Questo l'editoriale del numero di aprile 2011 del mensile Tracce:
Ci sono poche cose chiare e certe, nella confusione carica di dolore che ci circonda di questi tempi. Una è che non si può vivere di rendita. Non più. Per esempio, non si può appoggiare la nostra tranquillità su equilibri politici consolidati da decenni: stanno saltando nella maniera più imprevedibile, come vediamo di continuo dalle vicende africane. Non si può più pensare che la ricchezza produca di per sé ricchezza, come è accaduto negli ultimi cinquant’anni in Occidente, senza rimetterla in gioco - e a rischio - ora. Persino le certezze di una vita - la casa, i rapporti: tutto - possono essere spazzate via in un attimo o restare ingabbiate in una minaccia di morte che toglie aria al futuro, come sta accadendo nel Giappone scosso dal terremoto e dalla paura nucleare. Un attimo. Ora.
Così, man mano che ti ritrovi a guardare a quei drammi imponenti e vicini - sempre più vicini -, o a rivederli specchiati nell’urto della realtà a portata di mano (la tua casa, il tuo mondo), ti accorgi che la sfida arriva a un livello più profondo. Radicale. Perché anche la tua, di ricchezza, può non bastare. Persino quella che nel tempo è servita a gettare fondamenta in un terreno solido. Un incontro. Una storia alle spalle. Un’educazione. Il patrimonio del cristianesimo, insomma. Quello che molti di noi definirebbero - a ragione - il fattore decisivo della vita, ciò che ha dato forma alla nostra esistenza. Bene: non possiamo vivere di rendita neanche su quello. Neppure una fede ridotta a patrimonio, a tesoro acquisito, genera di per sé, automaticamente, interessi e dividendi sufficienti a vivere ora, a reggere adesso l’urto della realtà. Un po’ come la parabola dei talenti, avete presente? Quella dove il padrone si arrabbia con il servo che ha nascosto la sua moneta sottoterra per mantenerla integra, invece di farla fruttare. Be’, non è che quella moneta siano solo le nostre doti, le nostre capacità (il talento, appunto): è anche ciò che ti è capitato, il patrimonio consegnato dalla fede.
Se non viene rischiato ora, nel tempo, non serve. Se non c’è una presenza che ti permette di incrementarlo e farlo fruttare adesso, è inutile. Anzi, può addirittura essere dannoso.
Arriva fin qui la provocazione della Pasqua. Di questa Pasqua. «La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti», come ricorda Benedetto XVI nel brano scelto per il Volantone. Se si toglie questo, siamo morti noi. Perché la fede si riduce a «una serie di idee degne di nota» o ad «una sorta di concezione religiosa», ma «è morta». Resta solo «la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile». E ci ritroviamo «abbandonati a noi stessi».
Soli. Incapaci di stare di fronte alle certezze che crollano, in un attimo.
È per questo che Cristo è risorto. Togliendo la pietra del sepolcro, scava anche il terreno dove vorremmo nascondere quello che abbiamo acquisito. Dove a volte ci verrebbe la tentazione di seppellire il patrimonio della fede. E lo fa per restituircelo ora, per farlo fruttare ora. Per togliere dal mondo la nostra solitudine, per sempre.
Nello stesso Volantone, come avrete visto, c’è un altro brano. È di don Giussani. «Ciò che si sa o che si ha diventa esperienza» - e quindi serve a vivere - se «è qualcosa che ci viene dato adesso: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo “ora” non c’è niente!». Ma in questo “ora” c’è Cristo risorto. E possiamo vivere. Buona Pasqua.
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Tra le braccia di Molly Malone
1 mese fa
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Che lo Spirito Santo illumini la tua mente e che Dio ti ricolmi di ogni grazia, spirituale e materiale, e la speciale benedizione materna di Maria scenda su di te..