Un articolo di Luca Doninelli da Il Sussidiario sull'uso (s)corretto della parola
Quotidianamente, sui giornali o in libreria, ci imbattiamo in qualcuno che vuole dirci quali sono i dieci fatti che hanno cambiato la storia dell’uomo, i cinquanta libri fondamentali del pensiero universale, i cento romanzi che hanno scritto la storia della letteratura, i quindici film da non perdere per la nostra cineteca ideale, le venti scoperte scientifiche che hanno fatto progredire l’umanità, le cinque scoperte geografiche che hanno sconvolto l’umanità, e volendo andare avanti potremmo aggiungere i trenta fumetti che hanno rivoluzionato l’arte della risata, i venticinque attori che hanno catturato l’immaginario di tutti, e così via. Esistono sempre un venti o un cinquanta o un sette a disposizione della smania di questo o di quello di far passare alla storia quello che vuole.
Qualcuno dice che stiamo perdendo la memoria, e che la lunga e faticosa marcia verso il diritto all’imbecillità e all’analfabetismo sta avanzando più veloce che mai. Così almeno si dice. E che, di conseguenza, questo genere di iniziative siano necessarie per alimentare la coscienza di appartenere a una civiltà straordinaria, le cui radici scendono nella terra fino a cinquemila anni di profondità. Qualcuno dice.
Io però penso che le cose non stiano esattamente così. La storia c’insegna che quando si comincia a parlare un po’ troppo di tempi cattivi e di decadenza dei costumi è facile che ci sia qualcuno che ha tutto l’interesse che le cose vadano in quella direzione. Quantomeno, un’umanità smemorata, depressa, demoralizzata è più facilmente manovrabile.
Il vero problema secondo me è un altro, molto più grave. Ho l’impressione che la parola si stia piano piano sempre più identificando con un puro strumento di potere. La parola viene intesa non più come qualcosa che dice ma come un corpo fisico che ha senso solo perché occupa uno spazio altrettanto fisico.
Ne ho avuto la prova da una breve incursione su Twitter, dove due mesi fa ho trasmesso un racconto sminuzzato in brevi tweet (per chi non lo sa: messaggi di 140 battute). La mia iniziativa ha ottenuto, li ho contati, circa settecento feedback, sia sotto forma di altri tweet, sia come e-mail o semplici sms. Quasi tutti gli autori di questi messaggi mi facevano i complimenti per l’originalità della mia idea (qualcuno invece la detestava, e questo va bene), ma solo due persone – il signor P.M. di Parma e la signora F.G. di New York –, mi hanno detto se il racconto era stato di loro gradimento oppure no.
Due su settecento sono lo 0,28 per cento. Un po’ poco.
Questo significa che il mezzo di comunicazione è diventato così pesante da cancellare, o quasi, il proprio contenuto. E non dipende affatto dal mezzo: sia Twitter, sia Facebook, sia i blog, sia la posta elettronica, sia la vecchia cara carta stampata contengono una percentuale sempre crescente di opacità, di resistenza al senso, e quindi alla discussione, alla comunicazione del pensiero, alla collaborazione, all’ascolto. Ma la colpa, sia chiaro, non è affatto di questi mezzi, che sono i diffusori, i megafoni di qualcosa che sta prima.
Il problema è l’uso che ci siamo abituati a fare della parola.
Conseguenza di una parola ridotta a potere è che la cronaca ha la pretesa di farsi storia. Chi, per esempio, ha il potere di indicare al mondo quali sono stati i dieci eventi fondamentali della storia ritiene di avere anche il potere di far passare alla storia il proprio giudizio: i posteri raccoglieranno quei dieci fatti, per gli uomini del futuro la storia sarà quella e non un’altra. Chi ha il potere di indicare i cento romanzi imperdibili pensa che le biblioteche si riempiranno di quei cento romanzi, che la gente li leggerà prima di leggerne altri, che gli altri forse non verranno mai nemmeno letti, o magari verranno buttati via, a causa di quei cento lì, ai quali è stato concesso, viceversa, il pass per la sopravvivenza.
Voi mi darete del visionario (che per un romanziere è un complimento), però bisogna che ci domandiamo che cos’è la storia. Il rischio è che, in un modo o nell’altro, anche noi accettiamo la violenza delle parole brandite come un potere da esercitare, e che alla fine anche noi ci abituiamo a pensare che le cose stanno proprio come ci vengono imposte da coloro che ritengono, essendo i cronisti del nostro mondo, di definirne anche la storia.
Ma la storia è un’altra cosa. Non un magazzino di vecchie cronache e di vecchi ricordi, di foto in b/n e di film di repertorio (le mondine, Auschwitz, Pasolini che parla, il crollo delle Twin Towers, il XX congresso del Pcus...) ma la continua, mai scontata riflessione alla quale l’uomo libero non rinuncia per nessuna ragione, e che riguarda il rapporto dell’uomo – del singolo come di un popolo o di una civiltà – con la sua memoria: rapporto che si costituisce non per accumulo ma per un esercizio di fedeltà.
Perché la memoria storica prenda forma, è infatti necessario essere stati ed essere fedeli a qualcosa: a un valore incontrato, a un sacrificio compiuto, ai volti dei testimoni di un’idea di bellezza o di giustizia, e così via.
È necessario conservare qualcosa di caro – come le icone nascoste dalle vecchie contadine al tempo delle persecuzioni staliniane – sottraendolo a quel discorso comune, a quel teatro delle parole che vorrebbe occupare ogni millimetro della nostra anima.
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Tra le braccia di Molly Malone
1 mese fa
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