Un articolo di Tommaso Scandroglio tratto da La Bussola ci propone delle riflessioni a partire dal recente discorso di Benedetto XVI agli artisti, (perchè tutti abbiamo lo stesso cuore):
Il 5 luglio si è svolta in Vaticano l’inaugurazione della mostra ''Lo splendore della verità, la bellezza della carità”, omaggio di 60 artisti - tra pittori, scultori, musicisti, cineasti, fotografi - a Benedetto XVI per il 60° di sacerdozio.
In questa occasione il Pontefice ha rivolto agli artisti presenti un discorso centrato sul rapporto tra bellezza, verità e carità. Ne estrapoliamo un passaggio: “Cari amici vorrei rinnovare a voi e a tutti gli artisti un amichevole e appassionato appello: non scindete mai la creatività artistica dalla verità e dalla carità, non cercate mai la bellezza lontano dalla verità e dalla carità, ma con la ricchezza della vostra genialità, del vostro slancio creativo, siate sempre, con coraggio, cercatori della verità e testimoni della carità; fate risplendere la verità nelle vostre opere e fate in modo che la loro bellezza susciti nello sguardo e nel cuore di chi le ammira il desiderio e il bisogno di rendere bella e vera l'esistenza, ogni esistenza, arricchendola di quel tesoro che non viene mai meno, che fa della vita un capolavoro e di ogni uomo uno straordinario artista: la carità, l'amore''.
Le parole del Santo Padre sono sempre impegnative per l’ascoltatore, ma in questo caso forse lo sono ancora di più. In un contesto artistico dove si assegna la patente di capolavori a tele tagliate (Fontana), ad escrementi in scatola (Manzoni), a quadrati neri (Malevich), mettere a tema verità e carità ha del rivoluzionario.
Ma cosa significa, come indica il Santo Padre, che non si deve scindere la bellezza dalla verità? Per non farla troppo difficile potremmo dire che laddove c’è il bene c’è la verità. La nostra natura umana, tutto il nostro io tende al bene, e quando ne partecipa nasce la felicità, l’appagamento. In poche parole quando compiamo una buona azione stiamo bene con noi stessi, siamo in genere soddisfatti di ciò che abbiamo fatto.
Ora – come avrebbe detto un ex magistrato – che c’azzecca tutto questo con la bellezza? C'entra assai, perché guarda caso quando guardiamo un tramonto al mare, le vette dei monti, un lago alpino anche in quel caso nasce nel nostro intimo un senso di appagamento, di soddisfazione, di serenità. Allora sia quando facciamo qualcosa di buono, sia quando vediamo, sentiamo qualcosa di bello, l’esito è più meno lo stesso: una certa dose di felicità. E dunque tra bene e bello c’è una parentela stretta. Anzi, anche il bene può essere percepito come bello. Se qualcuno ci racconta un atto eroico, oppure un’azione meritoria assai virtuosa, un gesto di generosità noi d’istinto diciamo “Che bello!”. Ed infatti gli spagnoli dicono “Qué bueno!” per dire “Che bello”. Insomma il bello è il nome del bene, della verità quando viene vissuta, percepita.
Non ci può essere bellezza disgiunta dal bene: la bellezza è l’estetica del bene, potremmo concludere.
L’obiezione però è dietro l’angolo: il bello è soggettivo, quindi non ha molto senso legare la verità, che dovrebbe essere un qualcosa di oggettivo, al bello che è relativo alla persona. Il discorso meriterebbe ben altro spazio, ma potremmo rispondere a questa obiezione nel seguente modo: esiste un bello oggettivo e universale che poi fiorisce in modo differente a seconda dei costumi, del tempo, delle sensibilità personali, del grado di istruzione del singolo, etc. Insomma c’è una radice comune del bello.
La prova? E’ semplice: basta chiederlo agli eschimesi. Senza perderci troppo per le sconfinate praterie della filosofia estetica, possiamo riportare due esperimenti sociologici che Giacomo Samek Lodovici nel suo “Il ritorno delle virtù” cita e che sono pertinenti al nostro discorso.
In un caso il ricercatore Jean Briggs ha fatto ascoltare Verdi e Puccini agli eschimesi uktu. Ora dovrebbe essere evidente che le musiche di questi due autori nulla dovrebbero aver in comune con la cultura eschimese. Infatti cosa c’è di più lontano dal background culturale di un pescatore che vive tra i ghiacci dall’altra parte del mondo, del Trovatore di Verdi, opera scritta nell’Ottocento da un italiano nato in quel di Roncole? Eppure questo pescatore confidò al ricercatore che quel melodramma era “una musica che fa venir voglia di piangere”. Anche il grande violinista Uto Ughi qualche tempo fa andò in Amazzonia e fece ascoltare con il registratore un concerto per violino e orchestra alle popolazioni indigene che a malapena sapevano chi fosse l’uomo bianco. Pure in quel caso l’ascolto generò stupore e ammirazione.
Ma anche noi a volte siamo eschimesi. A parti rovesciate persino noi occidentali post-moderni ci commoviamo per opere scritte centinaia se non migliaia di anni or sono, da autori assai distanti dalla nostra sensibilità. Ecco infatti il secondo esperimento sociologico. La filosofa Martha Nussbaum racconta che “l’Iliade di Omero è stata usata con successo nel trattamento dei veterani della guerra del Vietnam che soffrivano di trauma da combattimento perché le sue storie di violenza e paura sono riconoscibili al di là delle differenze culturali”. Ve lo vedete un truce marine pluritatuato che invece di impugnare il suo fucile prende in mano l’Iliade e se la legge? Eppure è successo e i risultati ci sono stati. Anche il turpe mostro del film “Frankenstein Junior” d’altronde si commuoveva per le melodie del violino suonato dal suo padrone.
La morale è semplice: siamo fatti tutti allo stesso modo, cioè tutti noi abbiamo la stessa identica natura umana, che tende al bene e al bello. I capolavori sono tali se conservano in sé un alto grado di bellezza oggettiva – di verità direbbe Benedetto XVI – capace di mettere in vibrazione le corde naturali del nostro cuore.
Quel cuore che è stato creato in modo identico in tutti noi.
E purtroppo siamo dovuti andare fino al Polo Nord per capirlo.
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Tra le braccia di Molly Malone
1 mese fa
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