Il cristianesimo si trasmette attraverso una sana invidia, affermava un mio amico. Per questo è necessario un cuore semplice per riconoscere chi tra noi porta nel suo volto i tratti evidenti della presenza di Cristo. Nella Clinica San Riccardo Pampuri, ogni giorno ci colpiscono persone che lavorano con noi, che vivono una certezza granitica per cui non esiste situazione nella quale non sia evidente la presenza oggi di Cristo. Sono molte le persone che ci donano ogni giorno la gioia e il gusto di vivere, che ha come origine la certezza che Cristo è un fatto, un avvenimento che permette di vivere ogni giorno tutti i particolari della vita con una serenità che suscita quella sana invidia che Sant’Agostino esprimeva con una domanda: «Se questi e quelli, perché non io?». Abbiamo bisogno di incontrare persone innamorate di Cristo, in particolare in questo tempo nel quale l’uomo ha perso il grande orizzonte dell’Infinito.
La presenza di Cristo che tutti abbiamo bisogno di vedere, toccare e ascoltare nella Clinica si impone. Le due lettere che trovate di seguito sono una testimonianza di come sorella Sonia “l’angelo bianco della Clinica”, viva circondata solo di sofferenza, con quella passione per Cristo che lei vive in ogni momento. La sua è una presenza che riesce a raggiungere e commuovere il cuore di tutti perché sostenuta e definita dall’amore di Cristo. Non esiste paziente che non sia affascinato dal suo stile di vita, che riflette la bellezza del divino evidente in quella tenerezza sorridente e che nasce dal suo modo di stare di fronte al Mistero in tutto ciò che vive, soffre e offre.
Guardandola camminare per la Clinica, regalando a coloro che incontra il suo sorriso limpido, brillante della presenza di Cristo a cui ha consegnato tutta la sua vita, perfino il più lontano dalla fede non può non sentirsi abbracciato da Qualcuno più grande e che si rende presente nel suo modo di vivere. È sufficiente una presenza come quella di sorella Sonia per sostenere la Clinica nella sua totalità.
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Chi ha avvolto in un lenzuolo Eladio non si guarda con la tenerezza che gli permette di abbracciare e attraversare la crosta di un uomo povero e abbandonato. Se non mi lasciassi provocare da questo fatto, introducendo in me stessa una tensione verso l’Infinito che mi suscita grandi domande, la calma sempre in agguato finirebbe per vincere, deformando la mia bella esperienza di Cristo.
Don Carrón ci dice spesso che Cristo è venuto a educarci rispetto a questa percezione dell’“io”. Una persona ha recentemente scritto a una sua amica: «Qualcuno mi ha aperto gli occhi e mi ha fatto scoprire chi sono io, che la mia vita vale perché è amata». Se mi accontentassi di avvolgere in un lenzuolo un corpo nudo di una persona che neanche può protestare perché è in coma, il mio “io” smetterebbe di esistere, perché smetterebbe di amare, non terrebbe più conto della totalità di ciò che sono: figlia di Dio-amore, un “io” amato da un Altro per il solo fatto che respira. Risponderei quindi solo alla necessità di infagottarlo in maniera meccanica. Invece, se io sono seria con l’essenzialità del mio “io” lo amerei commuovendomi e muovendomi per vivere pienamente la mia umanità, con tutte le sue esigenze, per essere di più me stessa.
Che cosa è questa assenza, questa mancanza dell’umano? È l’assenza di un cuore inquieto che non si accontenta di nient’altro che non sia Cristo stesso. Questa mancanza di tensione nel riconoscere la Sua presenza amorosa nell'abbandonato, in colui che ha bisogno, nelle vicende di ogni giorno, è la mancanza di un’umanità sveglia, che è attenta e ascolta sempre la voce del suo Amato: «Lo avete fatto a me».
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Non posso dimenticarmi quegli occhi. Come è nata la mia coscienza tenera e appassionata verso me stessa? È nata quando degli occhi mi hanno guardata secondo la profondità della mia verità, quando hanno scrutato le profonde viscere del mio “io” e hanno risvegliato in me lo stupore di vedermi amata e abbracciata per quello che sono: relazione con il Mistero.
Non posso dimenticare gli occhi di padre Aldo, il cui sguardo su di me è stato decisivo, perché è entrato nella mia storia cambiandola e trasformandola in una novità di vita. Solamente l’abbraccio di questo sguardo è stato sufficiente per farmi capire che la mia sofferenza e la malattia che pesava sulle mie spalle non erano ciò che mi definiva. Quello che mi definisce è il fatto di esistere, di essere stata creata da un Altro. §§§§§§§§§§§§§§
Non posso dimenticarmi quegli occhi. Come è nata la mia coscienza tenera e appassionata verso me stessa? È nata quando degli occhi mi hanno guardata secondo la profondità della mia verità, quando hanno scrutato le profonde viscere del mio “io” e hanno risvegliato in me lo stupore di vedermi amata e abbracciata per quello che sono: relazione con il Mistero.
Questo sguardo che ha attraversato il midollo delle mie ossa mi ha fatto esclamare: «Cristo mi ha guardata!». Gesù non guardava i suoi apostoli per ciò che facevano o per gli esiti che raggiungevano, ma perché i loro nomi erano scritti nel Cielo. Questo modo originale di guardarli provocava in loro una commozione unica che gli permetteva di guardarsi a loro volta con la stessa passione, con la tenerezza che prima non avevano.
Io, che sono stata guardata così e continuo a essere guardata in questo modo diverso, non posso ridurre il mio sguardo all'apparenza di quello che ho di fronte, avvolgendomi in fantasie, nelle immagini della mia mente. Non posso non lasciarmi provocare dalla verità che è più in là della crosta che cerca di bloccarmi. La coscienza donata di me stessa mi obbliga a essere vera con la mia umanità, ad affrontare la realtà come si presenta, come occasione perché si sveli il mio rapporto con il Mistero. Mi obbliga a chiedermi continuamente: «Chi è Cristo per me?». È un’idea che plana sopra la terra o è Qualcuno che è dentro le mie paure, i miei dolori, le mie tristezze, le mie antipatie, le circostanze, per dare a loro un significato, un perché redentore? Quante testimonianze di questa coscienza tenera e appassionata di se stessi ci offrono ogni giorno i malati della Clinica. Norma, che è arrivata da noi angosciata, stanca di credere e sperare in Dio, grazie a uno sguardo tenero su di lei, dice di vedersi diversa, cambiata: «Non sono uguale a prima, non posso più vivere senza pensare che Dio mi sostiene». Hipólito diffondeva la gioia che regnava nel suo cuore, dipendeva da tutto e tutti, ma era certo che il Signore avrebbe deciso su di lui secondo la Sua volontà e ripeteva: «Sono nelle mani di Dio». Alcuni pazienti di Hiv, se prima si concepivano come cose spinte dall'istintività del momento, una volta guardati con questa coscienza si guardano come persone, il cui “io” è costruito giorno dopo giorno da Qualcuno di più grande.
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Che lo Spirito Santo illumini la tua mente e che Dio ti ricolmi di ogni grazia, spirituale e materiale, e la speciale benedizione materna di Maria scenda su di te..