"L’educazione è un affare del cuore" (S. Giovanni Bosco)
Ho due figli che da piccoli si stanno facendo grandi. Chi vive la necessità e il tormento di educare sa molto bene quale fatica pesi sull'animo. Spesso, quasi sempre, ci sentiamo inadeguati.
Talvolta qualcuno ci viene in aiuto. Con qualche parola, con qualche consiglio. Ogni cosa può aiutarci nel nostro compito. E' con gratitudine che ho letto, quindi, questa riflessione del cardinale Caffarra, "La responsabilità dell'educatore".
Ecco, qualcuno adesso storce il naso. Cosa ne può sapere uno così? Beh, leggete. Poi ditemi se non vi rinfresca, se non vi coinvolge, se non vi mette in azione il cuore molto di più di certi sproloqui che si suole leggere in giro. Irti di tecnicismi, di dati-di-fatto che tali non sono ma spesso solo modi per sfuggire una responsabilità.
Perché il punto iniziale è giusto quello. La responsabilità. Una responsabilità implica un non potersi tirare indietro, un doversi mettere in gioco. Tanto più quando l'oggetto di tale responsabilità non è un'idea ma una persona vera, reale. Che deve imparare a vivere, a convivere con gli altri e a godere delle verità che impara. Chè senza questo, cosa educhiamo a fare?
Ecco, magari su questo non siete d'accordo. Certamente pare non essere d'accordo la scuola di oggi, almeno in alcune sue componenti. Dove sembra che il punto nodale della scuola non sia l'educare ma l'imparare, e forse neanche, forse solo l'impiegare. Come fa notare Caffarra, "senza preoccuparsi di trasmettere un progetto di vita, ritenuto veramente buono". Perché quel progetto non lo si trova più, è smarrito.
Mi scrivono così:
"Io sono un insegnante di scuola superiore in un Istituto statale: dopo ventotto anni di esercizio di tale professione nella Pubblica Amministrazione italiana sono arrivato a questa conclusione: non solo non esiste, nelle scuole italiane statali, il concetto stesso di educazione (nella riforma Berlinguer, per fare un esempio tra i tanti, non veniva neppure utilizzata la parola, ma si parlava al massimo di "istruzione") ma, cosa ancora più grave, gli addetti alla fornitura del servizio scolastico pubblico non hanno nemmeno l'idea corretta della natura dell'uomo, di come sia fatta e quali dinamiche abbia la persona umana. Gli studenti sono "clienti" (se non addirittura "consumatori" del servizio scolastico), tanto è vero che vengono chiamati "utenza"; gli insegnanti poi non vengono neanche presi in considerazione, in quanto sono considerati semplici ingranaggi dell'apparato pubblico (sono "forza-lavoro", per usare un termine marxiano che però è sempre di grande attualità nella realtà delle scuole nostrane).
In sintesi, per poter parlare di educazione, ossia di una comunicazione di sé da persona che educa a persona che accetta di essere educata, occorre sapere cosa è l'uomo, altrimenti tutta la costruzione cresce sbilanciata e dissestata; se l'uomo viene ridotto ad un agglomerato di molecole casualmente incontratesi non potrà esservi alcuna forma di reale educazione ma, starei per dire, nemmeno di effettivo apprendimento."
Per educare bisogna compiere delle scelte. Educare comporta "un giudizio circa la bontà di ciò che sto scegliendo. La libertà implica sempre un riferimento alla verità." E la verità implica un rapporto con l'infinito, con ciò che va oltre la nostra misura, è indipendente da noi.
Con qualcosa di più grande che su di noi si china e ci sorride, perché ha chiaro chi siamo e cosa è bene per noi. “Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem" (Virgilio, Ecloghe)
(Comincia, o piccolo fanciullo, a riconoscere col sorriso la madre)
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