La prima considerazione, per altro ovvia, di fronte alla vicenda di Alex Schwazer, è che siamo senza dubbio di fronte ad un comportamento errato e come tale sanzionabile.
Ma detto questo è macroscopicamente evidente che esiste un altro errore, ancora più grave e doloroso. E questa volta non commesso dal marciatore atesino ma da tutti i media che sono stati pronti a gridare allo scandalo stracciandosi le vesti in nome di un disgustoso moralismo quanto mai inutile e dannoso.
Si perché pare, a dar retta ai loro ragionamenti, che una persona, un’atleta valga solo in base ai risultati che sa produrre e che sia “condannato” a vincere sempre e ad essere sempre il primo.
In altre parole il valore di un uomo, in questo caso di un atleta, non è quella di essere (punto e basta) Alex , figlio di Josef ma “il trionfatore di Pechino 2008” un atlema ma non un uomo, uno sportivo ma non una persona.
Quasi che la medaglia vinta non sia un momento di gloria ma una triste condanna: “hai vinto allora e quindi devi vincere ancora, devi vincere sempre”. Altrimenti non vali, altrimenti non sei.
Ma questa non è la legge dell’esistenza, non è ciò per cui l’uomo è fatto!
L’uomo, qualunque uomo, non vale per i risultati che sa produrre o le vittorie che conquista.
Vale perché è, perché esiste. Punto.
Il vero errore di Alex non è stato tanto di prendere EPO per garantirsi una prestazione migliore, è stato di credere che lui potesse avere un valore solo in virtù di un successo.
Niente vittoria, niente valore. Ma non è così!
Tutta la società in cui siamo, nostro malgrado, immersi, ci vuole far credere che il problema è tutto nel risultato, nello spread, nelle capacità personali.
E non nell’essere.
E’ stato bello vedere un giovane (28 anni sono ancora la pienezza della giovinezza) ammettere di aver commesso uno sbaglio assumendosene la responsabilità. Come è stato anche bello vedere il genitore sentirsi in colpa di “omessa paternità”.
Vuol dire che esiste ancora un tessuto umano.
Si perché è l’umano quello si deve realizzare in noi!
Alla fine della vita, al momento del giudizio a cui nessuno di noi potrà sfuggire, non ci verrà chiesto quante medaglie olimpiche abbiamo vinto, quanti milioni accumulato o quanti successi abbiamo avuto.
No, niente di tutto questo.
Ci verrà domandato se e come abbiamo amato le persone e le circostanze che abbiamo incontrato nella nostra esistenza. Come abbiamo saputo far fruttare quei talenti (pochi o tanti che fossero non è determinante) che il Padrone ci aveva affidato a suo tempo.
Ci verrà chiesto se avevamo ben compreso che “da soli non possiamo fare nulla” e quindi ci siamo affidati, appoggiati, abbracciati alla vera roccia, o se invece ci siamo illusi di essere realmente in grado di aggiungerci da soli un capello od un giorno di vita.
E quindi il problema non è sbagliare o non sbagliare (certo, meglio la seconda ipotesi, ma non riesce sempre, anzi quasi mai) ma rialzare il capo e riconoscere, come ha fatto il figliol prodigo, che nella casa del Padre si sta meglio, e incamminarci per ritornare ad essa.
Quello che serve alla nostra società, di uomini che sbagliano, non sono i moralisti sempre pronti a puntare il dito verso gli errori altrui (non tollerando che altri lo facciano con loro) ma testimoni ed educatori che ci insegnino che il nostro valore non sta nel risultato conseguito (ogni gloria umana è di breve durata) ma nel riconoscere che noi siamo ed esistiamo solo perché un Altro ci ha creati.
E solo stando a fianco di quest’Altro (e della Sua compagnia nella storia, che si chiama Chiesa) diventiamo veri e acquistiamo un valore.
Diversamente corriamo seriamente il rischio di vedere tutti coloro che oggi ci osannano per la nostra fortuna, condannarci e voltarci le spalle al termine di essa.
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Tra le braccia di Molly Malone
1 mese fa
Si è giusto ciò che hai scritto. Lui ha commesso un errore, ma i mass media che lo giudicano commettono un errore ancora più grave.
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