Per diventare adulto, un figlio deve conoscere e perdonare il proprio padre, e il senso di gesti che non aveva mai compreso. Da questo perdono nasce la speranza. Ed è un'esperienza bellissima. Jonah Linch "Nessuno genera se non è generato"
Si educa con quello che si vive e grazie al cielo qualche volta anche con quello che si sbaglia vivendo.
Di mio padre serbo il ricordo delle uscite in bicicletta, lui alto e magro, con le mani grandi come badili mi issava sul sellino agganciato al manubrio e pedalando con vigore mi portava in giro per il paese. Molte strade erano ancora senza asfalto, mi indicava i tetti delle case che aveva rifatto, era un muratore, orgoglioso del suo saper fare, del suo saper costruire. Facevamo tappa al “Bar Metano” un bar un po’ nascosto dietro alla stazione di servizio, lui scambiava qualche battuta con gli altri operai che passavano il pomeriggio a “batter carta” mi pagava una spuma chiara e poi si riprendeva il giro.
Un giorno, avevo da poco iniziato la prima elementare, la maestra lo incrociò in corridoio, con i suoi abiti blu da lavoro, il basco in testa e il martello in mano, aveva fatto una riparazione a scuola. Lo invitò ad entrare in classe, tutti lo salutarono e la maestra spiegò chi era e quale era il suo lavoro.
Ne ero orgogliosa, ma a pranzo quando lui raccontò a mia madre l’episodio accaduto a scuola, capii che anche lui era orgoglioso di me, ero la più piccola della classe, seduta in prima fila e solo per questo lo avevo reso felice. Poi gli anni sono passati, io ho imparato a guardare a questo e anche ad altro, ho capito guardandolo che ci sono cose che non si comperano: l’affetto dei figli, la pazienza degli amici, l’amore di una donna. Non ha mai capito le cose che per me sono importanti. Forse aveva immaginato per me altro, era certo di conoscere la strada giusta, “fare famiglia” doveva essergli sembrato insensato per una donna che ha studiato, fare figli e non carriera gli sembrava uno spreco. Per anni ci siamo per così dire “persi di vista” non ci sono stati Natali seduti alla stessa tavola, nemmeno i nipoti lo hanno piegato. Ci sono stati momenti in cui ho sperato di trovarlo al capezzale del mio letto, ma l’orgoglio è una malattia che anestetizza il cuore. I suoi nipoti sono cresciuti sapendo di avere un nonno un po’ strano, differente da tutti quei nonni che vanno a vedere le partite di calcio, che si mettono in posa per la foto di gruppo alla laurea, che si emozionano all’annuncio del loro matrimonio.
Ma è mio padre.
Così quando invecchiando i suoi amici sono a poco a poco passati a miglior vita, quando le gambe han cominciato a non portarlo più dove lui voleva andare, si è ricordato di me. Il primo incontro è stato imbarazzante, il secondo è andato meglio, ora ci vediamo di tanto in tanto. Mi siedo in quella cucina uguale a trentanni fa, lo ascolto mentre si racconta. Non mi sento a casa, quella non è più la mia casa, sto seduta e ascolto, qualche volta racconto, ho l’impressione che non gli interessi molto di me, abituato a giudicare tutto in moneta sonante si informa sul mio stipendio ed è chiaro che il mio essere evasiva deve parergli la conferma che “no go fatto i schei” (non sono diventata ricca). Ed è qui che si sbaglia, perché la ricchezza più grande è quella di avere un uomo da amare, dei figli con cui condividere il futuro, dei sogni da realizzare. Ed è stato proprio guardando a lui e a mia madre che mi si è chiarito che dovevo girare lo sguardo, guardare ad altri capaci di testimoniarmi che la felicità è possibile. E’ così possibile che ti permette di imparare a perdonare, a stemperare l’amarezza sino a guardare a quel uomo, invecchiato e solo che se ne sta seduto sul balcone di casa in attesa che qualcuno passi e faccia due parole con lui, con tenerezza, con rispetto, perché come mi ripeto sempre “E’ mio padre”.
Di mio padre serbo il ricordo delle uscite in bicicletta, lui alto e magro, con le mani grandi come badili mi issava sul sellino agganciato al manubrio e pedalando con vigore mi portava in giro per il paese. Molte strade erano ancora senza asfalto, mi indicava i tetti delle case che aveva rifatto, era un muratore, orgoglioso del suo saper fare, del suo saper costruire. Facevamo tappa al “Bar Metano” un bar un po’ nascosto dietro alla stazione di servizio, lui scambiava qualche battuta con gli altri operai che passavano il pomeriggio a “batter carta” mi pagava una spuma chiara e poi si riprendeva il giro.
Un giorno, avevo da poco iniziato la prima elementare, la maestra lo incrociò in corridoio, con i suoi abiti blu da lavoro, il basco in testa e il martello in mano, aveva fatto una riparazione a scuola. Lo invitò ad entrare in classe, tutti lo salutarono e la maestra spiegò chi era e quale era il suo lavoro.
Ne ero orgogliosa, ma a pranzo quando lui raccontò a mia madre l’episodio accaduto a scuola, capii che anche lui era orgoglioso di me, ero la più piccola della classe, seduta in prima fila e solo per questo lo avevo reso felice. Poi gli anni sono passati, io ho imparato a guardare a questo e anche ad altro, ho capito guardandolo che ci sono cose che non si comperano: l’affetto dei figli, la pazienza degli amici, l’amore di una donna. Non ha mai capito le cose che per me sono importanti. Forse aveva immaginato per me altro, era certo di conoscere la strada giusta, “fare famiglia” doveva essergli sembrato insensato per una donna che ha studiato, fare figli e non carriera gli sembrava uno spreco. Per anni ci siamo per così dire “persi di vista” non ci sono stati Natali seduti alla stessa tavola, nemmeno i nipoti lo hanno piegato. Ci sono stati momenti in cui ho sperato di trovarlo al capezzale del mio letto, ma l’orgoglio è una malattia che anestetizza il cuore. I suoi nipoti sono cresciuti sapendo di avere un nonno un po’ strano, differente da tutti quei nonni che vanno a vedere le partite di calcio, che si mettono in posa per la foto di gruppo alla laurea, che si emozionano all’annuncio del loro matrimonio.
Ma è mio padre.
Così quando invecchiando i suoi amici sono a poco a poco passati a miglior vita, quando le gambe han cominciato a non portarlo più dove lui voleva andare, si è ricordato di me. Il primo incontro è stato imbarazzante, il secondo è andato meglio, ora ci vediamo di tanto in tanto. Mi siedo in quella cucina uguale a trentanni fa, lo ascolto mentre si racconta. Non mi sento a casa, quella non è più la mia casa, sto seduta e ascolto, qualche volta racconto, ho l’impressione che non gli interessi molto di me, abituato a giudicare tutto in moneta sonante si informa sul mio stipendio ed è chiaro che il mio essere evasiva deve parergli la conferma che “no go fatto i schei” (non sono diventata ricca). Ed è qui che si sbaglia, perché la ricchezza più grande è quella di avere un uomo da amare, dei figli con cui condividere il futuro, dei sogni da realizzare. Ed è stato proprio guardando a lui e a mia madre che mi si è chiarito che dovevo girare lo sguardo, guardare ad altri capaci di testimoniarmi che la felicità è possibile. E’ così possibile che ti permette di imparare a perdonare, a stemperare l’amarezza sino a guardare a quel uomo, invecchiato e solo che se ne sta seduto sul balcone di casa in attesa che qualcuno passi e faccia due parole con lui, con tenerezza, con rispetto, perché come mi ripeto sempre “E’ mio padre”.
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Che lo Spirito Santo illumini la tua mente e che Dio ti ricolmi di ogni grazia, spirituale e materiale, e la speciale benedizione materna di Maria scenda su di te..