando noi le ascoltiamo, dentro di noi. E fanno un muro che ci allontana dall’altra persona». Così finiamo per rimanere «isolati in questo brodo amaro del nostro risentimento».
Ecco che Davide, «con l’ispirazione del Signore», spezza questo meccanismo di odio «e dice: no, io voglio dialogare con te!». È così, ha spiegato il Pontefice, che «incomincia la strada della pace. Con il dialogo». Ma, ha avvertito, «dialogare non è facile, è difficile». Tuttavia solo «con il dialogo si costruiscono ponti nel rapporto e non muri che ci allontanano».
«Per dialogare — ha precisato il Papa — prima di tutto è necessaria l’umiltà». Lo dimostra l’esempio di «Davide, umile, che ha detto al re: ma, guarda, io avrei potuto ucciderti, io avrei potuto farti questo, ma non lo voglio fare! Io voglio essere vicino a te perché tu sei l’autorità, tu sei l’unto del Signore!». Quello di Davide è «un atto di umiltà».
Dunque, per dialogare non c’è bisogno di alzare la voce ma «è necessaria la mitezza». E poi «è necessario pensare che l’altra persona ha qualcosa in più di me», così come ha fatto Davide, che guardando Saul diceva a se stesso: «Lui è l’unto del Signore, è più importante di me». Insieme «con l’umiltà, la mitezza, per dialogare — ha aggiunto il Pontefice — è necessario fare quello che abbiamo chiesto oggi nella preghiera all’inizio della messa: farsi tutto a tutti».
«Umiltà, mitezza, farsi tutto a tutti» sono i tre elementi base del dialogo. Ma — ha puntualizzato il Santo Padre — anche se «non è scritto nella Bibbia, tutti sappiamo che per fare queste cose bisogna ingoiare tanti rospi: dobbiamo farlo perché la pace si fa così!». La pace si fa «con l’umiltà, l’umiliazione», cercando sempre di «vedere nell’altro l’immagine di Dio». Così tanti problemi trovano la soluzione «con il dialogo in famiglia, nelle comunità, nei quartieri». Occorre la disponibilità a riconoscere di fronte all’altro: «Ma senti, scusa, io ho creduto questo...». L’atteggiamento giusto è «umiliarsi: è sempre bene fare il ponte, sempre sempre!». Questo è lo stile di chi vuole «essere cristiano»; anche se, ha ammesso il Papa, «non è facile, non è facile!». Eppure «Gesù: l’ha fatto, si è umiliato fino alla fine, ci ha fatto vedere la strada».
Il Pontefice ha poi suggerito un altro consiglio pratico: per aprire il dialogo «è necessario che non passi tanto tempo». I problemi infatti vanno affrontati «il più presto possibile, nel momento che si può fare dopo che è passata la tormenta». Bisogna subito «avvicinarsi al dialogo, perché il tempo fa crescere il muro», proprio «come fa crescere l’erba cattiva che impedisce la crescita del grano». E, ha messo in guardia, «quando i muri crescono è tanto difficile la riconciliazione: è tanto difficile!». Il vescovo di Roma ha fatto riferimento al muro a Berlino che per tanti anni è stato elemento di divisione. E ha notato che «anche nel nostro cuore» c’è la possibilità di diventare come Berlino, con un muro alzato verso gli altri. Da qui l’invito a «non lasciare che passi tanto tempo» e a «cercare la pace il più presto possibile».
In particolare il Papa ha voluto fare riferimento agli sposi: «È normale che voi litigate, è normale». E vedendo il sorriso di alcune coppie presenti alla messa, ha ribadito che «in un matrimonio si litiga, alcune volte volano i piatti pure». Però, ha consigliato, «mai finire la giornata senza fare la pace; senza il dialogo che alcune volte è soltanto un gesto», un darsi appuntamento «a domani».
«Io ho paura — ha affermato il Papa — di questi muri che crescono ogni giorno e favoriscono i risentimenti. Anche l’odio». E ha indicato di nuovo la scelta del «giovane Davide: poteva vendicarsi perfettamente», poteva uccidere il re, ma «ha scelto la strada del dialogo con l’umiltà, la mitezza, la dolcezza». E, in conclusione, ha chiesto «a san Francesco di Sales, dottore della dolcezza», di dare «a tutti noi la grazia di fare ponti con gli altri, mai muri».
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Quando i sacerdoti non fanno notizia

Non fanno notizia sui giornali ma danno forza e speranza agli uomini: sono tutti i vescovi e i preti “anonimi” che continuano a offrire la loro vita in nome di Cristo nel servizio alle diocesi e alle parrocchie. Per questi sacerdoti «coraggiosi, santi, buoni, fedeli» Papa Francesco ha invitato a pregare nella messa celebrata lunedì 27 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta.
La riflessione del Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura, tratta dal secondo libro di Samuele (5,1-7.10), che racconta l’unzione del re Davide. «Abbiamo ascoltato — ha detto — la storia di quella riunione» a Ebron, quando «tutte le tribù di Israele vennero da Davide e gli proposero di farlo re». Infatti, ha spiegato, «Davide era re di Giuda ma il regno era diviso». Tutti gli anziani del popolo «hanno visto che l’unico che poteva» essere re «era Davide». Così «sono andati da lui per fare un’alleanza». Insieme, ha proseguito il Papa, «sicuramente hanno parlato, hanno discusso come fare l’alleanza. E alla fine hanno deciso di farlo re». Ma «questa decisione non era una decisione, diciamo, democratica»; piuttosto, una decisione unanime: «tu sei re!».
E «questo — ha spiegato il Pontefice — è il primo passo. Poi viene il secondo: re Davide concluse con loro un’alleanza» e gli anziani del popolo «unsero Davide re di Israele». Ecco, dunque, l’importanza dell’unzione. «Senza questa unzione — ha detto — Davide sarebbe stato soltanto il capo, l’organizzatore di un’azienda che portava avanti questa società politica che è il regno di Israele». Invece «l’unzione è un’altra cosa»; e proprio «l’unzione consacra Davide re».
«Qual è la differenza — si è domandato il Papa — tra essere un organizzatore politico del paese e essere re unto?». Quando Davide, ha spiegato, «è stato unto re di Giuda da Samuele, era piccolo, era un ragazzino. Dice la Bibbia che dopo l’unzione lo Spirito del Signore scese su Davide». E così «l’unzione fa che lo Spirito del Signore scenda sulla persona e sia con lui».
Anche il brano proposto dalla liturgia, ha notato il Papa, «dice lo stesso: Davide andava sempre più crescendo in potenza e il Signore, Dio degli eserciti, era con lui». E «questa è proprio la specificità dell’unzione».
Il vescovo di Roma ha ricordato, in proposito, l’atteggiamento di Davide nei confronti del re Saul, «che voleva ucciderlo per gelosia, per invidia». Davide «ha avuto l’opportunità di uccidere il re Saul ma non ha voluto farlo: io mai toccherò l’unto del Signore, è una persona scelta per il Signore, unta dal Signore!». Nelle sue parole c’è il «senso della sacralità di un re».
«Nella Chiesa — ha affermato il Pontefice — noi abbiamo ereditato questo nella persona dei vescovi e dei preti». I vescovi infatti «non sono eletti soltanto per portare avanti un’organizzazione che si chiama Chiesa particolare. Sono unti. Hanno l’unzione e lo spirito del Signore è con loro». Tutti i vescovi, ha precisato il Papa, «siamo peccatori, tutti! Ma siamo unti!». E «tutti vogliamo essere più santi ogni giorno, più fedeli a questa unzione». E «quello che fa la Chiesa, quello che dà l’unità alla Chiesa, è la persona del vescovo, in nome di Gesù Cristo perché unto: non perché è stato votato dalla maggioranza, ma perché unto».
Proprio «in questa unzione una Chiesa particolare ha la sua forza e, per partecipazione, anche i preti sono unti: il vescovo impone le mani e fa l’unzione su di loro». Così, ha detto il Papa, i preti «portano avanti le parrocchie e tanti altri lavori». È l’unzione ad avvicinare al Signore vescovi e preti, che «sono eletti dal Signore». Dunque «questa unzione è per i vescovi e per i preti la loro forza e la loro gioia». La forza, ha precisato, perché proprio nell’unzione essi «trovano la vocazione per portare avanti un popolo, per aiutare un popolo» e per «vivere al servizio del popolo». Ed è anche la gioia, «perché si sentono eletti dal Signore, protetti dal Signore con quell’amore con cui il Signore protegge tutti noi».
Ecco perché, ha affermato, «quando pensiamo ai vescovi, ai preti — sacerdoti tutti e due, perché questo è il sacerdozio di Cristo: vescovo e prete — dobbiamo pensarli così: unti». Altrimenti, ha puntualizzato, «non si capisce la Chiesa». Ma «non solo non si capisce; non si può spiegare come la Chiesa vada avanti soltanto con le forze umane». Una «diocesi va avanti perché ha un popolo santo, ha tante cose, e ha anche un unto che la porta, che l’aiuta a crescere». Lo stesso vale per una parrocchia, che «va avanti perché ha tante organizzazioni, ha tante cose, ma anche perché ha un prete: un unto che la porta avanti».
Noi abbiamo memoria — ha sottolineato il Pontefice — solo di «una minima parte di quanti vescovi santi, quanti sacerdoti, quanti preti santi» hanno dedicato tutta «la loro vita al servizio della diocesi, della parrocchia». E, quindi, «di quanta gente ha ricevuto la forza della fede, la forza dell’amore, la speranza da questi parroci anonimi, che noi non conosciamo. E sono tanti!». Sono «parroci di campagna o parroci di città che, con la loro unzione, hanno dato forza al popolo, hanno trasmesso la dottrina, hanno dato i sacramenti, cioè la santità».
Qualcuno, ha notato il Papa, potrebbe obiettare: «Ma, padre, io ho letto su un giornale che un vescovo ha fatto tal cosa o che un prete ha fatto tal cosa!». Obiezione alla quale il Pontefice ha risposto: «Sì, anch’io l’ho letto! Ma dimmi: sui giornali vengono le notizie di quello che fanno tanti sacerdoti, tanti preti in tante parrocchie di città e e di campagna? La tanta carità che fanno? Il tanto lavoro che fanno per portare avanti il loro popolo?». E ha aggiunto: «No, questa non è notizia!». Vale sempre, ha spiegato, il noto proverbio secondo cui «fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce».
Papa Francesco ha concluso la sua riflessione invitando a pensare «a questa unzione di Davide» e, di conseguenza, «ai nostri vescovi e ai nostri preti coraggiosi, santi, buoni, fedeli». E ha chiesto di pregare «per loro: grazie a loro oggi noi siamo qui, sono stati loro che ci hanno battezzato».
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martedì 28 gennaio 2014

Se Dio è onnisciente può esistere il libero arbitrio? (Contributi 935)

Propongo ai lettori del blog questo testo molto interessante tratto da UCCR 

Seguendo vari siti web e blog americani si può notare come talvolta emerga una antica obiezione al Dio cristiano, la quale si basa su un equivoco talmente grossolano che ci si stupisce come possa essere ancora presentata. Essa recita più o meno così: se Dio è onnisciente, dunque conosce ogni cosa, allora tutto è pre-determinato e non può esistere il libero arbitrio nell'uomo. 
Quest’obiezione innanzitutto implica una nozione classica di tempo e di futuro che la teoria della relatività ha confutato. Ma anche volendo concepire il futuro in senso classico, dimentica che Dio è al di fuori del tempo e dello spazio e non esiste né passato, né futuro per Lui. Egli semplicemente è. L’obiezione sull’onniscienza implica invece che anche Dio sia sottomesso alla legge dello scorrere del tempo, il che ovviamente è falso. 
Ma l’equivoco più grande e meno sottile in cui inciampa l’argomento è un altro ancora. Ovvero assume che, il fatto che Dio conosca le nostre decisioni “future” allora Egli abbia influenza su di esse. Ma solo perché Dio può prevedere la scelta che faremo non significa che non possiamo scegliere liberamente un’altra opzione. Se scegliamo A Dio aveva previsto A, se scegliamo B Dio aveva previsto B. Dov’è il problema? 
Noi saremmo influenzati se conoscessimo il pensiero di Dio sulla nostra vita, ma non conoscendolo le nostre scelte rimangono libere. Lui non influisce su di esse, ma conosce cosa sceglieremo. Allo stesso modo, noi possiamo prevedere con nostro figlio mangerà la caramella che sua sorella ha lasciato sul tavolo della cucina, ma questo non lo influenzerà a farlo. Mentre noi parliamo di “previsione” per Dio il futuro è “conoscenza certa”, ma il discorso non cambia: la Sua conoscenza delle nostre azioni future non influisce sulla nostra libertà a scegliere come comportarci. 
Per rispondere abbiamo usato la concezione di futuro classica, usata abitualmente da chiunque, mostrando che anche in questo modo di pensare al tempo, onniscienza e libero arbitrio sono chiaramente compatibili.
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domenica 26 gennaio 2014

Domenica 3^ t.ord. "A" 26-gen-2014 (Angelus 177)

Cari fratelli e sorelle buongiorno,
il Vangelo di questa domenica racconta gli inizi della vita pubblica di Gesù nelle città e nei villaggi della Galilea. La sua missione non parte da Gerusalemme, cioè dal centro religioso, centro anche sociale e politico, ma parte da una zona periferica, una zona disprezzata dai giudei più osservanti, a motivo della presenza in quella regione di diverse popolazioni straniere; per questo il profeta Isaia la indica come «Galilea delle genti» (Is 8,23).
E’ una terra di frontiera, una zona di transito dove si incontrano persone diverse per razza, cultura e religione. La Galilea diventa così il luogo simbolico per l’apertura del Vangelo a tutti i popoli. Da questo punto di vista, la Galilea assomiglia al mondo di oggi: compresenza di diverse culture, necessità di confronto e necessità di incontro. Anche noi siamo immersi ogni giorno in una “Galilea delle genti”, e in questo tipo di contesto possiamo spaventarci e cedere alla tentazione di costruire recinti per essere più sicuri, più protetti. Ma Gesù ci insegna che la Buona Novella, che Lui porta, non è riservata a una parte dell’umanità, è da comunicare a tutti. È un lieto annuncio destinato a quanti lo aspettano, ma anche a quanti forse non attendono più nulla e non hanno nemmeno la forza di cercare e di chiedere.
Partendo dalla Galilea, Gesù ci insegna che nessuno è escluso dalla salvezza di Dio, anzi, che Dio preferisce partire dalla periferia, dagli ultimi, per raggiungere tutti. Ci insegna un metodo, il suo metodo, che però esprime il contenuto, cioè la misericordia del Padre. «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata. Uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 20).
Gesù comincia la sua missione non solo da un luogo decentrato, ma anche da uomini che si direbbero, così si può dire, “di basso profilo”. Per scegliere i suoi primi discepoli e futuri apostoli, non si rivolge alle scuole degli scribi e dei dottori della Legge, ma alle persone umili e alle persone semplici, che si preparano con impegno alla venuta del Regno di Dio. Gesù va a chiamarli là dove lavorano, sulla riva del lago: sono pescatori. Li chiama, ed essi lo seguono, subito. Lasciano le reti e vanno con Lui: la loro vita diventerà un’avventura straordinaria e affascinante.
Cari amici e amiche, il Signore chiama anche oggi! Il Signore passa per le strade della nostra vita quotidiana. Anche oggi in questo momento, qui, il Signore passa per la piazza. Ci chiama ad andare con Lui, a lavorare con Lui per il Regno di Dio, nelle “Galilee” dei nostri tempi. Ognuno di voi pensi: il Signore passa oggi, il Signore mi guarda, mi sta guardando! Cosa mi dice il Signore? E se qualcuno di voi sente che il Signore gli dice “seguimi” sia coraggioso, vada con il Signore. Il Signore non delude mai. Sentite nel vostro cuore se il Signore vi chiama a seguirlo. Lasciamoci raggiungere dal suo sguardo, dalla sua voce, e seguiamolo! «Perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della terra e nessuna periferia sia priva della sua luce» (ibid., 288).

Dopo l'Angelus:
Adesso voi vedete che non sono solo: sono in compagnia di due di voi, che sono saliti qui. Sono bravi questi due!
Si celebra oggi la Giornata mondiale dei malati di lebbra. Questa malattia, pur essendo in regresso, purtroppo colpisce ancora molte persone in condizione di grave miseria. E’ importante mantenere viva la solidarietà con questi fratelli e sorelle. Ad essi assicuriamo la nostra preghiera; e preghiamo anche per tutti coloro che li assistono e, in diversi modi, si impegnano a sconfiggere questo morbo.
Sono vicino con la preghiera all’Ucraina, in particolare a quanti hanno perso la vita in questi giorni e alle loro famiglie. Auspico che si sviluppi un dialogo costruttivo tra le istituzioni e la società civile e, evitando ogni ricorso ad azioni violente, prevalgano nel cuore di ciascuno lo spirito di pace e la ricerca del bene comune!
Oggi ci sono tanti bambini in piazza! Tanti! Anche con loro vorrei rivolgere un pensiero a Cocò Campolongo, che a tre anni è stato bruciato in macchina a Cassano allo Jonio. Questo accanimento su un bambino così piccolo sembra non avere precedenti nella storia della criminalità. Preghiamo con Cocò, che sicuro è con Gesù in cielo, per le persone che hanno fatto questo reato, perché si pentano e si convertano al Signore.
Nei prossimi giorni, milioni di persone, che vivono nell’Estremo Oriente o sparse in varie parti del mondo, tra cui cinesi, coreani e vietnamiti, celebrano il capodanno lunare. A tutti loro auguro un’esistenza colma di gioia e di speranza. L’anelito insopprimibile alla fraternità, che alberga nel loro cuore, trovi nell’intimità della famiglia il luogo privilegiato dove possa essere scoperto, educato e realizzato. Sarà questo un prezioso contributo alla costruzione di un mondo più umano, in cui regna la pace.
Ieri, a Napoli, è stata proclamata Beata Maria Cristina di Savoia, vissuta nella prima metà del secolo diciannovesimo, regina delle due Sicilie. Donna di profonda spiritualità e di grande umiltà, seppe farsi carico delle sofferenze del suo popolo, diventando vera madre dei poveri. Il suo straordinario esempio di carità testimonia che la vita buona del Vangelo è possibile in ogni ambiente e condizione sociale.
Saluto con affetto tutti voi, cari pellegrini venuti da diverse parrocchie d’Italia e di altri Paesi, come pure le associazioni, i gruppi scolastici e altri. In particolare, saluto gli studenti di Cuenca (Spagna) e le ragazze di Panamá. Saluto i fedeli di Caltanissetta, Priolo Gargallo, San Severino Marche e San Giuliano Milanese, e gli ex-allievi della Scuola di Minoprio. Vorrei anche esprimere la mia vicinanza alle popolazioni alluvionate in Emilia.
Mi rivolgo adesso ai ragazzi e ragazze dell’Azione Cattolica della Diocesi di Roma! Cari ragazzi, anche quest’anno, accompagnati dal Cardinale Vicario, siete venuti numerosi al termine della vostra “Carovana della Pace”. Vi ringrazio! Vi ringrazio tanto! Ascoltiamo ora il messaggio che i vostri amici, qui accanto a me, ci leggeranno.
[lettura del messaggio]
Ed ora questi due bravi ragazzi lanceranno le colombe, simbolo di pace.
A tutti auguro buona domenica e buon pranzo. Arrivederci!
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venerdì 24 gennaio 2014

Amava così tanto la sua fede...... (Contributi 934)

Riporto questo articolo di Pino Suriano da Tempi

Francesco di Sales era il primogenito di una nobile e ricca famiglia savoiarda. Avrebbe potuto trascorrere la vita a godere dei suoi beni, invece la trascorse a diffondere ciò a cui più teneva, la sua fede. Divenuto sacerdote (nei disegni di suo padre sarebbe dovuto essere un brillante giurista) provava a esprimerla con ogni sforzo, la predicava ogni giorno dall’altare, ma forse gli mancava qualcosa, quel talento oratorio che altri suoi colleghi sembravano avere: le sue parole, insomma, non facevano effetto. Eppure, nonostante questo, non lasciò perdere: aveva troppo a cuore il contenuto che voleva esprimere, e così cambiò metodo.
Anziché parlare, scrisse: fogli volanti, i cosiddetti “manifesti”, che egli stesso diffuse in giro per le strade. Erano tante argomentazioni legate da un unico intento: correggere gli errori dell’eresia calvinista. Ovunque, senza confini e senza schemi. “È un errore – scrisse – voler escludere l’esercizio della devozione dell’ambiente militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalle case dei coniugati”.
E in tempi di perdita della ragione, di politica gridata, di continui effetti speciali, è bello riscoprire, nel ricordo di questo Santo celebrato oggi, il valore della parola scritta, la sua bellezza nel porre in modo ordinato il pensiero, facendolo passare dal vaglio dell’organizzazione mediata e dallo studio, costringendolo a interrogarsi, a porsi il problema  della comprensione altrui, a specchiarsi nelle sue stesse pause quasi mai prive di significato (a proposito, che bellissimo strumento è la tanto bistrattata punteggiatura, colei che rende visibili le pause del pensiero).
Davvero abbiamo bisogno di pensare e ripensare più volte a quello che facciamo. Ce lo insegna questo Papa, genio della comunicazione e apparente campione di spontaneità, ma, al contrario, campione del discernimento, che il suo maestro Ignazio di Loyola ha insegnato al mondo.
È vero, ci insegna a non essere schiavi degli schemi preordinati, a essere disponibili a cambiarli (una volta ha tolto di mezzo un discorso preparato per “parlare con il cuore“) ma con la pedagogia del discernimento ci ricorda anche di pensare, prima di agire, il che può significare anche scrivere, prima di parlare, preparare il discorso o la lezione, prima di affastellare parole, il che non è per forza indice di impreparazione o artificiosità, ma può essere rispetto e cura per chi ascolta e apprende.
San Francesco di Sales, dal 1923, per volere di Pio XII è il patrono dei giornalisti, che da lui dovrebbero imparare l’amore per la propria opinione, per ciò che appare loro vero, ad onta di un malinteso neutralismo scetticista tanto in voga. Ma, ancor di più, è il patrono dei sordomuti, coloro che hanno il dono di comprendere più di tutti gli altri, desiderandola, quale gran miracolo sia la parola, scritta o pronunciata, ponte tra le distanze, tra i drammi individuali, tra le “camere separate” che talvolta ci riduciamo a essere. L’ha creata Dio, la parola, come del resto tutte le cose. Spesso, però, la usa il Diavolo per la menzogna, che è “affermare con le parole ciò che non è”.
I santi, in fondo, servono anche a questo, a ricordarci l’uso di ciò che abbiamo in dono. Non lo faremo mai perfettamente, e forse neppure loro lo hanno fatto. Francesco lo sapeva bene, ma lo rendeva tranquillo una certezza: “Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo”.

«Educare non significa solo dire all’altro: “Fai così”. Ma dirgli: “Fai questo con me”» (Contributi 933)

Riporto questo da Tempi:

L’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, è stato ieri sera in visita alla comunità pastorale di Carate Brianza e Albiate per parlare di educazione. Al cineteatro l’Agorà, presenti 800 persone, il cardinale ha esordito dicendo che la vera «malattia morale del mondo contemporaneo è il narcisismo individuale», che è diverso dall’«individualismo moderno». La società contemporanea, infatti, è sempre più «frammentata», anzi «scheggiata», ha detto Scola richiamandosi all’immagine della Shard of Glass, letteralmente Scheggia di vetro, l’edificio costruito a Londra dall’architetto italiano Renzo Piano, che ha visitato questa estate durante le ferie. «Manca un principio esistenziale unificante, senza il quale la persona non cresce. Ne deriva che i ragazzi si trovano nella frammentazione: al mattino vanno a scuola, poi vivono un’ora di catechismo, un’ora di strumento musicale, poi lo sport, poi hanno i parenti da andare a trovare, e magari anche i genitori separati da alternare».
UNITÀ DELLA PERSONA. Perciò, ha proseguito l’arcivescovo rivolgendosi ai presenti, diventa sempre più importante che l’«educazione cristiana e l’introduzione all’incontro con Gesù vivo» avvengano all’interno della «comunità cristiana». Dove è fondamentale che «tutti, dalle maestre ai catechisti, dagli allenatori ai genitori, guardino al ragazzo partendo sì dallo specifico del loro compito (la pratica dello sport, piuttosto che l’insegnamento di una materia o del catechismo), ma sempre secondo un’apertura che sappia guardare all’unità dell’io» e del contesto in cui esso è inserito. «Se sono l’allenatore di calcio non devo mettermi a parlare di Gesù nell’ora di allenamento, ma preoccuparmi di insegnare bene a giocare a calcio. Facendolo trasmetterò anche ciò in cui credo», ha detto Scola. «È una fraternità tra persone che hanno a cuore il ragazzo a partire da un aspetto della sua vita, quello di propria competenza», ma consapevoli che lo «scopo dell’educazione cristiana è di far fare un’esperienza di appartenenza a Gesù che sia realmente conveniente, corrispondente alle domande, ai bisogni e ai desideri che il ragazzo si trova dentro».
COMUNITÀ EDUCANTE. Nella «comunità educante», ha ammonito l’arcivescovo, va «superata», pertanto, l’idea di «delegare il problema educativo a un singolo: una volta al catechista, un’altra alla maestra piuttosto che all’insegnante di violino». Ciò, infatti, non può avere altro effetto se non quello di «alimentare la frammentazione». E non è un caso che i ragazzi che se ne vanno, lo facciano «dopo il quinto anno di catechismo, dopo la cresima». Vuol dire che non hanno percepito la «definitività dell’appartenenza a Gesù», che è «bella perché ha futuro». Che poi è il «dramma che vivono le generazioni intermedie».
«Dobbiamo fuggire – ha ribadito Scola – la frammentarietà dell’esperienza» e anche l’«autoreferenzialità, che può essere tanto del singolo quanto della comunità». Ma per farlo occorre prestare attenzione alla «vita intera della Chiesa, della diocesi e non solo a quella della nostra parrocchia». È «decisivo», inoltre, «il modo in cui si insegna e si guarda in faccia un ragazzo». Così come «è decisiva la relazione personale e soggettiva, la cura di tutta la sua persona. L’educazione, infatti, è un fatto di osmosi e di stili, non di parole». Non si ottiene con un «discorso» l’educazione.
TRAME DI RAPPORTI. I ragazzi, ha proseguito l’arcivescovo, «prestano attenzione ai legami, alle azioni e ai gesti di chi li educa ed è da questi gesti che percepiscono la nostra appartenenza a Gesù». Per questo è importante fare e comunicare un’«esperienza di vita forte, reale e concreta». La «comunità cristiana», infatti, è una «parentela più forte di quella della carne, dove il ragazzo, proprio come accade in famiglia, è coinvolto in una trama di rapporti». Una concezione della vita e della vità comunitaria, quella descritta da Scola, che è all’opposto del «dualismo che, invece, come europei e moderni, ci troviamo addosso, per cui da un lato c’è la preghiera al Signore e dell’altro l’azione. Soltanto che, quando passiamo all’azione, perdiamo la forma mutuandone il valore stesso dalla mentalità dominante». Ed è questa una conseguenza del fatto che «la nostra società, avendo perso il senso della nuova parentela in Cristo, abbia perso il senso della famiglia, tanto che oggi ci troviamo a dover fare i conti con “famiglie” con tre mamme, due papà e un figlio solo».
«FAI QUESTO CON ME». «Non si diventa padri se non si è figli», ha incalzato nuovamente l’arcivescovo di Milano, riprendendo uno dei concetti a lui più cari. «Ma non se non si è stati figli prima, bensì se non lo si è adesso. Pensate all’importanza che il rapporto costitutivo con il Padre, radicato nella potenza dello Spirito Santo, ha avuto per Gesù». Scola ha poi aggiunto: «Un educatore non è tale se afferma valori; tutti oggi affermano valori! Ma lo è se fa fare esperienza di quei valori». Perché «educare non è solamente dire all’altro “fai questo”, ma è dirgli  “fai questo con me”». Come fa un padre con il figlio. Qui sta il valore della testimonianza cristiana: «La comunità educante deve essere comunità di testimoni, ciascuno col suo compito. Per aiutare ognuno alla propria conversione, che significa cambiamento. Dove non c’è cambiamento, infatti, non c’è nemmeno crescita, e dove non c’è crescita, c’è morte. Noi, invece, auspichiamo un insieme di comunità di vita che coinvolgano il ragazzo in una comunione», secondo un’impostazione che «esalti la libertà, non chiuda nel ghetto ma spalanchi e che sia segno di un’apertura straordinaria». Per concludere il Cardinale ha scelto di citare Romano Guardini: «Educare significa che io do a quest’uomo coraggio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti e interpreto il suo cammino, non i miei. Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria. Devo dunque mettere in moto una storia umana e personale».
IL MILAN. L’arcivescovo di Milano, infine, prima di congedare i presenti, ha precisato che non era affatto sua intenzione offrire «istruzioni per l’uso» alla comunità, o «schemi» da seguire, bensì formulare semplicemente una «proposta di educazione che deve essere sempre sottoposta alla libertà e declinata con realismo», secondo le possibilità di ciascuno. «L’uomo, infatti, comunica sempre solo ciò che è, e dà ciò che ha». Scola si è concesso anche una battuta di spirito finale, rispondendo alla domanda di un allenatore sullo sport. «Se Dio venisse oggi come uomo sulla terra sicuramente sarebbe milanista!». E ha aggiunto, alludendo al difficile momento della squadra rossonera: «Si riprenderà». Tornando serio, poi, ha precisato: «Nello sport non è vero che l’importante è partecipare. L’importante è vincere, altrimenti uno per cosa gioca? Se l’importante è vincere, poi, uno impara anche il senso della sconfitta».
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martedì 21 gennaio 2014

Dio sceglie i piccoli

Dio sceglie sempre «il più piccolo», lo chiama per nome e intreccia con lui un rapporto personale: è per questo che per dialogare con lui bisogna innanzitutto essere «piccoli». Lo ha ricordato Papa Francesco nella messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta martedì 21 gennaio, memoria liturgica di sant’Agnese vergine e martire.
Proprio la lettura del primo libro di Samuele (16, 1-13a), che racconta l’unzione di Davide, ha suggerito al Pontefice la riflessione per l’omelia. «Il rapporto del Signore con il suo popolo — ha detto — è un rapporto personale, sempre». Un rapporto «da persona a persona: lui è il Signore e il popolo ha un nome. Le persone hanno un nome. Non è un dialogo fra il potente e la massa», ma è un dialogo «personale». Del resto, ha proseguito il Pontefice, «le persone sono organizzate come popolo e il dialogo è con il popolo. E in un popolo ognuno ha il suo posto».
È per questa ragione, ha spiegato, che «mai il Signore parla alla gente» come se si rivolgesse a una «massa». Invece «parla sempre personalmente», chiamando ogni persona con il proprio nome. Inoltre il Signore «sceglie personalmente», ha aggiunto il Papa suggerendo l’esempio del «racconto della creazione. Lo stesso Signore, che con le sue mani artigianalmente fa l’uomo, gli dà un nome: ti chiami Adamo. E così incomincia quel rapporto fra Dio e la persona».
Papa Francesco ha poi indicato un altro aspetto fondamentale: «C’è un rapporto fra Dio e noi piccoli. Dio è grande e noi piccoli». Così «anche quando Dio deve scegliere le persone, anche il suo popolo, sceglie sempre i piccoli». Tanto che «al suo popolo dice: io ti ho scelto perché tu sei il più piccolo, quello che ha meno potere tra i popoli».
Ecco, dunque, la ragione di fondo del «dialogo tra Dio e la piccolezza umana». E a questo proposito il Pontefice si è riferito alla testimonianza della «Madonna che dirà: ma il Signore ha guardato la mia umiltà, ha guardato quelli che sono i piccoli, ha scelto i piccoli».
Proprio «nella prima lettura di oggi — ha poi continuato il Papa — si vede questo atteggiamento del Signore, chiaramente. Quando Samuele sta davanti al più grande dei figli di Iesse dice: “Certo davanti al Signore sta il suo consacrato!”. Perché era un uomo alto, grande». Ma il Signore, ha aggiunto, dice a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».
Dunque «il Signore sceglie secondo i suoi criteri». Per questo, ha affermato il Pontefice, «nella preghiera all’inizio della messa, guardando sant’Agnese, abbiamo pregato: Tu, Signore, che scegli i deboli e i miti per confondere i potenti della terra...».
Riferendosi ancora alla lettura biblica, il Santo Padre ha ribadito che «il Signore sceglie Davide, il più piccolo, che non contava per il padre. Pensava che non era a casa, e forse gli aveva detto: ma vai a custodire le pecore perché noi dobbiamo concludere un grande affare qui e tu non conti». Invece proprio Davide, il più piccolo, «è stato eletto» dal Signore e unto da Samuele.
«Tutti noi, con il battesimo, siamo stati eletti dal Signore. Tutti siamo eletti» ha affermato il Papa, spiegando che il Signore «ci ha scelto uno per uno. Ci ha dato un nome. E ci guarda. C’è un dialogo. Perché così ama il Signore».
Ma anche Davide, divenuto poi re, «ha sbagliato» e «forse ha fatto tanti sbagli». La Bibbia ce ne racconta «due forti: due sbagli pesanti». E «cosa ha fatto Davide? Si è umiliato, è tornato alla sua piccolezza e ha detto: sono peccatore! Ha chiesto perdono e ha fatto penitenza».
Così «dopo il secondo peccato, quando lui aveva sentito la voglia di guardare quanto forte fosse il suo popolo, il Signore gli ha fatto vedere che quel censimento era un atto di superbia». E Davide «ha detto: ma punisci me non il popolo! Il popolo non ha la colpa, io sono il colpevole!». Così facendo «Davide ha custodito la sua piccolezza: con il pentimento, con la preghiera». Anche con il pianto, perché «quando fuggiva dai suoi nemici piangeva. E si diceva: forse il Signore vedrà questo pianto e avrà pietà di noi!».
Proseguendo la riflessione su «questo dialogo fra il Signore e la nostra piccolezza, la piccolezza di ognuno di noi», il Papa ha posto una domanda: «Dov’è la fedeltà cristiana?». E ha risposto: «La fedeltà cristiana, la nostra fedeltà, è semplicemente custodire la nostra piccolezza perché possa dialogare col Signore». Ecco perché «l’umiltà, la mitezza, la mansuetudine sono tanto importanti nella vita del cristiano: sono una custodia della piccolezza». Sono le basi per portare sempre avanti «il dialogo fra la nostra piccolezza e la grandezza del Signore.
Papa Francesco ha concluso l’omelia con una preghiera: «Ci dia il Signore, per intercessione della Madonna — che cantava gioiosa al Dio perché aveva guardato la sua umiltà — la grazia di custodire la nostra piccolezza davanti a lui».
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Il Dio delle sorprese

Discernimento e docilità: due parole che descrivono l’atteggiamento giusto per vivere la libertà della parola di Dio, rompendo schemi e abitudini con la capacità di adattarsi alle continue sorprese e alla novità. È questa la riflessione proposta da Papa Francesco nella messa celebrata lunedì mattina, 20 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta.
Come di consueto il Pontefice ha centrato la sua meditazione sulle letture proposte dalla liturgia — il brano tratto dal primo libro di Samuele (15, 16-23) e il passo evangelico di Marco (2, 18-22) — che aiutano a «riflettere sulla parola di Dio» e sul «nostro atteggiamento davanti alla parola di Dio». E la parola di Dio «è viva ed efficace, discerne i sentimenti e i pensieri del cuore», ha spiegato il Papa citando la Lettera agli Ebrei (4, 12-13). Infatti «la parola di Dio viene da noi e anche illumina lo stato del nostro cuore, della nostra anima»: in una parola, «discerne».
E proprio le due letture — ha detto — «ci parlano di questo atteggiamento che noi dobbiamo avere» davanti alla «parola di Dio: la docilità». Si tratta, ha affermato, di «essere docili alla parola di Dio. La parola di Dio è viva. E perciò viene e dice quello che vuol dire: non quello che io aspetto che dica o quello che io spero che dica o quello che io voglio che dica». La parola di Dio «è libera». Ed è «anche sorpresa, perché il nostro Dio è il Dio delle sorprese: viene e fa le cose nuove sempre. È novità. Il Vangelo è novità. La rivelazione è novità».
«Il nostro Dio — ha proseguito il Pontefice — è un Dio che sempre fa le cose nuove. E chiede da noi questa docilità alla sua novità». Proprio nel brano evangelico «Gesù è chiaro in questo, è molto chiaro: vino nuovo in otri nuovi». Così «Dio deve essere ricevuto con questa apertura alla novità». E questo atteggiamento «si chiama docilità».
Da qui l’invito a porsi alcune domande: «Io sono docile alla parola di Dio o faccio sempre quello che io credo che è la parola di Dio? O faccio passare la parola di Dio per un alambicco e alla fine è un’altra cosa da quello che Dio vuole fare?». Ma, ha avvertito il Papa, «se io faccio questo finisco come il pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio» di cui parla il Vangelo. «E lo strappo diventa peggiore: se io faccio questo divento peggiore».
«Adeguarsi alla parola di Dio per poterla ricevere» richiede perciò «un atteggiamento ascetico», ha spiegato il Pontefice facendo un esempio concreto: «se l’apparecchio» elettrico «che io ho non va» c’è bisogno di «un adattatore». Lo stesso, ha detto, dobbiamo fare noi: «adattarci sempre, adeguarci a questa novità della parola di Dio». In sostanza, «essere aperti alla novità».
Nella sua riflessione il Papa è quindi tornato al brano del primo libro di Samuele. «Saul, eletto di Dio, unto di Dio, aveva dimenticato — ha notato — che Dio è sorpresa e novità. Lo aveva dimenticato. Si era chiuso nei suoi pensieri, nei suoi schemi. E così ha ragionato umanamente. Il Signore gli aveva detto: vota allo sterminio tutti». Ma «l’abitudine», ha spiegato il Pontefice, «quando uno vinceva, era prendere il bottino» per dividerlo; «e con parte del bottino si faceva il sacrificio» a Dio. Dunque Saul ha destinato alcuni animali belli per il Signore: «ha ragionato col suo pensiero, col suo cuore, chiuso nelle abitudini. E Dio, il nostro Dio, non è un Dio delle abitudini, è un Dio delle sorprese».
Così Saul «non ha obbedito alla parola di Dio, non è stato docile alla parola di Dio». Samuele, si legge nella Scrittura, gli «rimprovera questo» dicendo: «Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla voce del Signore?». Dunque Samuele «gli fa sentire che non ha obbedito: non è stato servo, è stato signore. Lui si è impadronito della parola di Dio. Dice ancora Samuele: “Obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è meglio del grasso degli arieti”».
E poi, ha proseguito il Papa, «la parola di Dio va più avanti, tramite Samuele. La ribellione — non obbedire alla parola di Dio — “è peccato di divinazione”, peccato di magia. E l’ostinazione, la non docilità — fare quello che tu vuoi e non quello che vuole Dio — è peccato di idolatria.
Le parole di Samuele «ci fanno pensare a cosa è la libertà cristiana, cosa è l’obbedienza cristiana» ha detto ancora il Papa. «La libertà cristiana e l’obbedienza cristiana è docilità alla parola di Dio; è avere quel coraggio di diventare otri nuovi per questo vino nuovo che viene continuamente. Questo coraggio di discernere sempre, discernere — e non relativizzare — sempre cosa fa lo spirito nel mio cuore, cosa vuole lo spirito nel mio cuore, dove mi porta lo spirito nel mio cuore. E obbedire». E ha concluso con le due parole chiave della sua meditazione, «discernere e obbedire», e con una preghiera: «Chiediamo oggi la grazia della docilità alla parola di Dio, a questa parola che è viva ed efficace, che discerne i sentimenti e i pensieri del cuore».
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Come dev’essere il prete

È «il rapporto con Gesù Cristo» che salva il prete dalla tentazione della mondanità, dal rischio di diventare «untuoso» anziché «unto», dall'idolatria «del dio Narciso». Il sacerdote, infatti, può anche «perdere tutto» ma non il suo legame con il Signore, altrimenti non avrebbe più nulla da dare alla gente. È con parole forti, e proponendo un vero e proprio esame di coscienza, che Papa Francesco si è rivolto direttamente ai preti rilanciando il valore della loro unzione. Lo ha fatto nell’omelia della messa celebrata sabato 11 gennaio, nella cappella della Casa Santa Marta.
Il Pontefice ha proseguito la meditazione sulla prima lettera di Giovanni già iniziata nei giorni scorsi. Il brano proposto dalla liturgia (5, 5-13) — ha spiegato — «ci dice che abbiamo la vita eterna perché crediamo nel nome di Gesù». Ecco le parole dell’apostolo: «Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio».
È «lo sviluppo del versetto» proclamato nella liturgia di venerdì e sul quale il Papa aveva già centrato la sua meditazione: «E questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede». Infatti, ha ribadito il Pontefice, «la nostra fede è la vittoria contro lo spirito del mondo. La nostra fede è questa vittoria che ci fa andare avanti nel nome del Figlio di Dio, nel nome di Gesù».
Una riflessione che ha portato il Santo Padre a porsi una domanda decisiva: com’è il nostro rapporto con Gesù? Questione davvero fondamentale, «perché nel nostro rapporto con Gesù si fa forte la nostra vittoria». Una domanda «forte», ha riconosciuto, soprattutto per «noi che siamo sacerdoti: come è il mio rapporto con Gesù Cristo?».
«La forza di un sacerdote — ha ricordato il Pontefice — è in questo rapporto». Infatti quando la sua «popolarità cresceva, Gesù andava dal Padre». Luca, nel passo evangelico della liturgia (5, 12-16), racconta: «Ma egli si ritirava in luoghi deserti a pregare». Così «quando si parlava sempre di più» di Gesù «e le folle, numerose, venivano ad ascoltarlo e a farsi guarire, lui dopo andava a trovare il Padre». Un atteggiamento, ha puntualizzato il Papa, che costituisce «la pietra di paragone per noi preti: andiamo o non andiamo a trovare Gesù».
Di qui scaturiscono una serie di domande che il Pontefice ha suggerito per un esame di coscienza: «Qual è il posto di Gesù Cristo nella mia vita sacerdotale? È un rapporto vivo, da discepolo a maestro, da fratello a fratello, da povero uomo a Dio? O è un rapporto un po’ artificiale che non viene dal cuore?».
«Noi siamo unti per lo spirito — è stata la riflessione proposta dal Papa — e quando un sacerdote si allontana da Gesù Cristo invece di essere unto, finisce per essere untuoso». E, ha notato, «quanto male fanno alla Chiesa i preti untuosi! Quelli che mettono la forza nelle cose artificiali, nelle vanità», quelli che hanno «un atteggiamento, un linguaggio lezioso». E quante volte, ha aggiunto, «si sente dire con dolore: ma questo è un prete» che somiglia a una «farfalla», proprio «perché sempre è nella vanità» e «non ha il rapporto con Gesù Cristo: ha perso l’unzione, è un untuoso».
Pur con tutti i limiti, «siamo buoni sacerdoti — ha proseguito il Papa — se andiamo da Gesù Cristo, se cerchiamo il Signore nella preghiera: la preghiera di intercessione, la preghiera di adorazione». Se invece «ci allontaniamo da Gesù Cristo, dobbiamo compensare questo con altri atteggiamenti mondani». E così vengono fuori «tutte queste figure» come «il prete affarista, il prete imprenditore». Ma il sacerdote, ha affermato con forza, «adora Gesù Cristo, il prete parla con Gesù Cristo, il prete cerca Gesù Cristo e si lascia cercare da Gesù Cristo. Questo è il centro della nostra vita. Se non c’è questo perdiamo tutto! E cosa daremo alla gente?».
Quindi il vescovo di Roma ha ripetuto la preghiera proclamata nella orazione colletta. «Abbiamo chiesto — ha detto — che il mistero che noi celebriamo, il Verbo che si fatto carne in Gesù Cristo fra noi, cresca ogni giorno in più. Abbiamo chiesto questa grazia: il nostro rapporto con Gesù Cristo, rapporto di unti per il suo popolo, cresca in noi».
«È bello trovare preti — ha rimarcato il Papa — che hanno dato la vita come sacerdoti». Preti dei quali la gente dice: «Ma sì, ha un caratteraccio, ha quello e ha quello, ma è un prete! E la gente ha il fiuto!». Invece, se si tratta di «preti, a dire una parola, “idolatri”, che invece di avere Gesù hanno i piccoli idoli — alcuni sono devoti del dio Narciso — la gente quando vede questo dice: poveracci!». Dunque è proprio «il rapporto con Gesù Cristo», ha assicurato il Pontefice, a salvarci «dalla mondanità e dall’idolatria che ci fa untuosi» e a conservarci «nell’unzione».
Rivolgendosi infine direttamente ai presenti — tra i quali un gruppo di sacerdoti di Genova con il cardinale arcivescovo Angelo Bagnasco — Papa Francesco ha così concluso l’omelia: «E oggi a voi, che avete avuto la gentilezza di venire a concelebrare qui con me, auguro questo: perdete tutto nella vita ma non perdete questo rapporto con Gesù Cristo. Questa è la vostra vittoria. E avanti con questo!».
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Per un esame di coscienza

«Ci vergogniamo degli scandali nella Chiesa?». È un profondo esame di coscienza quello proposto da Papa Francesco giovedì 16 gennaio, durante l’omelia della messa celebrata nella cappella della casa Santa Marta. Un esame di coscienza che va alla radice delle ragioni dei «tanti scandali» che ha detto di non voler «menzionare singolarmente» perché «tutti sappiamo dove sono».
E proprio a causa degli scandali non si dà al «santo popolo di Dio il pane della vita» ma «un pasto avvelenato». Gi scandali — ha spiegato ancora il Papa — sono avvenuti perché «la parola di Dio era rara in quegli uomini, in quelle donne» che li hanno creati, approfittando della loro «posizione di potere e di comodità nella Chiesa» senza però avere a che fare con «la parola di Dio». Perché, ha puntualizzato, non vale a nulla dire «io porto una medaglia» o «io porto la croce» se non si ha «un rapporto vivo con Dio e con la parola di Dio!». Inoltre alcuni di questi scandali — ha precisato ancora il Papa — hanno giustamente anche «fatto pagare tanti soldi».
La riflessione del Pontefice è stata ispirata dalla preghiera del salmo responsoriale — il numero 43 — proclamato nella liturgia odierna. Una preghiera che si riferisce a quanto raccontato nella prima lettura e cioè alla sconfitta di Israele. Se ne parla nel primo libro di Samuele (4- 1,11). Recita il salmo citato dal Papa: «Signore, ci hai respinti e coperti di vergogna, e più non esci con le nostre schiere. Ci hai fatto fuggire di fronte agli avversari e quelli che ci odiano ci hanno depredato». È con queste parole, ha detto il Pontefice, che «prega il giusto di Israele dopo tante sconfitte che ha avuto nella sua storia».
Sconfitte che suscitano alcune domande: «Perché il Signore ha lasciato Israele così, nelle mani dei filistei? Il Signore ha abbandonato il suo popolo? Ha nascosto il suo volto?». Il Papa ha precisato che la domanda di fondo è: «Perché il Signore ha abbandonato il suo popolo in quella lotta contro i nemici? Ma non i nemici soltanto del popolo, ma del Signore!». Nemici che «odiavano Dio», che «erano pagani».
«La chiave per cercare una risposta» a questa domanda decisiva il Pontefice l’ha indicata in alcuni versetti della liturgia di ieri: «La parola del Signore era rara in quei giorni» (1 Samuele 3, 1). «In mezzo al suo popolo — ha spiegato ancora riferendosi alla Scrittura — non c’era la parola del Signore, a tal punto che il ragazzo Samuele non capiva» chi fosse a chiamarlo. Il popolo, dunque, «viveva senza la parola del Signore. Se ne era allontanato». Il vecchio sacerdote Eli era «debole» e «i suoi figli, due volte menzionati qui», erano «corrotti: spaventavano il popolo e lo bastonavano». Così «senza la parola di Dio, senza la forza di Dio» lasciavano spazio al «clericalismo» e alla «corruzione clericale».
In questo contesto però, ha proseguito il Papa, il popolo si «accorge» di essere «lontano da Dio e dice “andiamo a cercare l’arca”». Ma portano «l’arca nell’accampamento» come se fosse l’espressione di una magia: dunque non si erano messi alla ricerca del Signore ma di «una cosa che è magica». E con l’arca «si sentono sicuri».
Dal canto loro, «i filistei capirono il pericolo» soprattutto dopo aver udito «l’eco di quell’urlo» che suscitò l’arrivo dell’arca nell’accampamento di Israele e si chiesero cosa significasse. «Vennero a sapere — ha proseguito — che era arrivata nel loro campo l’arca del Signore». Si legge infatti nel libro di Samuele: «I filistei ne ebbero timore e si dicevano: “È venuto Dio nell’accampamento!”». Dunque i filistei avevano pensato che erano andati a cercare Dio e che egli era realmente giunto nel loro accampamento. Invece il popolo di Israele non si era reso conto che con l’arca non era «entrata la vita».
E la Scrittura racconta poi nel dettaglio le due sconfitte contro i filistei: nella prima i morti furono circa quattromila; nella seconda trentamila. Inoltre «l’arca di Dio fu presa dai filistei e i due figli di Eli, Ofni e Fineès, morirono».
«Questo brano della Scrittura — ha notato il Papa — ci fa pensare» a «come è il nostro rapporto con Dio, con la parola di Dio. È un rapporto formale, è un rapporto lontano? La parola di Dio entra nel nostro cuore, cambia il nostro cuore, ha questo potere o no?». Oppure «è un rapporto formale, tutto bene, ma il cuore è chiuso a quella parola?».
Una serie di domande — ha precisato il Pontefice — che «ci porta a pensare a tante sconfitte della Chiesa. A tante sconfitte del popolo di Dio». Sconfitte dovute «semplicemente» al fatto che il popolo «non sente il Signore, non cerca il Signore, non si lascia cercare dal Signore». Poi dopo il verificarsi della tragedia ci si rivolge al Signore per chiedere «ma Signore che è successo?». Si legge nel salmo 43: «Hai fatto di noi il disprezzo dei nostri vicini, lo scherno e la derisione di chi ci sta intorno. Ci hai resi la favola delle genti, su di noi i popoli scuotono il capo». Ed è ciò che porta, ha notato Papa Francesco, a «pensare agli scandali della Chiesa: ma ci vergogniamo?». E ha aggiunto: «Tanti scandali che io non voglio menzionare singolarmente, ma tutti li sappiamo. Sappiamo dove sono!». Alcuni «scandali — ha detto — hanno fatto pagare tanti soldi. Sta bene... ». Ed è stato a questo punto che ha parlato senza mezzi termini di «vergogna della Chiesa» per quegli scandali che suonano come tante «sconfitte di preti, di vescovi, di laici».
La questione, ha proseguito il Pontefice, è che «la parola di Dio in quegli scandali era rara. In quegli uomini, in quelle donne, la parola di Dio era rara. Non avevano un legame con Dio. Avevano una posizione nella Chiesa, una posizione di potere, anche di comodità». Ma «non la parola di Dio». E «a nulla vale dire “ma io porto una medaglia, io porto la croce: sì come quelli portavano l’arca, senza un rapporto vivo con Dio e con la parola di Dio!». E ricordando le parole di Gesù riguardo gli scandali, ha ripetuto che da essi «è venuta tutta una decadenza del popolo di Dio, fino alla debolezza, la corruzione dei sacerdoti».
Papa Francesco ha concluso l’omelia con due pensieri: la parola di Dio e il popolo di Dio. Quanto al primo ha proposto un esame di coscienza: «È viva la parola di Dio nel nostro cuore? Cambia la nostra vita o è come l’arca che va e viene» o «l’evangeliario bellissimo» ma «non entra nel cuore?». Quanto al popolo di Dio si è soffermato sul male che a esso fanno gli scandali: «Povera gente — ha detto — povera gente! Non diamo da mangiare il pane della vita! Non diamo da mangiare la verità! Diamo da mangiare un pasto avvelenato, tante volte!».
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domenica 19 gennaio 2014

Domenica 2 t.ord. "A" 19-gen-2014 (Angelus 176)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Con la festa del Battesimo del Signore, celebrata domenica scorsa, siamo entrati nel tempo liturgico chiamato “ordinario”. In questa seconda domenica, il Vangelo ci presenta la scena dell’incontro tra Gesù e Giovanni Battista, presso il fiume Giordano. Chi la racconta è il testimone oculare, Giovanni Evangelista, che prima di essere discepolo di Gesù era discepolo del Battista, insieme col fratello Giacomo, con Simone e Andrea, tutti della Galilea, tutti pescatori. Il Battista dunque vede Gesù che avanza tra la folla e, ispirato dall’alto, riconosce in Lui l’inviato di Dio, per questo lo indica con queste parole: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29).
Il verbo che viene tradotto con “toglie” significa letteralmente “sollevare”, “prendere su di sé”. Gesù è venuto nel mondo con una missione precisa: liberarlo dalla schiavitù del peccato, caricandosi le colpe dell’umanità. In che modo? Amando. Non c’è altro modo di vincere il male e il peccato se non con l’amore che spinge al dono della propria vita per gli altri. Nella testimonianza di Giovanni Battista, Gesù ha i tratti del Servo del Signore, che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (Is 53,4), fino a morire sulla croce. Egli è il vero agnello pasquale, che si immerge nel fiume del nostro peccato, per purificarci.
Il Battista vede dinanzi a sé un uomo che si mette in fila con i peccatori per farsi battezzare, pur non avendone bisogno. Un uomo che Dio ha mandato nel mondo come agnello immolato. Nel Nuovo Testamento il termine “agnello” ricorre più volte e sempre in riferimento a Gesù. Questa immagine dell’agnello potrebbe stupire; infatti, un animale che non si caratterizza certo per forza e robustezza si carica sulle proprie spalle un peso così opprimente. La massa enorme del male viene tolta e portata via da una creatura debole e fragile, simbolo di obbedienza, docilità e di amore indifeso, che arriva fino al sacrificio di sé. L’agnello non è un dominatore, ma è docile; non è aggressivo, ma pacifico; non mostra gli artigli o i denti di fronte a qualsiasi attacco, ma sopporta ed è remissivo. E così è Gesù! Così è Gesù, come un agnello.
Che cosa significa per la Chiesa, per noi, oggi, essere discepoli di Gesù Agnello di Dio? Significa mettere al posto della malizia l’innocenza, al posto della forza l’amore, al posto della superbia l’umiltà, al posto del prestigio il servizio. È un buon lavoro! Noi cristiani dobbiamo fare questo: mettere al posto della malizia l’innocenza, al posto della forza l’amore, al posto della superbia l’umiltà, al posto del prestigio il servizio. Essere discepoli dell’Agnello significa non vivere come una “cittadella assediata”, ma come una città posta sul monte, aperta, accogliente, solidale. Vuol dire non assumere atteggiamenti di chiusura, ma proporre il Vangelo a tutti, testimoniando con la nostra vita che seguire Gesù ci rende più liberi e più gioiosi.

Dopo l'Angelus:
Cari fratelli e sorelle,
oggi si celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, sul tema “Migranti e rifugiati: verso un mondo migliore”, che ho sviluppato nel Messaggio pubblicato già da tempo. Rivolgo un saluto speciale alle rappresentanze di diverse comunità etniche qui convenute, in particolare alle comunità cattoliche di Roma. Cari amici, voi siete vicini al cuore della Chiesa, perché la Chiesa è un popolo in cammino verso il Regno di Dio, che Gesù Cristo ha portato in mezzo a noi. Non perdete la speranza di un mondo migliore! Vi auguro di vivere in pace nei Paesi che vi accolgono, custodendo i valori delle vostre culture di origine. Vorrei ringraziare coloro che lavorano con i migranti per accoglierli e accompagnarli nei loro momenti difficili, per difenderli da quelli che il beato Scalabrini definiva “i mercanti di carne umana”, che vogliono schiavizzare i migranti! In modo particolare, intendo ringraziare la Congregazione dei Missionari di San Carlo, i padri e le suore Scalabriniani che tanto bene fanno alla Chiesa e si fanno migranti con i migranti.
In questo momento pensiamo ai tanti migranti, tanti rifugiati, alle loro sofferenze, alla loro vita, tante volte senza lavoro, senza documenti, tanto dolore; e possiamo tutti insieme rivolgere una preghiera per i migranti e i rifugiati che vivono situazioni più gravi e più difficili: Ave Maria…
Saluto con affetto tutti voi, cari fedeli provenienti da diverse parrocchie d’Italia e di altri Paesi, come pure le associazioni e i vari gruppi. In particolare, saluto i pellegrini spagnoli di Pontevedra, La Coruña, Murcia e gli studenti di Badajoz. Saluto gli ex-allievi dell’Opera Don Orione, l’Associazione Laici Amore Misericordioso e la Corale “San Francesco” di Montelupone.
A tutti auguro una buona domenica e buon pranzo. Arrivederci!
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venerdì 17 gennaio 2014

Lettera Aldo Trento 14-1-2014

Cari amici, 
ho compiuto 67 anni, 67 anni di grazia e di miseria. 
Ma come diceva Peguy  "L’uomo che é buono per il peccato é buono per la grazia."
Due cose ho imparato in questi lunghi anni. 
1. La coscienza drammatica e gioiosa del peccato é solo frutto dell’incontro con Cristo. Il segno più evidente che uno ha incontrato Cristo è la coscienza di essere un peccatore. 
2. La possibilità che é data alla mia libertá di perdonare a Dio per tutti i mali che ho passato e continuo a passare. Se non perdonassi a Dio come potrei perdonare agli uomini? Pensate che valore ha questa possibilitá che Dio dá alla libertá dell’uomo. Per questa possibilitá il giorno di Natale ho chiesto alle mie bimbe violéntate se perdonavano a chi ha abusato di loro e tutte hanno alzato la mano. Ma proprio perché hanno imparato a perdonare a Dio per aver permesso queste situazioni. 

Nella sera del mio compleanno mi sono commosso perché tutti i mostri sacri della musica Paraguaya mi hanno regalato un concerto che durò dalle 20.30 alle 23.00. impressionante l’affetto immeritato del pubblico, che faceva da coro agli artisti. Il Presidente della repubblica ha mandato suo fratello essendo lui nel chaco. Mi ha scritto questo messaggio: “Carissimo Padre presto vengo a visitarla”. 
Oggi Martedí 14 Gennaio ho saputo che il Presidente della Federazione Paraguaya di calcio e di fatto anche presidente della Federazione Sudamericana di Calcio, che ha la sua sede in Asunción, ha messo a disposizione gratis il grande stadio di calcio della capitale e la stessa selezione Paraguaya di calcio per una amichevole con l’Italia in preparazione dei Mondiali. Non solo ma se l’Italia non volesse venire ha fatto sapere che, giocando il Paraguay a Nizza contro la Francia il 1 di Giugno, sarebbe disposto che la nazionale paraguaya andasse a giocare in Italia. Ma la F.G.C.I. non ha risposto. Forse hanno ancora nel gozzo il fatto che negli ultimi mondiali il Paraguay abbia eliminato l’Italia. 
Il motivo di tutto questo ora: ricavare fondi per le nostre due fondazioni. Dio voglia che qualcuno di quelli che si definivano amici e sono potente políticamente in Italia facciano qualcosa. Davvero questo mio popolo non sa più cosa fare per aiutarci. 
Infine sempre oggi in Pizzeria ho incontrato il gruppo dei controllori (auditores) del gruppo Vierci, che per Natale sono andati per tutto il paese e attraverso le diocesi hanno consegnato 35.000 pacchi di generi alimentari etc. per Natale. 
Il gruppo Vierci é un impero familiare che dà lavoro a 10.000 persone nel continente. Gestisce un’enorme quantità di super e ipermercati, ha una TV che si vede in tutto il mondo, un quotidiano con cui esce il nostro “Osservatore Settimanale”, una Radio, i Burger King del Brasile e di altri paesi sudamericani e di alcuni Stati del Nord America, importa di tutto, dai vini all'informatica, e oggi iniziava una nuova iniziativa aprendo i local della Pizza Dominos, una catena Americana. Però hanno preferito mangiare la nostra della Pizzeria “O sole mio”. 
Nel dialogo con loro è stata chiara una cosa, che “la missione di ogni uomo è quella di generare lavoro e posti di lavoro”. Lo comprendessero tutti! Per di piú é una della poche multinazionali sudamericane che dá due tredicesime all’anno a tutti i suoi dipendenti con molti altri benefici per la casa etc. 
Alla fine mi hanno fatto anche un bel regalo per i miei 67 anni. Questo gruppo ci aiuta nelle medicine piú care con un totale di un miliardo di guaraní all’anno (circa 250.000 euro). Anche questa sera uno dei capi del grupo Vierci ha citato spessissimo Giussani, in particolare “Il senso religioso” e “il rischio educativo” che sono la base con cui educa i colleghi del gruppo Vierci. 
Buonanotte perché sono giá le 23 e dite una preghiera perché il direttore della F.G. C.I. accolga l’invito del Paraguay per una amichevole. 
Per loro un buon allenamento e per noi un bel regalo per i poveri.
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mercoledì 15 gennaio 2014

Quel pezzetto d'eternità nel lager (Contributi 932)

Riporto questo articolo di Cara Ronza da La Bussola:


Il 27 gennaio, Giorno della memoria, ricorderemo una delle più grandi tragedie del Novecento: la Shoah, sterminio sistematico del popolo ebraico, con la vergogna delle leggi razziali, l'orrore della persecuzione e della deportazione, il disprezzo dell'uomo a cui ha saputo arrivare la follia nazista. 
Di fronte a questa tragedia abnorme, alla violenza inaudita, al dolore incancellabile di chi è sopravvissuto, si accendono sentimenti, emozioni, pensieri. Ci assale l'indignazione, magari un confuso senso di colpa oppure ancora l'angoscia che il male possa produrre altre mostruosità del genere. Ci inchioda la paura di cose da cui non saremmo in grado di difenderci, di fatti che potrebbero stravolgere la nostra esistenza. Ma «non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa», scrive Etty Hillesum. E lo fa mentre si trova a Westerbork, il campo di concentramento da dove gli ebrei olandesi partivano per la loro destinazione finale. Roba da matti. Come si fa a dire che i fatti non contano? Ad avere una certezza, una speranza così? «Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici», direbbe Peguy. Ma come si fa a essere felici in un campo di concentramento?
Bisogna leggere il diario e le lettere di questa giovane donna, morta a 29 anni ad Auschwitz nel 1943, per avere la prova inconfutabile che anche con i piedi piantati nella realtà più maledetta si può vivere una felicità «perfetta e piena». Etty Hillesum sapeva bene ciò che stava accadendo a lei e al suo popolo – «vogliono il nostro totale annientamento» –, eppure considerava il male che le rovinava addosso dall'esterno meno pericoloso dell'odio che poteva nascerle nel cuore. «Le mie battaglie le combatto contro di me, contro i miei propri demoni», nemici di cui comunque non aveva paura. Anche perché era troppo impegnata a fare altro. «Si deve contribuire ad aumentare la scorta d'amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all'odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo inospitale e invivibile».
Era un'illuminata oppure una visionaria? Bastano poche note biografiche per capire che era una donna più che mai attaccata alla vita, sempre inquieta, affamata di conoscenze e di esperienze. Quando inizia a scrivere il suo diario, l'8 marzo 1941, ha 27 anni, è laureata in Giurisprudenza e studia per prendere una seconda laurea in Lingua e letteratura russa. Viene da una famiglia colta di ebrei non praticanti. Ha già vissuto diverse relazioni, nessuna semplice, qualcuna ardita (con il vedovo Hendrik Wegerif, di 21 anni più vecchio di lei), ma sta per essere travolta da una passione che la porterà più lontano di quanto avrebbe mai potuto immaginare, oltre la possibilità di accontentarsi di qualcosa che finisce. 
Si è messa a scrivere su suggerimento di Julius Spier, psicoterapeuta tedesco, allievo di Jung, con cui ha iniziato una terapia per cercare di fare ordine nel «gomitolo aggrovigliato» del suo animo. Spier ha 54 anni, è un uomo affascinante. Etty se ne innamora. Spier è «il cemento che salda i miei frammenti» e soprattutto la ricambia. Per capire l'universo di quel suo amante così elevato e complesso, Etty aggiunge alle sue letture preferite, Rilke e Dostoevskij, anche la Bibbia e a Sant’Agostino. Mentre intorno il mondo crolla, Etty ama, legge, vive. Scopre che Spier prega e che pure lei può pregare, perché nel suo cuore, insieme alla sua inquietudine, ha messo su casa anche Dio. «Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo».
Etty ora sa cosa deve fare. Nel luglio 1942 il campo di Westerbork, nel nord est dell'Olanda, diventa "campo di transito di pubblica sicurezza", luogo di raccolta e smistamento per gli ebrei diretti ad Auschwitz. Il Consiglio Ebraico di Amsterdam, per cui sta lavorando come dattilografa, chiede al comando tedesco di potervi aprire una propria sezione, un "dipartimento di aiuto sociale". Etty, che più volte avrebbe occasione di mettersi in salvo e di scappare dall'Olanda, si fa trasferire lì, per condividere la sorte del suo popolo, per accompagnare, confortare, offrire con i gesti, quando non può con le parole, l'imprevedibile pienezza che ha nel cuore. «Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito», scrive nel suo diario. Nel campo, tra le baracche, spunta un gelsomino. «La vita è meravigliosamente buona», scrive.
Il Diario e le Lettere di Etty Hillesum, pubblicati in Italia da Adelphi, registrano l'avventuroso e ostinato percorso spirituale di questa donna nata cento anni fa, il 15 gennaio 1914, ma che sentiamo così vicina. Forse perché la sua vita è una testimonianza potente dell'irriducibilità dell'animo umano, che porta l'impronta del suo Creatore e solo quando riposa in Lui trova pace. 
«Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile ma non è grave: dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà da sé. Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso; se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo; se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. È l'unica soluzione possibile. È quel pezzetto d'eternità che ci portiamo dentro. Sono una persona felice e lodo questa vita, nell'anno del Signore 1942, l'ennesimo anno di guerra».

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domenica 12 gennaio 2014

Battesimo del Signore 12-gen-2014 (Angelus 175)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi è la festa del Battesimo del Signore. Stamattina ho battezzato trentadue neonati. Ringrazio con voi il Signore per queste creature e per ogni nuova vita. A me piace battezzare bambini. Mi piace tanto! Ogni bambino che nasce è un dono di gioia e di speranza, e ogni bambino che viene battezzato è un prodigio della fede e una festa per la famiglia di Dio.
L’odierna pagina del Vangelo sottolinea che, quando Gesù ebbe ricevuto il battesimo da Giovanni nel fiume Giordano, «si aprirono per lui i cieli» (Mt 3,16). Questo realizza le profezie. Infatti, c’è una invocazione che la liturgia ci fa ripetere nel tempo di Avvento: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19). Se i cieli rimangono chiusi, il nostro orizzonte in questa vita terrena è buio, senza speranza. Invece, celebrando il Natale, la fede ancora una volta ci ha dato la certezza che i cieli si sono squarciati con la venuta di Gesù. E nel giorno del battesimo di Cristo ancora contempliamo i cieli aperti. La manifestazione del Figlio di Dio sulla terra segna l’inizio del grande tempo della misericordia, dopo che il peccato aveva chiuso i cieli, elevando come una barriera tra l’essere umano e il suo Creatore. Con la nascita di Gesù i cieli si aprono! Dio ci dà nel Cristo la garanzia di un amore indistruttibile. Da quando il Verbo si è fatto carne è dunque possibile vedere i cieli aperti. È stato possibile per i pastori di Betlemme, per i Magi d’Oriente, per il Battista, per gli Apostoli di Gesù, per santo Stefano, il primo martire, che esclamò: «Contemplo i cieli aperti!» (At 7,56). Ed è possibile anche per ognuno di noi, se ci lasciamo invadere dall’amore di Dio, che ci viene donato la prima volta nel Battesimo per mezzo dello Spirito Santo. Lasciamoci invadere dall’amore di Dio! Questo è il grande tempo della misericordia! Non dimenticatelo: questo è il grande tempo della misericordia!
Quando Gesù ricevette il battesimo di penitenza da Giovanni il Batti­sta, solidarizzando con il popolo penitente - Lui senza peccato e non bisognoso di con­versione -, Dio Padre fece udire la sua voce dal cielo: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (v.17). Gesù riceve l’approvazione del Padre celeste, che l’ha inviato proprio perché accetti di condividere la nostra condizione, la nostra povertà. Condividere è il vero modo di amare. Gesù non si dissocia da noi, ci considera fratelli e condivide con noi. E così ci rende figli, insieme con Lui, di Dio Padre. Questa è la rivelazione e la fonte del vero amore. E questo è il grande tempo della misericordia!
Non vi sembra che nel no­stro tempo ci sia bisogno di un supplemento di condivisione fraterna e di amore? Non vi sembra che ab­biamo tutti bisogno di un supplemento di carità? Non quella che si accontenta dell’aiuto estempo­raneo che non coinvolge, non mette in gioco, ma quella carità che condivide, che si fa carico del disagio e della sofferenza del fratello. Quale sapore acquista la vita, quando ci si lascia inondare dall’amore di Dio!
Chiediamo alla Vergine Santa di sostenerci con la sua intercessione nel nostro impegno di seguire Cristo sulla via della fede e della carità, la via tracciata dal nostro Battesimo.

Dopo l'Angelus:
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo a tutti voi il mio saluto cordiale, in particolare alle famiglie e ai fedeli venuti da diverse parrocchie dall’Italia e da altri Paesi, come pure alle associazioni e ai vari gruppi.
Oggi un pensiero speciale vorrei rivolgerlo ai genitori che hanno portato i loro figli al Battesimo e a coloro che stanno preparando il Battesimo di un loro figlio. Mi unisco alla gioia di queste famiglie, ringrazio con loro il Signore, e prego perché il Battesimo dei bambini aiuti gli stessi genitori a riscoprire la bellezza della fede e a ritornare in modo nuovo ai Sacramenti e alla comunità.
Come è stato già annunciato il prossimo 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, avrò la gioia di tenere un Concistoro, durante il quale nominerò 16 nuovi Cardinali, che - appartenenti a 12 nazioni di ogni parte del mondo - rappresentano il profondo rapporto ecclesiale fra la Chiesa di Roma e le altre Chiese sparse per il mondo.
Il giorno seguente presiederò una solenne concelebrazione con i nuovi Cardinali, mentre il 20 e il 21 febbraio terrò un Concistoro con tutti i cardinali per riflettere sul tema della famiglia.
Ecco i nomi dei nuovi Cardinali:
1 – Mons. Pietro Parolin, Arcivescovo titolare di Acquapendente, Segretario di Stato.
2 – Mons. Lorenzo Baldisseri, Arcivescovo titolare di Diocleziana, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi.
3 - Mons. Gerhard Ludwig Müller, Arcivescovo-Vescovo emerito di Regensburg, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
4 – Mons. Beniamino Stella, Arcivescovo titolare di Midila, Prefetto della Congregazione per il Clero.
5 – Mons. Vincent Gerard Nichols, Arcivescovo di Westminster (Gran Bretagna).
6 – Mons. Leopoldo José Brenes Solórzano, Arcivescovo di Managua (Nicaragua).
7 – Mons. Gérald Cyprien Lacroix, Arcivescovo di Québec (Canada).
8 – Mons. Jean-Pierre Kutwa, Arcivescovo di Abidjan (Costa d’Avorio).
9 – Mons. Orani João Tempesta, O.Cist., Arcivescovo di Rio de Janeiro (Brasile).
10 – Mons. Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve (Italia).
11 – Mons. Mario Aurelio Poli, Arcivescovo di Buenos Aires (Argentina).
12 – Mons. Andrew Yeom Soo jung, Arcivescovo di Seoul (Korea).
13 – Mons. Ricardo Ezzati Andrello, S.D.B., Arcivescovo di Santiago del Cile (Cile).
14 – Mons. Philippe Nakellentuba Ouédraogo, Arcivescovo di Ouagadougou (Burkina Faso).
15 – Mons. Orlando B. Quevedo, O.M.I., Arcivescovo di Cotabato (Filippine).
16 – Mons. Chibly Langlois, Vescovo di Les Cayes (Haïti).
Insieme ad essi, unirò ai membri del Collegio Cardinalizio tre Arcivescovi emeriti che si sono distinti per il loro servizio alla Santa Sede e alla Chiesa:
Mons. Loris Francesco Capovilla, Arcivescovo titolare di Mesembria;
Mons. Fernando Sebastián Aguilar, Arcivescovo emerito di Pamplona;
Mons. Kelvin Edward Felix, Arcivescovo emerito di Castries, nelle Antille.
Preghiamo per i nuovi Cardinali, affinché rivestiti delle virtù e dei sentimenti del Signore Gesù, Buon Pastore, possano aiutare più efficacemente il Vescovo di Roma nel suo servizio alla Chiesa universale.
A tutti auguro una buona domenica e buon pranzo. Arrivederci!
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