Benvenuti

Questo blog è uno spazio per aiutarsi a riprendere a pensare da cattolici, alla luce della vera fede e della sana dottrina, cosa che la società moderna sta completamente trascurando se non perseguitando. Un aiuto (in primo luogo a me stesso) a restare sulla retta via e a continuare a camminare verso Gesù Cristo, Via Verità e Vita.
Ogni suggerimento e/o contributo in questa direzione è ben gradito.
Affido allo Spirito Santo di Dio, a Maria Santissima, al Sacro Cuore di Gesù e a San Michele Arcangelo questo lavoro di testimonianza e apostolato.
Un caro saluto a tutti e un sentito ringraziamento a chi vorrà contribuire in qualunque modo a questa piccola opera.

S. Giovanni Paolo II

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata... Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita. Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l'autorità di distruggere la vita non nata...Ci alzeremo quando un bambino viene visto come un peso o solo come un mezzo per soddisfare un'emozione e grideremo che ogni bambino è un dono unico e irripetibile di Dio... Ci alzeremo quando l'istituzione del matrimonio viene abbandonata all'egoismo umano... e affermeremo l'indissolubilità del vincolo coniugale... Ci alzeremo quando il valore della famiglia è minacciato dalle pressioni sociali ed economiche...e riaffermeremo che la famiglia è necessaria non solo per il bene dell'individuo ma anche per quello della società... Ci alzeremo quando la libertà viene usata per dominare i deboli, per dissipare le risorse naturali e l'energia e per negare i bisogni fondamentali alle persone e reclameremo giustizia... Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.

martedì 31 maggio 2011

La società ha bisogno di “un rinnovato annuncio di speranza” (Contributi 474)

“L'essere cristiano non è un abito da vestire in privato o in particolari occasioni”

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 30 maggio 2011 (ZENIT.org).
In una società come quella odierna, spesso segnata dalla secolarizzazione, la Chiesa ha il compito di offrire agli uomini “un rinnovato annuncio di speranza”.
Papa Benedetto XVI lo ha affermato questo lunedì mattina ricevendo in udienza i partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, da lui istituito lo scorso anno dando “uno sbocco operativo” alla riflessione che aveva condotto da lungo tempo “sulla necessità di offrire una risposta particolare al momento di crisi della vita cristiana”.
“Il termine 'nuova evangelizzazione' richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana”, ha osservato il Pontefice nel suo discorso.
“Sottolineare che in questo momento della storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione vuol dire intensificare l’azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore”.
Nel contesto attuale, ha riconosciuto, “la crisi che si sperimenta porta con sé i tratti dell’esclusione di Dio dalla vita delle persone” e “di una generalizzata indifferenza nei confronti della stessa fede cristiana, fino al tentativo di marginalizzarla dalla vita pubblica”.
“Si assiste al dramma della frammentarietà che non consente più di avere un riferimento unificante; inoltre, si verifica spesso il fenomeno di persone che desiderano appartenere alla Chiesa, ma sono fortemente plasmate da una visione della vita in contrasto con la fede”.
“Annunciare Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, oggi appare più complesso che nel passato; ma il nostro compito permane identico come agli albori della nostra storia”, ha riconosciuto il Papa. “La missione non è mutata, così come non devono mutare l’entusiasmo e il coraggio che mossero gli Apostoli e i primi discepoli”.
“Lo Spirito Santo che li spinse ad aprire le porte del cenacolo, costituendoli evangelizzatori, è lo stesso Spirito che muove oggi la Chiesa per un rinnovato annuncio di speranza agli uomini del nostro tempo”.
La nuova evangelizzazione, ha indicato, “dovrà farsi carico di trovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza, senza del quale l’esistenza personale permane nella sua contraddittorietà e priva dell’essenziale”.
“Anche in chi resta legato alle radici cristiane, ma vive il difficile rapporto con la modernità, è importante far comprendere che l’essere cristiano non è una specie di abito da vestire in privato o in particolari occasioni, ma è qualcosa di vivo e totalizzante, capace di assumere tutto ciò che di buono vi è nella modernità”.
In questo contesto, il Papa ha chiesto “un progetto in grado di aiutare tutta la Chiesa e le differenti Chiese particolari nell’impegno della nuova evangelizzazione”, progetto in cui “l’urgenza per un rinnovato annuncio si faccia carico della formazione, in particolare per le nuove generazioni”, e che “sia coniugato con la proposta di segni concreti in grado di rendere evidente la risposta che la Chiesa intende offrire in questo peculiare momento”.
Visto che “lo stile di vita dei credenti ha bisogno di una genuina credibilità, tanto più convincente quanto più drammatica è la condizione di coloro a cui si rivolgono”, il Pontefice ha concluso con le parole dell'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Papa Paolo VI: “È mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità”.
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lunedì 30 maggio 2011

Luca, uno storico diventato cronista (Articoli 59)

Ecco un nuovo capitolo di Ruggero Sangalli (tratto sempre da La Bussola) sulla toricità dei Vangeli (e non solo..):

Il cristianesimo è fondato sui fatti, quindi con date e persone precise. Ai suoi detrattori fa comodo riferirlo a filosofie, scuole, elaborazioni posteriori di comunità non ben identificabili. Intristisce sapere che anche i cristiani alimentano questo approccio, sganciato dal doversi misurare e farsi carico immediatamente della cruda realtà e degli imprevisti della storia.

Gli Atti degli Apostoli costituiscono un valido antidoto a tali venefiche tossine. Il testo, proposto in abbondanza dalle letture delle sante messe post-pasquali, presenta una scansione cronologica lineare che copre un periodo che va dai mesi a immediato ridosso dell’epilogo dei Vangeli (nella primavera del 33) ai due anni di arresti domiciliari di Paolo a Roma (conclusi attorno al 60).
L’autore è san Luca, che inizia (At 1,1-2) il racconto dichiarandolo posteriore al suo Vangelo e che compone gli Atti non solo da storico, ma anche da cronista (dal capitolo 16) e scrive quel che accade usando il “noi”, essendo compagno di viaggio di Paolo. Il libro si chiude con la citazione della detenzione romana. Paolo in seguito riprese a viaggiare e Luca era ancora con lui: è logico ipotizzare gli Atti terminati prima del martirio di Giacomo il minore (61) e poi di Pietro e Paolo (67)
I primi capitoli, raccontati in terza persona, sono in uno stile molto simile al terzo Vangelo e adesso saldati: Gesù ordinò agli apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme, attendendo l’adempimento della promessa del Padre (Lc 24,49). Tra la Risurrezione (16 nisan) e la Pentecoste (6 sivan) passano 50 giorni. Di questo lasso di tempo si occupano i primi due capitoli degli Atti degli Apostoli, culminanti in un magistrale discorso di Pietro (At 2,14-40), più che mai ispirato e riconosciuto capo e guida della Chiesa nascente a nemmeno due mesi dal mortificante rinnegamento di Gesù del 14 nisan.
Dallo studio della Lettera ai Galati (Gal 1-11-2,21) è stato possibile datare la conversione di Saulo/Paolo al 34 e negli Atti la troviamo al capitolo 9. Il martirio di Stefano è anteriore e si trova al capitolo 7. Nei capitoli dal 3 al 6 leggiamo episodi avvenuti nella seconda metà del 33.
Le affermazioni di Pietro ai capitoli 3, 4 e 5, rafforzate dai miracoli degli apostoli (At 3,6; At 5,12) ci illustrano i primissimi passi dell’annuncio del vangelo affidato agli uomini che hanno riconosciuto la rivelazione del Padre nel Figlio Gesù. Nel 33 gli argomenti usati da Pietro (Gesù è il predetto dalle Scritture; l’adempimento delle promesse di Dio; la necessità di accogliere Gesù fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose; l’universalità della benedizione alla discendenza di Abramo) gettano le basi di ciò che sarà poi l’apostolato di Paolo (partire dalle sinagoghe, collegare la realtà di Gesù alla Legge ed ai profeti, aprire ai pagani, ricapitolare tutte le cose in Cristo Gesù). Sono quelli che la Chiesa (quella vera) afferma ancora oggi: «Gesù, la pietra scartata dai costruttori, è divenuta testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza (At 4,11-12)». È il succo della Dominus Iesus, redatta dall’allora card. Joseph Ratzinger, che ha inteso seguire l'esempio dell'Apostolo Paolo ai fedeli di Corinto: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto» (1 Cor 15,3).
La persecuzione verso la Chiesa nascente (At 8,1) avviene mentre a Gerusalemme sono ancora al loro posto sia Pilato che Caifa (rimossi nel 36 d.C.). Tre anni dopo la sua conversione, Paolo fece ritorno in città (Gal 1,18 e menzione anche in At 9,26) per conoscere Cefa/Pietro, senza più Caifa ma non senza rischi (At 9,29): è probabilmente l’inizio del 37 d.C., quando Tiberio era ancora vivo e Vitellio, suo incaricato, aveva rimesso ordine nell’area scossa da violenti scontri interni (esecuzione illegale di Stefano, una strage di Samaritani) ed esterni (morto Filippo, ci fu la guerra tra Areta ed Erode Antipa).
Il periodo tranquillo (At 9,31) è breve: nel marzo del 37 muore Tiberio e Caligola complica le cose. Quando Paolo si reca a Tarso (At 9,31), sua città natale, siamo all’epilogo di una fase favorevole alla diffusione del cristianesimo. I capitoli 10 e 11 descrivono l’apertura missionaria dell’evangelizzazione dei non ebrei, trasmessoci da altri due celeberrimi discorsi di Pietro (At 10,34, poi giustificato ai meno propensi in At 11,4-17). Ormai la Chiesa è allargata ai pagani. Antiochia, terza città (dopo Roma ed Alessandria d’Egitto) per importanza dell’impero romano, è la culla del primo nucleo visibile di credenti che furono chiamati cristiani (At 10,26). Da notare che tutta questa fase è anteriore al 40 (la data più probabile è il 37-38) e vede Pietro indiscusso protagonista.
Il racconto degli Atti, fin qui molto lineare e senza salti, si fa molto frammentario. Il capitolo 12, dall’inizio del 41 alla Pasqua del 44 (regno di Erode Agrippa a Gerusalemme), descrive la nuova persecuzione anti-cristiana, con il martirio di Giacomo il maggiore e la miracolosa fuga di Pietro dalla prigione. E’ isolato dal resto, con un “buco” di circa tre anni (38,39,40) prima e di altri tre (44-45-46) dopo. In questo lasso di tempo sono accadute cose di cui non sappiamo quasi nulla. Non deve sfuggire la stranezza di un testo fin lì molto dettagliato (11 capitoli per gli anni dal 33 al 37) e che tornerà ad esserlo (16 capitoli, dal 13 al 28, per gli anni dal 47 al 60) con quest’unico capitolo, il dodicesimo, in rappresentanza di 9 anni (dal 38 al 46) ragionevolmente altrettanto ricchi di fatti.
Dal capitolo 13 è narrato il primo viaggio di Paolo, databile al 47, avendo notizia da Giuseppe Flavio di una grave carestia che colpì la Palestina nel 46-47 (sotto Tiberio Alessandro) che costrinse a inviare aiuti alimentari dall’Egitto e fichi da Cipro. Il concilio di Gerusalemme (49) sembra una diretta conseguenza dello scontro tra i cristiani più legati alla tradizione ebraica e quelli provenienti da altre culture (Gal. 2,11-21). L’episodio scatenante è una visita di Pietro ad Antiochia, dove Paolo giunse di ritorno dal primo viaggio (tra l’altro in Galazia, regione che storicamente comprendeva la Licaonia, una delle terre visitate da Paolo dopo essere stato a Cipro). Dopo il Concilio di Gerusalemme (in cui non si nomina Maria, la cui assunzione è collocabile negli anni in cui gli Atti sono più lacunosi) Paolo riprende a viaggiare, già dalla fine di quello stesso 49, dopo un altro dissenso stavolta con Marco (At 15,39). Sono dettagli importanti per fare degli Atti (e prima ancora dei vangeli) dei testi di cronaca, con tutte le umane fragilità del caso, più che degli elaborati di pastorale e di teologia, ad opera di comunità, nei decenni: non avrebbero mai scritto in questo modo!
Dal capitolo 16 Luca scrive in prima persona, quale cronista che segue l’apostolo nel suo peregrinare (At 16,10). Salvo durante la prigionia a Cesarea, Luca sarà con Paolo fino a Roma. Questo secondo stile narrativo, per le considerazioni fin qui fatte, dovrebbe suggerire che la prima parte degli Atti abbia avuto una genesi anteriore alla seconda, retrodatando ancor più l’epoca in cui Luca scrisse la prima parte dei suoi testi neotestamentari. La mancanza di un’integrazione alle informazioni relative agli “anni oscuri” è una prova in più del grande rispetto sempre avuto per i testi canonici: chiunque avesse scritto trenta-quarant’anni dopo si sarebbe preoccupato di colmare, almeno per sommi capi, le evidenti “zone d’ombra”. Invece qui il testo ci è pervenuto così come è, silenzi compresi, evidentemente voluti. Non ha proprio alcun senso che Luca abbia scritto, da storico prima e da cronista poi, con due stili tanto differenti, addirittura dopo l’80 o comunque dopo la distruzione di Gerusalemme (70) e senza farne cenno, così come, già prima, del martirio di Pietro e di Paolo.
Non sfugga il passo della seconda Lettera ai Corinzi 8,18-19: Paolo ci parla proprio di Luca? Dunque ci sarebbe già uno scrittore «che ha lode in tutte le chiese a motivo del vangelo», «designato compagno» di Paolo, di cui questi fa pubblico elogio prima della fine del suo terzo viaggio, proprio quello dove Luca negli Atti degli Apostoli usa più frequentemente il “noi”. Siamo attorno al 56, dopo i “fattacci” di Efeso: se Luca era così noto, il suo Vangelo doveva già avere qualche annetto.
Successivamente Paolo si è anche ammalato di qualcosa. Lo troviamo nella lettera ai Colossesi (Col 1,24) e poi in 4,14 dove Luca è detto «caro medico». La lettera è del 60, durante la prigionia a Roma. Paolo cita Luca anche come «collaboratore» (Fil 1,24). Anni dopo, carcerato in attesa della morte (67 d.C.), Paolo scrive a Timoteo (2Tim 4,11) che ormai tutti lo hanno abbandonato, meno uno: «solo Luca è con me». È l’ultima notizia che abbiamo dell’evangelista: se poco prima del martirio di Paolo gli è così fedele, perché non dovrebbe aver scritto nulla - sempre da cronista - delle vicende successive al 60? Infatti non dice niente già della morte di Giacomo a Gerusalemme (nel 61).
Evidentemente gli Atti così come li conosciamo a quel punto c’erano già e i Vangeli anche prima.
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domenica 29 maggio 2011

Domenica 6^ Pasqua (Angelus 23)

Cari fratelli e sorelle!

Nel libro degli Atti degli Apostoli si riferisce che, dopo una prima violenta persecuzione, la comunità cristiana di Gerusalemme, eccettuati gli apostoli, si disperse nelle regioni circostanti e Filippo, uno dei diaconi, raggiunse una città della Samaria. Là predicò Cristo risorto, e il suo annuncio fu accompagnato da numerose guarigioni, così che la conclusione dell’episodio è molto significativa: “E vi fu grande gioia in quella città” (At 8,8). Ogni volta ci colpisce questa espressione, che nella sua essenzialità ci comunica un senso di speranza; come dicesse: è possibile! E’ possibile che l’umanità conosca la vera gioia, perché là dove arriva il Vangelo, fiorisce la vita; come un terreno arido che, irrigato dalla pioggia, subito rinverdisce. Filippo e gli altri discepoli, con la forza dello Spirito Santo, fecero nei villaggi della Palestina ciò che aveva fatto Gesù: predicarono la Buona Notizia e operarono segni prodigiosi. Era il Signore che agiva per mezzo loro. Come Gesù annunciava la venuta del Regno di Dio, così i discepoli annunciarono Gesù risorto, professando che Egli è il Cristo, il Figlio di Dio, battezzando nel suo nome e scacciando ogni malattia del corpo e dello spirito.
“E vi fu grande gioia in quella città”. Leggendo questo brano, viene spontaneo pensare alla forza risanatrice del Vangelo, che nel corso dei secoli ha “irrigato”, come fiume benefico, tante popolazioni. Alcuni grandi Santi e Sante hanno portato speranza e pace ad intere città – pensiamo a san Carlo Borromeo a Milano, al tempo della peste; alla beata Madre Teresa a Calcutta; e a tanti missionari, il cui nome è noto a Dio, che hanno dato la vita per portare l’annuncio di Cristo e far fiorire tra gli uomini la gioia profonda. Mentre i potenti di questo mondo cercavano di conquistare nuovi territori per interessi politici ed economici, i messaggeri di Cristo andavano dappertutto con lo scopo di portare Cristo agli uomini e gli uomini a Cristo, sapendo che solo Lui può dare la vera libertà e la vita eterna. Anche oggi la vocazione della Chiesa è l’evangelizzazione: sia verso le popolazioni che non sono state ancora “irrigate” dall’acqua viva del Vangelo; sia verso quelle che, pur avendo antiche radici cristiane, hanno bisogno di nuova linfa per portare nuovi frutti, e riscoprire la bellezza e la gioia della fede.
Cari amici, il beato Giovanni Paolo II è stato un grande missionario, come documenta anche una mostra allestita in questo periodo a Roma. Egli ha rilanciato la missione ad gentes e, al tempo stesso, ha promosso la nuova evangelizzazione. Affidiamo l’una e l’altra all’intercessione di Maria Santissima. La Madre di Cristo accompagni sempre e dovunque l’annuncio del Vangelo, affinché si moltiplichino e si allarghino nel mondo gli spazi in cui gli uomini ritrovano la gioia di vivere come figli di Dio.
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Dopo il Regina Caeli


Suor Maria Serafina
 Cari fratelli e sorelle, ieri, a Cerreto Sannita, è stata proclamata Beata Suor Maria Serafina del Sacro Cuore di Gesù, al secolo Clotilde Micheli. Originaria del Trentino, fondò in Campania l’Istituto delle Suore della Carità degli Angeli. Mentre ricordiamo il centenario della sua nascita al Cielo, ci rallegriamo con le sue figlie spirituali e con tutti i suoi devoti.
[saluti nelle varie lingue]
Sono lieto di salutare i docenti e gli studenti del Pontificio Istituto di Musica Sacra, di cui si celebra il centenario di fondazione. Cari amici, rinnovo per voi l’assicurazione del mio ricordo nella preghiera.

E infine saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli di Piacenza, Pontassieve, Prato, Carmignano, Ascoli Piceno, Teramo e Montesilvano Colle, l’associazione “Apostoli della Divina Misericordia con Maria Regina della Pace”, la Corale “S. Roberto Bellarmino” di Davoli, i bambini della Prima Comunione della parrocchia di San Tommaso Apostolo in Roma, la scuola “Figlie di Gesù” di Carrara e la Federazione Italiana Hockey, che stamani ha organizzato una manifestazione sportiva presso Piazza S. Pietro. Saluto con particolare affetto i bambini colpiti da ernia diaframmatica e i loro genitori, e ricordo che oggi ricorre la Giornata Nazionale del Sollievo, dedicata alla solidarietà con i malati. A tutti auguro una buona domenica, una buona settimana. Grazie per la vostra attenzione. Buona domenica a tutti voi.
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venerdì 27 maggio 2011

La New Age si insinua inconsciamente nella la vita dei giovani (Contributi 473)

Propongo questo articolo perchè si cominci a capire il pericolo strisciante nella cultura (e non solo in Spagna)

Una religiosità senza dogmi e senza vertice

di José Luis Vázquez Borau (laureato in filosofia e teologia, è membro de la Red Iberoamericana de Estudio de las Sectas (RIES) e si dedica in particolare allo studio delle religioni. È autore di più di cinquanta opere di filosofia, antropologia, spiritualità, sette e biografie di personaggi)

MADRID, giovedì, 26 maggio 2011 (ZENIT.org).
Sebbene, come dice il rapporto della Fundación Santa María, “Dio è il grande assente nelle famiglie spagnole, in un momento segnato da stili di vita consumistici e edonistici, incentrati nel piacere”, nella vita dei giovani si insinua inconsciamente, come un grande fiume che scorre attraverso molti canali, la New Age, che si presenta come una tipica forma di sensibilità religiosa contemporanea, come una nuova religiosità.
Non si tratta di un movimento religioso, di una religione o di una setta nel senso sociologico, ma di una rete globale che collega centri e gruppi che tra loro hanno in comune alcuni temi di riferimento e che non propone alcun vincolo stabile, permanente o gerarchico come nei movimenti. Ciò che dà vita alla rete della New Age è lo spirito “alternativo” alla tradizione religiosa dominante in Occidente, che è quella cristiana, e la speranza di una nuova era, l’era dell’Acquario, che subentrerà all’era dei Pesci.
Il grande movimento che si cela oggi sotto la New Age è formato dal Movimento del potenziale umano (MPU) e dalla Psicologia transpersonale, che può condurre a esperienze di carattere irreale, assurdo, fantastico o semplicemente fraudolento. Questo mondo dell’occulto e del soprannaturale a buon mercato sta diventando l’ultima moda della religiosità attuale.
Come orizzonte troviamo nuovamente un’inaspettata fiducia nella condizione umana, nel potenziale della mente e nelle enormi possibilità di autorealizzazione che invitano la persona a trascendere il suo io individuale e a incontrare dimensioni mistiche nell’inconscio.
La New Age propone teorie e dottrine su Dio, sull’essere umano e sul mondo, incompatibili con la fede cristiana. Inoltre la New Age è sintomo di una cultura in profonda crisi ed è al contempo una risposta sbagliata a tale crisi. Senza testi sacri e senza un vertice, la New Age appare come un mare senza fondo, in cui ognuno naviga a proprio modo, combinando lo spiritismo con l’astrologia, le tecniche alternative di meditazione e di terapia con un ottimismo sull’universo, poiché la materia appare come una grande vibrazione energetica spirituale che trasforma tutto, che collega tutto inconsciamente e che dirige tutto verso un fine più alto e sublime. Si potrebbe dire che la New Age, riprendendo idee di altri movimenti, vecchi e nuovi, è soprattutto un “clima”, un atteggiamento che esprime lo sforzo, l’intenzione, di dare soluzione – attraverso una mentalità postmoderna – ai problemi religiosi e al contempo a quelli ecologici, personali, privati e cosmici.
La New Age accusa il Cristianesimo di carenza in esperienze di vita, di sfiducia rispetto alla mistica, di incessanti esortazioni morali e di esagerata insistenza sull’ortodossia della dottrina. Il movimento insegna, inoltre, che il fondamento della vera religiosità è più l’esperienza e il sentimento che la ragione e l’autorità. Esso offre, infine, tecniche, cammini e modi di avvicinamento alla divinità.
È per questo che è necessario dare una formazione solida, nelle famiglie e nei centri educativi in generale, perché i giovani abbiano la capacità di discernimento e possano resistere ai tanti e così vari inviti che si presentano solitamente in modo molto seducente. Occorre al contempo offrire ai giovani delle nostre comunità un’autentica esperienza religiosa perché possano essere veri testimoni del Vangelo.
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martedì 24 maggio 2011

Un lettore scrive (Interventi 91)

In un commento al post che raccontava del battesimo avvenuto nel carcere di Padovva (vedi) un lettore pone una domanda. Invito chiunque sia in grado di rispondere in modo esauriente a farlo in modo da aiutare il nostro amico nel suo "problema". Personalmente lo ringrazio per quanto dice e mi impegno ad informarmi per dare una risposta corretta. A voi tutti il piacere di leggere le sue parole, che sono un'ulteriore testimonianza:

Vi ringrazio immensamente di questa bellissima storia , ribadisco che è proprio vero che fa più rumore il tonfo di un albero che cade , che una foresta intera che cresce in silenzio e non si vede , il bene non fa notizia , non fa rumore davvero , ma sulle spalle porta il mondo intero !!!

Queste sono le parole di uno dei successi dei Gen Rosso !
Trovo conforto in questa esperienza di vita , perché mi fa ricordare come il film del Papa , dove i Cristiani sono costretti a vedersi di nascosto , a fare messa nei sotterranei , si riuniscono e si nutrono della parola di Dio , anche a costo di essere picchiati e uccisi ; se invece guardiamo noi che siamo completamente liberi , preferiamo allontanarci da Dio e dalla Sua Parola , ci allontaniamo dalla Madre Chiesa , solo perché la notizia di preti che stuprano ci martella la testa , questo è il diavolo fratelli , che gioca con queste notizie e ci fa allontanare da Dio !!!!!!
A questa conclusione di questo argomento , vorrei delle informazioni circa il battesimo :
Noi siamo una coppia che abbiamo adottato un bambino ucraino , ha nove anni e lo abbiamo chiamato Samuele , perché è stato un dono di Dio ad una coppia che non poteva generare figli !!!!!! Abbiamo vissuto tre lunghissimi mesi in quella maledetta Ucraina , dove ci hanno svuotato le tasche fino all ' ultimo centesimo , tanto da farmi mandare i soldi del ritorno da mia madre !!!!
E' da un anno che siamo una famiglia unita e solare , abbiamo una gioia infinita , ma uno dei problemi che ci assillano , oltre a quello economico , è quello che lui era un bambino ortodosso , battezzato in ortodosso , quindi significa che ha già fatto anche la prima comunione e la cresima !!!!!
Dopo aver fatto vedere il certificato di battesimo , i preti ci hanno detto che non si può ne battezzare , ne cresimare , perché già li ha ricevuti con il rito ortodosso !!!
E' possibile che non possiamo avere , anzi addirittura è lui stesso che ce lo chiede da quando è con noi in Italia , la gioia di normali genitori che portano il figlio a Gesù e lo avvicinano ai Sacramenti !!!
Cosa dobbiamo fare ?
E se facciamo finta che quel certificato non lo abbiamo mai avuto , che cosa succederebbe ?
A chi mi devo rivolgere ?
Vi prego di darmi una risposta chiunque sia competente a questo tema molto complicato !!!
Esiste la riconferma del battesimo ?
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lunedì 23 maggio 2011

L'ultima Cena di Giovanni, che era vicinissimo a Gesù (Articoli 58)

Un nuovo articolo di Ruggero Sangalli dalla Bussola sul tema della storicità dei Vangeli:

Nel Vangelo della IV domenica di Pasqua, Gesù, nel corso dell’ultima cena, cercando di preparare i discepoli all’addio imminente, risponde a due considerazioni di Tommaso e Filippo, la prima una domanda (Gv 14,5), la seconda una richiesta (Gv 14,8). Il Vangelo di Giovanni dedica ben cinque capitoli (su 21 complessivi) a ciò che Gesù disse nel corso dell’ultima cena, nella sera del nostro attuale giovedì, già in quel 14 nisan del calendario ebraico in cui il Cristo fu arrestato, processato, torturato, crocifisso e sepolto. Pensiamoci bene: cinque capitoli (dal 13 al 17) dedicati ad un intervallo di meno di 3 ore, quando solo altri due (il 18 ed 19) ci racconteranno, e minuziosamente, le 18 ore successive.

Molti sostengono che il Vangelo di Giovanni sia stato scritto molti anni dopo i fatti che racconta, che abbia un taglio teologico e che abbondi di simbologie rielaborate durante questi decenni. Accettando la sfida di questa ipotesi, scorriamo il testo cercandone gli indizi a sostegno o meno: dal capitolo 13 sono descritti i particolari dell’Ultima Cena che non contraddicono, ma integrano quelli dei sinottici. Le parole di Gesù non sono riassunte sotto forma di discorso teologico, di “canone” o elenco dei “punti chiave”, bensì, semplicemente e assai genuinamente, attraverso i dialoghi serrati tra i protagonisti.
Nel capitolo 13 c’è per esempio la lavanda dei piedi: frasi brevi, secche. C’è più l’aria del cronista o dello studente che prende appunti, sul posto, riportando le frasi udite, forse senza capire bene tutto, piuttosto che del teologo che scrive decenni dopo. Chiunque abbia verbalizzato una riunione può capire la differenza tra riportare anche solo una settimana dopo le frasi dei presenti, o appuntarsele al momento. E Giovanni in quel frangente era proprio vicinissimo a Gesù (Gv 13,23).
Non va dimenticato che Giovanni a quel tempo era giovane e che non doveva essere particolarmente istruito (in Atti 4,13 Luca lo scrive esplicitamente ). Il capitolo 13 si conclude con una dichiarazione di Gesù, fedelmente riferita (Gv 13,21). Era già notte (già passate le 21), quando Giuda lasciò la mensa ed uscì. Gesù a quel punto parla di un prossimo distacco. Un ulteriore scambio di battute con Pietro (Gv 13,36-38), anticipa quel che accadrà prima del canto del gallo.
Siamo arrivati al Vangelo di questa domenica: Gesù ha rimbrottato Pietro e l’ha messo comprensibilmente a disagio; e rincuora lui e gli altri: «Non sia turbato il vostro cuore… Abbiate fede…». Nelle nemmeno due ore che rimangono tra questo istante ed il trasferimento al Getsemani, Gesù parla intensamente con i discepoli. Giovanni ha come “assorbito” ogni parola e ce la trasmette nel dialogo che l’ha suscitata. Gli apostoli non sono certo rimasti lì distratti: si affastellano le domande, la tensione, la preoccupazione, forse la paura, i dubbi... Gesù spiega, riannodando i fili di quasi due anni di predicazione vissuti insieme, dal suo battesimo a quest’ora decisiva, più volte preannunciata.
Anche solo a leggere quel che riportano i capitoli dal 14 al 17, con un minimo di respiro e drammatizzazione scenica, si impiega una buona mezz’ora: è un rapporto standard tra le parole che si dicono in un’ora e gli appunti che riesce ad annotarsi un attento ascoltatore. Insisto: Giovanni non propone un trattato riassuntivo, ma dei dialoghi vivaci, nominando i protagonisti (Pietro, Tommaso, Filippo, Giuda Taddeo). Non indulge nella descrizione degli stati d’animo, non presenta un ordinato estratto teologico, ma offre come dei frammenti, quasi intravvedendo a tratti dei lampi di luce (il Consolatore, «vi lascio la pace, vi do la mia pace», la vite e i tralci, il comandamento dell’amore, l’odio del mondo, ancora il Consolatore, il ritorno, la disincantata disamina di Gesù sulla scarsità di fede in Gv 16,31, la preghiera finale), non senza qualche ripetizione.
Tommaso è il generoso apostolo che aveva detto: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Gv 11,10) prima di partire alla volta di Betania, dove Gesù aveva risuscitato Lazzaro. Qui, durante l’ultima cena, ha chiesto: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Dal Vangelo di Giovanni si sa che Tommaso fu assente quando Gesù apparve per la prima volta agli altri discepoli (Gv 20,19-23). Quando Tommaso si sente dire dagli altri: «Abbiamo visto il Signore» (Gv 20,25), risponde risoluto di non crederci. Gesù disse allora una frase divenuta famosa, che talora troviamo impropriamente tradotta usando il verbo al futuro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Il testo originale in greco usa però un tempo aoristo da tradurre usando il passato: «Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto» (Gv 20,29).
Tommaso si spinge fino a voler toccare ciò che altri avevano già visto; non ha creduto ai testimoni oculari, suoi amici. Non è che non abbia creduto ad un’idea, ma alla loro testimonianza diretta. L’imprecisione che può introdursi cambiando il tempo dei verbi può mutare il senso delle parole di Gesù, senza più riferirle a Giovanni (che scrive) e agli altri discepoli (già realtà), ma ai credenti futuri (in ipotesi). Giovanni infatti, entrato nel sepolcro vuoto, «vide e credette» (Gv 20,8). Non vide Gesù in persona, ma vide davvero quanto basta per credere. E’ questo Giovanni che rimanda quasi a memoria tutte le parole dell’ultima cena, il Giovanni che non è fuggito e stava con la Madre sotto la croce! Questo loda Gesù in chi ha “già” creduto, ha “visto” e lo afferma (Gv 20,25), senza pretendere prove così esagerate come quelle poste come condizione da Tommaso. Non è certo l’apologia di una fede priva di verifiche e tanto meno una questione da porsi soltanto 20 o 50 anni dopo i fatti di quel 33.
Perciò Gesù, appellandosi alla fede dei discepoli, conclude il Vangelo di questa domenica, in risposta questa volta a Filippo, raccomandando di aver fede, con il consiglio di non trascurare i fatti. «Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse» (Gv 14,10-11). Perciò non fu rimproverato a Tommaso di aver voluto verificare toccando le ferite di Gesù, ma l’iniziale chiusura screditante la testimonianza di coloro che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Tommaso nel Vangelo odierno dice di non conoscere la via e Gesù la via gliela farà toccare: la via è Lui stesso, compresa la via della croce, con le sue ferite.
Un’imprecisa traduzione dal greco può avvalorare un’interpretazione che suggerisce l’idea che la vera fede sia quella che prescinde totalmente dai segni visibili. Invece quella di Gesù non è la richiesta di una fede cieca, ma la beatitudine di coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire dai segni disponibili, credendo a testimoni affidabili: la fede della Chiesa. Il padre Ignace de la Potterie nota (in Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea) che Gesù, facendosi toccare le ferite da Tommaso, gli dice: «E non diventare incredulo, ma diventa credente» (Gv 20,27). Spesso lo troviamo tradotto con il verbo “essere” invece del verbo “diventare”. Tommaso infatti, otto giorni dopo la Pasqua, non era ancora ne’ l’uno ne’ l’altro. Scrivere: «E non essere incredulo, ma credente» svia un po’ dal testo originale, che suggerisce l’idea di un divenire derivante dall’incontro con Gesù risorto.
Senza l’incontro con la realtà del Dio vivente non si può cominciare a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo, Tommaso può cominciare a diventare “credente”. Eliminando questo movimento, si sottintenderebbe che la fede consista in una decisione statica, da prendersi a cura dell’uomo. I primi annunciatori sono stati invece i testimoni oculari di un fatto. Il cristianesimo è diventato “anche” una religione, perché la notizia trasmessa riguarda il Dio già noto dalle Scritture, profetizzato ed atteso.
Al dunque Tommaso vede Gesù e sulla base di questa esperienza, rompe gli indugi. Se al diventare si sostituisce l’essere sembra quasi che a Tommaso sia richiesta una fede preliminare per accostarsi alle sue piaghe; ma così sarebbe la fede a creare la realtà da credere. Al contrario è Dio a rivelarsi, ferite comprese. Tommaso alla fine per Giovanni è un grande teologo. La verifica gli varrà un lapidario: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Gesù non è solo il maestro ed il messia, ma è il Signore Dio.
La predicazione dei primi apostoli non è stata ricca di sapienti parole e di ardite pastorali, ma capace, pur nei limiti dell’umana fragilità, di segni portentosi, a merito di Dio e non delle loro capacità. Sono i segni a dare conferma alle loro parole (Mc 16,20). I fatti nella spiritualità e nella fede cristiana non sono un intralcio, degli intrusi o concessioni all’umana debolezza: fanno parte dell’incarnazione.
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domenica 22 maggio 2011

Domenica 5^ Pasqua (Angelus 22)

Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo dell’odierna domenica, la Quinta di Pasqua, propone un duplice comandamento sulla fede: credere in Dio e credere in Gesù. Il Signore, infatti, dice ai suoi discepoli: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1). Non sono due atti separati, ma un unico atto di fede, la piena adesione alla salvezza operata da Dio Padre mediante il suo Figlio Unigenito. Il Nuovo Testamento ha posto fine all’invisibilità del Padre. Dio ha mostrato il suo volto, come conferma la risposta di Gesù all’apostolo Filippo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Il Figlio di Dio, con la sua incarnazione, morte e risurrezione, ci ha liberati dalla schiavitù del peccato per donarci la libertà dei figli di Dio e ci ha fatto conoscere il volto di Dio che è amore: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6: Opere Complete, Milano 1998, 1001). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia: «In verità, in verità io vi dico – dice il Signore –: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio» (Gv 14,12).
La fede in Gesù comporta seguirlo quotidianamente, nelle semplici azioni che compongono la nostra giornata. «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”» (Gesù di Nazareth II, 2011, 306). Sant’Agostino afferma che «era necessario che Gesù dicesse: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), perché una volta conosciuta la via, restava da conoscere la meta» (Tractatus in Ioh., 69, 2: CCL 36, 500), e la meta è il Padre. Per i cristiani, per ciascuno di noi, dunque, la Via al Padre è lasciarsi guidare da Gesù, dalla sua parola di Verità, e accogliere il dono della sua Vita. Facciamo nostro l’invito di San Bonaventura: «Apri dunque gli occhi, tendi l’orecchio spirituale, apri le tue labbra e disponi il tuo cuore, perché tu possa in tutte le creature vedere, ascoltare, lodare, amare, venerare, glorificare, onorare il tuo Dio» (Itinerarium mentis in Deum, I, 15).
Cari amici, l’impegno di annunciare Gesù Cristo, “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), costituisce il compito principale della Chiesa. Invochiamo la Vergine Maria perché assista sempre i Pastori e quanti nei diversi ministeri annunciano il lieto Messaggio di salvezza, affinché la Parola di Dio si diffonda e il numero dei discepoli si moltiplichi (cfr At 6,7).
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Dopo il Regina Caeli

Cari fratelli e sorelle!


Maria Chiara di Gesù Bambino
 Mi unisco alla gioia della Chiesa in Portogallo, per la beatificazione di Madre Maria Chiara di Gesù Bambino, avvenuta ieri a Lisbona; e a quella in Brasile, dove oggi, a Salvador Bahia, viene proclamata beata Suor Dulce Lopes Pontes. Due donne consacrate, in Istituti posti entrambi sotto la protezione di Maria Immacolata. Siano lodati il Signore e la sua santa Madre!
[saluti nella vaire lingue]
Suor Dulce Lopes Pontes
Rivolgo il mio cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai numerosi cresimandi della Diocesi di Genova, guidati dal Cardinale Bagnasco. Un pensiero va poi al folto gruppo del Movimento per la Vita: cari amici, mi congratulo con voi, in particolare per l’impegno con cui aiutate le donne che affrontano gravidanze difficili, i fidanzati e i coniugi che desiderano una procreazione responsabile; così voi operate concretamente per la cultura della vita. Chiedo al Signore che, grazie anche al vostro contributo, il “sì alla vita” sia motivo di unità in Italia e in ogni Paese del mondo. Benedico i bambini accompagnati dall’UNITALSI, i quali superando i disagi della malattia si fanno testimoni di pace. Incoraggio i malati e i volontari presenti in occasione della Settimana nazionale della sclerosi multipla. Saluto i membri dell’Istituzione Teresiana, nel centenario dell’Associazione; i fedeli provenienti da Saiano, da Montegranaro e da alcune parrocchie di Roma; le scolaresche di Verona e i ragazzi di Torano Nuovo. A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana. Grazie per la vostra presenza.
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sabato 21 maggio 2011

Maria ci mostra il Volto del Padre (Contributi 472)

Una meditazione di padre Angelo del Favero (cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine) a partire dalle letture di domenica prossima, V di Pasqua:
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In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: ‘Vado a prepararvi un posto’? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado conoscete la via”. Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin d’ora lo conoscete e lo avete veduto”. Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù : “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi tu dire: ‘Mostraci il Padre’? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre” (Gv 14, 1-12).

Proprio l’apostolo Giovanni, che ci racconta la richiesta di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!” (Gv 14,8), conclude il prologo del suo Vangelo con un’affermazione che sembra giustificare il discepolo: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Perciò, il velato rimprovero di Gesù: “Da tanto tempo sono con voi…Come puoi tu dire: ‘Mostraci il Padre?” (Gv 14,9), sorprende anche noi.
Filippo sapeva chi era Gesù. Ormai da tre anni seguiva il Maestro, che lo aveva incontrato in Galilea invitandolo senza esitazione a seguirlo. Egli stesso si era trasformato in entusiasta testimone del Signore nei confronti di Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1,43-46). Un’affermazione che dimostra la sua conoscenza delle Scritture.
Filippo, tuttavia, non sembra ancora consegnato totalmente al mistero del suo Maestro, e continuerà ad esitare, come quel giorno in cui Gesù lo mette alla prova chiedendogli: “Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Gv 6,5). In tale circostanza, Gesù non risponde al discepolo come fa oggi, ma lo sorprende con la clamorosa eloquenza della moltiplicazione dei pani, dimostrandogli così ciò che oggi rivela esplicitamente: “..il Padre che rimane in me, compie le sue opere” (Gv 14,10b).
Ma ora Filippo, ancora prigioniero dei suoi schemi, torna con lo stesso atteggiamento ad interpellare il Signore: “Mostraci il Padre e ci basta!” (Gv 14,8).
La sua domanda, per altro, non è certo ingiustificata, come osserva un grande teologo: “Qui vogliamo fermarci e cercare di riflettere. Non è forse così paradossale quell’affermazione centrale “Chi vede me, vede il Padre”, da confinare con la follia? Qui un uomo dice – giacché Gesù è pur sempre un uomo – che chi vede lui, chi lo vede davvero, costui vede Dio. Ma Dio non è forse indicibile, non abita forse “in una luce inaccessibile”, non abbaglia i nostri deboli occhi, cosicché noi non possiamo guardare senza danno in questa luce? Può esserci una rappresentazione del Divino all’interno del nostro mondo limitato, angusto? Certamente nessuno di noi oserà, a meno che non sia pazzo, assumersi il ruolo di interprete di Dio. Ma chiediamoci d’altra parte: Possiamo negare a Dio la capacità di rivelarsi al mondo, se lo vuole? Negargli questo significherebbe racchiuderlo nella sua gloria come in una prigione, in una gabbia d’oro. E non ha forse il Creatore di questo mondo già cominciato a rivelare in esso qualcosa della sua sapienza, grandezza, bellezza, “come in uno specchio e in un enigma”? Perché non dovrebbe egli poter andare avanti e nel volto di un uomo lasciar trasparire i suoi propri tratti?“Chi vede me vede il Padre”. Cioè: chi vede come io mi consumo senza risparmio per gli uomini, nei miei discorsi, nei miei miracoli, nelle pene che per essi io prendo su di me, nelle sofferenze che, imposte da loro, io carico su di me, costui da tutto ciò può vedere come Dio Padre interiormente si pone nei confronti degli uomini, sue creature. Gesù racconta la parabola del figliol prodigo; essa commuove tutti quelli che lo ascoltano. E cosa dice egli con essa? Dice: il Padre è così! E questo atteggiamento interiore del Padre voi potete addirittura con la sua grazia imitarlo, appropriarvene. “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). Se il Padre vi ha perdonato un debito così grande, allora voi potete – addirittura con facilità – perdonarvi l’un l’altro i vostri piccoli debiti” (H. U. V. Balthasar, Tu coroni l’anno con la tua grazia, p. 78).
Tutto ciò ha molto da dirci e confortarci, anche se il volto radioso del Padre si dovesse improvvisamente eclissare a causa di un evento tanto doloroso da renderlo irriconoscibile al cuore. E’ quanto s’è presentato ai miei occhi in questi giorni. Ecco una giovane famiglia felice, perché dopo anni di preghiere e di fiduciosa attesa, Dio Padre ne ha esaudito la supplica per il dono di un altro figlio. Solo pochi giorni fa stavamo festeggiando con gioia grande il lieto evento, giunto ormai alle soglie del terzo mese. Ma ieri mi ha raggiunto questo terribile annuncio: “Caro padre, il mio bambino non c’è più...La gravidanza si è fermata circa una settimana fa e ora sono in ospedale per il raschiamento. Avrei tanto piacere che lei ci scrivesse una mail, così la leggo quando torno a casa…Grazie”.
Questa semplice, rassegnata preghiera di una mail di conforto è la stessa richiesta di Filippo a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14,8), ma com’è difficile mostrare il volto misericordioso del Padre quando la morte trasforma crudelmente in singhiozzi il canto alla sua misericordia! Pensando alle parole della “Salve Regina”, ho scritto loro: “La Madre di ogni figlio è con il vostro bambino in Cielo, ed è con voi in terra per consolarvi con la sua dolce presenza, anche e soprattutto ora, presso la croce del suo Figlio”.
Sì, Gesù mostra in se stesso com’è il Padre, ma è Maria che ci mostra Gesù, il Volto del Padre: “..e mostraci dopo questo esilio Gesù, il frutto benedetto del tuo seno, o clemente, o pia, o dolce vergine Maria”.
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venerdì 20 maggio 2011

Il cielo in una stanza (con sbarre) (Articoli 57)

Propongo un articolo di Antonio Socci, che ci racconta una bella storia:

Un albero che cade – com’è noto – fa più rumore di una foresta che cresce. I telegiornali sono pieni di alberi che cadono: lotte di potere, una serie infinita di omicidi, gli scandali sessuali, le guerre.

Ne viene fuori ogni giorno una rappresentazione mostruosa della realtà.
Una desertificazione umana dove sembra non ci sia più speranza. I media sono una fabbrica gigante di angoscia.
Eppure c’è anche altro. C’è molto altro. C’è l’eroismo quotidiano della gente semplice, di tantissimi padri e di madri, c’è la grandezza di persone che portano amore e speranza, ci sono vite che cambiano e che – magari dall’abisso – ritrovano significato e verità, uomini che rinascono, il Male che batte in ritirata.
E’ la storia di Bledar, un albanese di 37 anni, detenuto nel carcere “Due Palazzi” di Padova dove sta scontando addirittura l’ergastolo.
Con una tale gravame sulle spalle – “fine pena mai” – questo giovane uomo deve avere un passato molto cupo, segnato da tragici errori e – secondo il giudizio umano – dovrebbe essere disperato e incattivito.
Invece ha incontrato la salvezza in carcere ed è rinato. Un uomo nuovo che da sabato scorso si chiama Giovanni, come il discepolo a cui Gesù voleva più bene.
Infatti Bledar-Giovanni, che viene dal Paese dove il comunista Hoxa aveva imposto l’ateismo di stato obbligatorio, cancellando Dio con la tirannia più cupa e sanguinaria d’Europa, ha scoperto Gesù e il cristianesimo, ha chiesto il battesimo e – dopo un percorso di catecumenato – sabato scorso, 14 maggio, nella commozione generale, ha ricevuto dal vescovo di Padova il battesimo e i sacramenti della Comunione e della Cresima.
Ora Giovanni è un altro uomo, destinato a un futuro (e già anche un presente) divino “infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio” (S. Atanasio).
Entrare a far parte della Chiesa non è una questione associativa come prendere la tessera di un club o di un partito, ma è un cambiamento ontologico, cambia cioè la natura stessa dell’uomo che viene liberato dalla signoria di satana e diventa “figlio di Dio”, parte del Corpo vivo di Cristo. Ogni battezzato in quanto “figlio” acquista i titoli di “re, sacerdote e profeta”.
I sacramenti agiscono in profondità (come mostrano i bellissimi romanzi di Graham Greene) e sono la più grande potenza attiva nella storia, perché sono il segno fisico della potenza invincibile di Cristo.
Cambiando il cuore umano cambiano la storia. Infatti la vicenda di Bledar-Giovanni non è affatto isolata. I casi simili sono ormai tantissimi.
Ieri “Avvenire”, dandone notizia, riferiva che il giovane albanese aveva come padrino di battesimo un italiano, Franco, che anch’esso sta scontando in carcere l’ergastolo.
Inoltre quella cronaca dell’evento ci dice che altri due detenuti, Umberto e Ludovico, hanno ricevuto i sacramenti della Cresima e della Prima Comunione.
“Avvenire” accenna anche alla storia del ventottenne cinese Wu, che ha scontato sempre al carcere di Padova una pena per omicidio e ora – tornato in libertà – ha chiesto il battesimo, l’ha ricevuto nella notte di Pasqua prendendo il nome di Andrea e – durante la recente visita del Papa a Venezia – con immensa emozione ha ricevuto la Comunione dalle sue mani.
“Non si può descrivere la gioia di questo momento” ha detto Bledar-Giovanni. “Per me Gesù è amore, è tutto. E grazie a quanti mi hanno accompagnato, una grande famiglia”.
E’ straordinario vedere che l’amicizia di Gesù può portare la felicità perfino nella vita di un giovane che è chiuso in una galera e che – presumibilmente – dovrà consumare il meglio della sua esistenza fra quelle quattro mura, dietro le sbarre.
E’ questo il cielo in una stanza.
La madre di Giovanni, venuta dall’Albania per il battesimo del figlio, con i lucciconi agli occhi, ha ringraziato per la festa e ha detto: “sono felice che mio figlio, dopo tante brutte avventure, abbia potuto incontrare Dio”.
Infatti sono vite che erano perdute e che il Buon Pastore è andato a cercare e che si è caricato sulle spalle, sono esistenze che il mondo giudicava maledette e che Dio ha benedetto e fatto rifiorire.
Dietrich Bonhoeffer, un grande cristiano ucciso in un lager nazista, scriveva:
Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro, sceglie una creatura umana come suo strumento e compie meraviglie lì dove uno meno se le aspetta.
Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono ‘perduto’, lì Egli dice ‘salvato’; dove gli uomini dicono ‘no!’, lì Egli dice ‘sì’! Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì Egli posa il Suo sguardo pieno di un amore ardente e incomparabile. (…).
Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, lì Egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il Suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del Suo amore, della Sua vicinanza e della Sua Grazia”.
Nulla è di ostacolo per lui: non certo i peccati e nemmeno i crimini.
Solo l’orgoglio dell’intellettuale, la strafottenza del peccatore impenitente e la presunzione ipocrita del moralista gli legano le mani.
Al contrario i peccati, le cadute umilianti, la vergogna rendono più appassionata la sua Misericordia. Così accade che le ferite della vita siano spesso le feritoie attraverso le quali lui raggiunge il cuore e resuscita una creatura.
La tradizione cristiana ha sempre saputo che “dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia”. Perché così Dio mostra che nulla a lui è impossibile.
E mostra che gli uomini si salvano per la sua misericordia paterna e non per la loro presunzione. Si salvano attraverso la propria debolezza e non per la loro forza. Anzi, sono le loro presunte capacità a fregarli.
E’ la loro presunta giustizia. Un altro grande convertito, Charles Péguy, diceva che nulla rende impermeabili alla grazia come “la morale”, o meglio la pretesa moralità di coloro che si sentono “perbene” e che – come gli scribi e i farisei – giudicano e condannano gli altri.
A costoro Gesù diceva: “i peccatori e le prostitute vi stanno passando avanti nel Regno dei Cieli”.
Quelli che si ritengono giusti o quelli che si rotolano soddisfatti nel loro peccato, pretendono di autoassolversi e di non aver bisogno della misericordia di Dio, si perdono.
Non hanno ferite della vita e non hanno peccati (o meglio li hanno, ma ben nascosti o non confessati, non brucianti) e così Dio non può raggiungerli nel loro intimo pianto, nel grido del loro cuore.
Vedendo la storia di questi carcerati si resta impressionati dalla facilità con cui Dio salva i cuori umili (perché umiliati).
E così un ergastolano albanese può dire di aver trovato quel Dio e quella felicità che tanti intellettuali pieni di sé e intristiti dicono di cercare e non trovare.
Perché non lui ha trovato la Verità, ma è stato trovato dalla Verità fatta carne. E ben volentieri lui si è lasciato trovare, confortare e abbracciare. Iniziando una vita nuova.
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Sullo stesso tema potete leggere anche QUI
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La Cina, dove Cristo è rifiutato e perseguitato (Articoli 56)

Un articolo tratto dalla Bussola che ci evidenzia un appello del Papa all'udienza di ieri (può essere buona intenzione di preghiera):

Pregare per la Chiesa in Cina, uno dei Paesi dove Cristo è “rifiutato, ignorato o perseguitato”, per i vescovi di quel Paese “che soffrono”, perché “il loro desiderio di stare nella Chiesa una e universale superi la tentazione di un cammino indipendente da Pietro” e per “illuminare quelli che sono nel dubbio, di richiamare gli smarriti, di consolare gli afflitti, di rafforzare quanti sono irretiti dalle lusinghe dell'opportunismo”. E’ l’invito che Benedetto XVI ha rivolto oggi ai cattolici di tutto il mondo, in vista della giornata di preghiera per la Chiesa in Cina, il prossimo 24 maggio.

Alla fine dell’udienza generale, il Papa ha chiesto le preghiera prima di tutto dei cattolici cinesi, ma anche di quelli di tutto il mondo. “Sappiamo – ha proseguito - che, tra i nostri fratelli vescovi, ci sono alcuni che soffrono e sono sotto pressione nell'esercizio del loro ministero episcopale. A loro, ai sacerdoti e a tutti i cattolici che incontrano difficoltà nella libera professione di fede esprimiamo la nostra vicinanza. Con la nostra preghiera possiamo aiutarli a trovare la strada per mantenere viva la fede, forte la speranza, ardente la carità verso tutti ed integra l'ecclesiologia che abbiamo ereditato dal Signore e dagli Apostoli e che ci è stata trasmessa con fedeltà fino ai nostri giorni. Con la preghiera possiamo ottenere che il loro desiderio di stare nella Chiesa una e universale superi la tentazione di un cammino indipendente da Pietro. La preghiera può ottenere, per loro e per noi, la gioia e la forza di annunciare e di testimoniare, con tutta la franchezza e senza impedimento, Gesù Cristo crocifisso e risorto, l'uomo nuovo, vincitore del peccato e della morte. Con tutti voi chiedo a Maria di intercedere perché ognuno di loro si conformi sempre più strettamente a Cristo e si doni con generosità sempre nuova ai fratelli. A Maria - ha concluso il Papa - chiedo di illuminare quelli che sono nel dubbio, di richiamare gli smarriti, di consolare gli afflitti, di rafforzare quanti sono irretiti dalle lusinghe dell'opportunismo"
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giovedì 19 maggio 2011

Per salvare l'uomo, Dio ha bisogno di cuori aperti al bene (Contributi 471)

Ecco una sintesi di quanto Benedetto XVI ha detto all'udienza del 18/5/2001:

La giustizia divina crea il bene con il perdono, ma Dio ha bisogno di cuori aperti per salvare l'uomo dalla “spirale del peccato”. E' quanto ha detto questo mercoledì Benedetto XVI, in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, riflettendo sulla figura di Abramo e sulla sua capacità di intercedere presso Dio per la salvezza dell’umanità.

Nella catechesi odierna il Papa ha infatti preso le mosse da un episodio che vede protagonista Abramo, il grande patriarca ebreo, tratto dal capitolo 18 della Genesi, in cui si racconta di quando Dio era pronto a distruggere gli abitanti di Sodoma e Gomorra per la loro malvagità.
Ma ecco, afferma il Pontefice, che “Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria” e non si limita a intercedere per gli innocenti, ma per tutti e “così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva”.
“Con la sua preghiera, dunque – ha continuato Benedetto XVI –, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa gli empi, perdonandoli”.
Per Abramo, non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli ma anzi bisogna “trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia ‘superiore’, offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti”.
“Con la sua supplica – ha poi spiegato il Pontefice – , Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza (…) Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito”.
Purtroppo, ha ricordato il Papa, neanche dieci giusti vengono trovati in Sodoma e Gomorra e le città saranno distrutte. Questo perché Dio, pur nella sua bontà, ha bisogno “di una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male”, una “trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene” per tramutare “l’odio in amore, la vendetta in perdono”.
Ma se per Sodoma e Gomorra la salvezza dipendeva da dieci giusti, Gerusalemme – come dirà il profeta Geremia – potrà essere salvata anche da un solo giusto.
“Il numero – ha sottolineato il Pontefice – è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la risposta di bene che cerca e Gerusalemme cade sotto l’assedio del nemico”.
“Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo” diventando “il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che ‘non sanno quello che fanno’”.
“Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita”, ha quindi concluso.
Dopo l’Udienza generale il Papa ha ricevuto, in una delle salette adiacenti l’Aula Paolo VI, il nuovo segretario della Lega Araba, Nabil al-Arabi, che poi ha incontrato anche il segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Dominique Mamberti.
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mercoledì 18 maggio 2011

Salvato dalla Chiesa (Articoli 55)

Non esiste solo "don" Riccardo Seppia il prete genovese balzato agli onori della cronaca per i reati di cui è incolpato, ma anche molti (mi auguro una maggioranza bulgara) che invece con fatica e amore portano avanti la loro missione. Queste le parole di uno di loro, Don Angelo Busetto tratto da La Bussola (evidenziazioni e grassetti sono miei):

Mi sono sentito sempre un poco a disagio di fronte a sacerdoti che raccontavano di essere stati salvati dopo uno sbandamento. Non mi ci ritrovavo in quelle ‘esperienze di salvezza’ eccezionali. La mia vita è trascorsa in modo normale, senza la ferita di vicende così drammatiche. Ma in questi giorni, mentre la cronaca invade la piazza con la notizia di un sacerdote che ‘ha sbagliato’, mi ritrovo a dire a me stesso e ad altri: “Mi ha salvato la Chiesa”.

Volgendo indietro lo sguardo negli anni, posso dire di essere stato ‘salvato in anticipo’, e di aver goduto della grazia di essere stato ‘preservato’. Siamo tutti presi dentro il peccato di Adamo, e subiamo il contraccolpo della tentazione fino a venirne catturati e corrotti. Ma ci è stata data la grazia di nascere dentro una storia di salvezza e di partecipare alla comunità dei discepoli del Signore. La grazia che ha accompagnato la mia vita sacerdotale ha preso il volto e il corpo e l’anima della Chiesa: sono le persone che in questi anni mi sono state appresso, i giovani e le famiglie che ho incontrato, le parrocchie che mi hanno avuto come cappellano e come parroco, i familiari che hanno vissuto con me, le persone che hanno condiviso l’esperienza di fede nel movimento di Comunione e Liberazione, gli impegni pastorali che mi hanno fatto lottare contro il tempo, il fiato delle persone che mi pressavano.
Mi accompagna il richiamo preciso e appassionato di un maestro di vita, don Luigi Giussani: l’incontro con lui ha chiarito e sostenuto la mia decisione di continuare ad essere di Cristo e di servirlo. Sono state e sono per me stimolo e richiamo le persone che domandano Cristo, ponendomi davanti la loro angoscia, il desiderio, l’attesa, la domanda della vita; quale risposta, quale pane si può dare a chi chiede da mangiare? Basta donare se stessi, le proprie parole e prestazioni?
L’urgenza e la domanda sono così imponenti che solo una risposta adeguatamente proporzionata vi può corrispondere: il Signore Gesù, la sua persona incontrata e amata. Sono stato accompagnato a conoscerlo e a seguirlo. Mi è stata donata la ricchezza di poter parlare di Lui, indicarlo, donarlo. Al di fuori di questo, mi trovo a sperimentare desolazione, deserto e vuoto.
Mi accompagna un’esperienza reale di Chiesa, che mi circonda, mi abbraccia, mi condiziona, senza concedermi la possibilità di ‘evasioni’ nelle settimane, nelle giornate, nelle ore, persino nel tempo della vacanza. La familiarità con alcuni amici preti continua ad essere una splendida compagnia nel vivere la bellezza e la fatica del sacerdozio.
Ho potuto constatare che Cristo non è semplicemente un ideale, una presenza interiore, un pensiero o una immaginazione; non è il risultato dello studio, che pure si è intensificato negli anni dell’insegnamento intenso e impegnativo della teologia. Il rapporto con Cristo si svolge incontrando e accogliendo la sua presenza visibile e concreta nel volto, nel corpo, nel cuore della Chiesa. Amare Cristo significa amarlo nell’Eucaristia attorno alla quale Egli ci raduna; donarlo nella misericordia del sacramento della confessione; parlare di Lui, appassionandosi per l’edificazione del suo corpo.
Egli non è soltanto il Signore del cielo e il Cristo della teologia, ma il Gesù della Chiesa. Il bisogno affettivo non patisce un vuoto, ma si realizza in un amore vissuto, in un attaccamento e una vibrazione per Lui presente e vivo. Il cuore non viene indotto a disseccarsi, alienarsi, ripiegarsi su di sé, spegnendosi nell’aridità e mortificandosi nella solitudine; si può amare ed essere amati, coinvolgendosi in affetti e legami veri, vissuti con passione.
Chi insiste a dire che il prete deve essere staccato da tutti, ha già cominciato a tracciare la strada della sua perdizione. E’ una grazia l’attaccamento alle persone come segno di Cristo, l’amore a una sposa concreta e non ideale, la sposa che è la Chiesa, non generica o astratta, ma reale nel volto di uomini e donne e bambini per la cui felicità preghi e speri e soffri e lotti, amando con affetto di fratello, di padre, di sposo.
Il prete non è chiamato a vivere staccato dagli altri, ma ad affezionarsi a Cristo che opera in un avvenimento presente.
La disciplina dei sentimenti non conduce a non amare, ma ad amare e accettare di essere amato senza possedere ed essere posseduto perché già si appartiene; amare ed essere amato nella fedeltà alla propria vocazione e nel rispetto della vocazione degli altri. Quest’esperienza non introduce a un di meno, ma un di più. Avete presente la passione di san Paolo, la intensità della sua dedizione, l’irruenza del suo affetto, lui che considerava ‘fidanzata’ la comunità di Corinto, lui che è diventato padre e generatore di persone e comunità?
Se la verginità conducesse a un cuore vuoto, diventerebbe un’alienazione che va poi a cercare da qualche altra parte la sua compensazione.
La verginità è un modo diverso e intenso di amare e di essere amati.
Gesù è riconosciuto, amato e servito nei fratelli e nelle sorelle, in una dinamica affettiva che entra in gioco non solo nel contatto con persone sconosciute, povere e derelitte, ma assai di più nel rapporto quotidiano con le persone per le quali e con le quali si vive e si lavora.
A questa Chiesa, alla quale domando di accompagnarmi nella storia di ogni giorno, continuo ad affidarmi per il presente e per il futuro.
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martedì 17 maggio 2011

Da Iacopone a Dante, tutta la simpatia di Maria (Articoli 54)

Un articolo di Giovanni Fighera, tratto da La Bussola, sulla figura di Maria nella letteratura:

La tradizione della Chiesa ha da sempre riconosciuto nella Madonna la nostra avvocata e mediatrice presso il Figlio Gesù. La Madre, infatti, porta al Figlio e ce lo indica come unica via alla salvezza. Un fedele culto mariano non può che indirizzare a Colui che è «la via, la verità e la vita».

Una vastissima produzione artistica e letteraria ha consacrato a chiare lettere, nel corso dei secoli, quella bellezza che tutta la tradizione cattolica ha fin da subito riconosciuto alla Madonna, la Madre di Dio. Una incursione nel territorio della letteratura alta ci permette di rilevare come nel corso del Medioevo la devozione mariana sia centrale e diffusa nel popolo dei credenti come in quello degli intellettuali e dei letterati. Con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento prima e della Modernità poi, invece, si crea una frattura tra il popolo che continua ad essere devoto alla Madre di Dio e il mondo dei letterati che in rarissimi casi le dedicano componimenti. Questa spaccatura è ancor più evidente se si pensa che tutte le tre principali opere letterarie dell’Europa del Trecento, scritte da fiorentini, la Divina Commedia, il Canzoniere, il Decameron, si concludono idealmente con una preghiera alla Vergine (nei primi due casi) o con una chiara allusione a Lei (nel capolavoro del Boccaccio).
Jacopone da Todi
Partiamo nel nostro percorso dallo Stabat mater dolorosa. Attribuito dalla tradizione a Iacopone da Todi (1230-1306) e musicato da artisti come Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) e Antonin Dvorak (1841-1904), lo Stabat mater rappresenta la Vergine Maria in tutta la sua umanità, in tutto il suo dramma di madre sofferente ai piedi della croce, «afflitta e addolorata» per «le pene del suo figlio ripiegato». Madre e figlio sono i due termini su cui il testo insiste continuamente, sono le due espressioni che attestano anche il rapporto di Maria con noi. Chi di noi non soffrirebbe, si chiede Iacopone, vedendo la madre di Cristo, ma anche madre nostra, soffrire in maniera così atroce. L’uomo può solo chiedere alla Madonna che gli venga permesso di piangere con Lei, può solo gridare con tutto il cuore. Iacopone Le si rivolge allora così: «Permetti che il mio cuore si infiammi/ nell’amore per Cristo Dio,/ per piacere a lui!/ Santa Madre, fa’ in modo che/ le piaghe del crocifisso siano impresse/ profondamente nel mio cuore».
Lo scrittore chiede di poter condividere, compatire la pena per la crocefissione di Cristo, finché sarà in vita. Il centro, il motivo assiologico dell’intera lauda, sta tutto in quel «Fac ut ardeam cor meum», cioè «fa’ in modo che il mio cuore si infiammi tutto nell’ardore di Cristo Dio». L’amore o si offre in forma totale, integrale, o non è vero amore. L’amore, dono commosso di sé agli altri, ci fa desiderare di aiutare Maria a portare la sua croce, di compatire con Lei, lì ai piedi della croce. Allo stesso modo, desideriamo un giorno gioire con Lei anche nel Paradiso: «Quando il corpo morirà/fa’ in modo che all’anima/sia donata/la gloria del Paradiso». Come il Buon ladrone in presenza di Cristo, anche Iacopone alla presenza della Madonna chiede il Regno di Dio.
Qualche anno dopo lo Stabat Mater, il più grande autore della nostra letteratura mostrerà come la compassione della Madonna per il Figlio Gesù è diventata simpatia (nel senso etimologico del termine, «soffrire con») per tutti noi: la Madonna, prevenendo la richiesta di Dante, gli ha inviato in aiuto Santa Lucia. Questa chiederà in soccorso Beatrice, che, a sua volta, si recherà da Virgilio. L’autore dell’Eneide sarà la guida di Dante nella prima parte del viaggio verso la salvezza. Nell’Inferno Dante vedrà tutto il male di cui l’uomo è capace, che lui stesso potrebbe compiere. Sperimenterà la necessità di qualcuno che vada incontro alla sua miseria e che lo guidi. Da solo, infatti, ha tentato di salire sul colle luminoso, preso dall’orgoglio e dalla presunzione, ferito nel cuore come ogni uomo per il peccato originale, che vorrebbe che ci muovessimo senza legami e senza Dio. Come tutti noi, però, anche Dante sperimenta l’inanità della vita, il non senso che avanza nelle giornate, quando si esclude il Mistero.
Ma il Mistero bussa sempre e nuovamente alla nostra porta con infinita misericordia. E così, mentre Dante sprofonda verso l’abisso, il fondo della valle, risospinto dalle tre fiere, «dinanzi agli occhi» gli viene «offerto chi per lungo silenzio» pare «fioco». Virgilio induce Dante a divenire consapevole della necessità di un aiuto. Così, l’homo viator verifica che l’unica condizione che davvero lo eleva e lo rende protagonista della propria storia è quella della mendicanza. La sua discesa agli inferi è, perciò, già una salita, una constatazione di tutto il male di cui il mondo è capace, di cui ogni uomo può macchiarsi.
Nel Purgatorio Dante vedrà, poi, la bellezza della comunione e della condivisione delle anime purganti, che procedono tutte insieme per «ire a farsi belle». È un popolo in cammino quello che sale quegli irti sentieri, è una moltitudine che richiama molto da vicino la ecclesia dei che milita ancora sulla terra. L’unica differenza è la certezza della salvezza che già inonda di gioia le anime purganti, certezza che, invece, la chiesa militante deve ancora conquistare. Umiltà e contrizione (cioè vero pentimento) contraddistinguono la condizione che Dante (e quindi ognuno di noi) deve assumere per poter realmente salire. Il viaggio del Purgatorio è il viaggio a cui noi siamo chiamati fin da oggi per purificare i nostri vizi capitali.
Nel Paradiso, infine, Dante vedrà uomini pienamente compiuti, definitivamente e pienamente felici, le anime dei santi. Per salire di cielo in cielo fino alla visio dei Dante dovrà sostenere degli esami, dovrà rispondere alle domande sulla fede, sulla speranza e sulla carità. Risposte esatte significano esame superato, ma Dante non può ancora vedere Dio. Anzi, i suoi meriti sono così insufficienti e inadeguati che Beatrice stessa, già santa e in cielo, non può nulla.
Entra, quindi, in scena la figura di S. Bernardo, grande santo e mistico del Duecento, l’autore di una delle più belle preghiere mariane, quel Memorare che rappresenta il vertice della fiducia nella Madonna come corredentrice e soccorritrice dell’umanità sofferente. Tradotto dal latino, il testo suona così: «Ricordati, o piissima Vergine Maria, non essersi mai udito al mondo che alcuno abbia ricorso al tuo patrocinio, implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione e sia stato abbandonato. Animato da tale confidenza, a te ricorro, o Madre, o Vergine delle vergini, a te vengo e, peccatore contrito, innanzi a te mi prostro. Non volere, o Madre del Verbo, disprezzare le mie preghiere, ma ascoltami propizia ed esaudiscimi. Amen». Il Memorare ci insegna la virtù della mendicanza e della preghiera. Così come in vita Bernardo ha declamato la bellezza della Madonna, ora, santo in Paradiso, prega l’avvocata nostra, Colei che è «bellezza, che letizia/ era ne li occhi a tutti li altri santi», perché Dante possa finalmente vedere Dio, dopo la fatica di quel lungo viaggio che dalla selva oscura di Gerusalemme lo ha portato fino all’Empireo.
San Bernardo rivolge, così, in Paradiso alla Vergine Maria una delle preghiere più belle che Le siano state mai dedicate: «Vergine madre, figlia del tuo figlio,/umile e alta più che creatura,/termine fisso d’etterno consiglio,/tu se’ colei che l’umana natura/nobilitasti sì, che ’l suo fattore/non disdegnò di farsi sua fattura./Nel ventre tuo si raccese l’amore,/per lo cui caldo ne l’etterna pace/così è germinato questo fiore./Qui se’ a noi meridiana face/di caritate, e giuso, intra ’ mortali,/se’ di speranza fontana vivace./Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/che qual vuol grazia e a te non ricorre/sua disianza vuol volar sanz’ali./La tua benignità non pur soccorre/a chi domanda, ma molte fiate/liberamente al dimandar precorre./In te misericordia, in te pietate,/in te magnificenza, in te s’aduna/quantunque in creatura è di bontate». La Madonna è, qui, presentata in tutta la sua umanità di madre, mamma di Gesù, ma anche nostra. In quanto tale, Maria non può non soccorrere tutti i suoi figli, non solo quelli che chiedono la sua intercessione, ma anche quelli che, orgogliosi o non riconoscenti o ancora convinti che nessuno possa aiutarli, a Lei non ricorrono. Pensiamo alla storia che Dante racconta nella Divina commedia. Quando Dante decide finalmente di gridare «Miserere di me», mentre è risospinto nella selva oscura «là dove ‘l sol tace», in realtà la Madonna ha già visto le sue difficoltà e gli ha già inviato proprio quel Virgilio cui lui rivolge la sua richiesta di aiuto. Maria ha, qui, prevenuto il grido di Dante.
Oltre che madre, la Madonna è stata colei che ha contribuito alla redenzione dell’umanità attraverso l’incarnazione di Cristo. Il fiat che Maria rivolge all’Angelo è il mezzo grazie al quale Dio si è fatto carne. La Madonna ha collaborato alla redenzione del mondo, in un certo modo è corredentrice. Dio ha voluto tutta la disponibilità dell’uomo, Dio ha bisogno degli uomini come recita il titolo di un famoso film di Jean Delannoy (1950). Proprio in grazia dei suoi futuri meriti, Dio ha preservato Maria dal peccato, Lei è la sine labe concepta (la «partorita senza peccato»), l’Immacolata concezione, ricettacolo di misericordia, di pietà e di ogni tipo di carità. La Madonna è per noi continua fonte di speranza cui guardare sempre, anche nei momenti di grande difficoltà: se qualcuno volesse una grazia e non ricorresse a Lei, sarebbe come se un essere vivente fosse sprovvisto di ali e volesse volare.
San Bernardo, subito dopo, vuole spiegare alla Madonna le ragioni che hanno indotto Dante a compiere questo viaggio. Ovviamente, Lei già le conosce, ne sia prova il fatto che è intervenuta in soccorso del poeta ancor prima che lui chiedesse aiuto. Queste sono le parole che San Bernardo Le rivolge: «Or questi, che da l’infima lacuna/de l’universo infin qui ha vedute/le vite spiritali ad una ad una,/supplica a te, per grazia, di virtute/tanto, che possa con li occhi levarsi/più alto verso l’ultima salute./E io, che mai per mio veder non arsi/più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi/ti porgo, e priego che non sieno scarsi,/perché tu ogne nube li disleghi/di sua mortalità co’ prieghi tuoi,/sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi./Ancor ti priego, regina, che puoi/ciò che tu vuoli, che conservi sani,/dopo tanto veder, li affetti suoi./Vinca tua guardia i movimenti umani:/vedi Beatrice con quanti beati/per li miei prieghi ti chiudono le mani!»
Elevandosi sino alla visio Dei, Dante non deve, però, perdere le facoltà intellettive o sensitive. Dante deve, infatti, poter raccontare quello che ha visto, ovvero Dio, definito da San Bernardo come «l’ultima salute», cioè l’estrema nostra possibilità di salvezza, e «sommo piacer», cioè felicità piena per l’essere umano, unica possibilità per soddisfare il desiderio di Infinito che contraddistingue il nostro cuore .
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