Un articolo di Pigi Colognesi da Il Sussidiario
Anno Domini 452. L’impero romano d’Occidente, ufficialmente cristiano, ha da poco subito lo shock della devastazione di Roma a opera dei Visigoti di Alarico e ora si trova di fronte al pericolo ben più grave dell’immane esercito di Attila, gran khan degli Unni. Egli ha saccheggiato gran parte delle terre germaniche e della Gallia.
In verità due città sono sfuggite alla devastazione delle sue orde: Parigi e Orléans.
La prima è stata salvata dalla preghiera di una monaca: santa Genoveffa. È lei che ha sostenuto i parigini durante l’assedio e li ha incitati alla preghiera fiduciosa. Sembra che il capo unno abbia risparmiato la città per qualche segno malaugurate che ha colpito la sua vivace superstizione, ma per tutti gli abitanti della città sulla Senna è stata l’invincibile speranza di Genoveffa a fermare i barbari.
A Orléans è ancora un santo, Aniano, il vescovo della città, il protagonista: organizza la resistenza e invita a non cedere.
Gli Unni alla fine, per il sopraggiungere dell’esercito romano, devono ritirarsi. Poco dopo vengono sconfitti dalle truppe del generalissimo romano Ezio nella battaglia dei Campi Catalaunici. Ma è una sconfitta non definitiva. Ben presto si riorganizzano e puntano sull’Italia, al cuore dell’impero. Distruggono Aquileia e decine di altre città e si avviano senza incontrare rilevanti ostacoli verso Roma. I romani sono terrorizzati: la fine della civiltà cristiana sembra imminente.
Mentre il popolo prega nelle chiese, i nobili sfoderano il loro presunto realismo: «La religione è bella e buona in tempo di pace, quando tutto procede liscio. Ma in tempi di guerra si deve guardare in faccia alla realtà» dice uno di loro nel romanzo storico di Louis de Vohl Attila, appena pubblicato. È il solito pragmatismo dei fortunati, di quelli che scambiano il realismo con la difesa dei propri interessi e il cristianesimo con una favola che va bene solo fino a quando la realtà non morde con la sua difficile concretezza.
Ma anche a Roma c’è un santo e un grande - sarà chiamato magno - santo: papa Leone. Non ha da opporre ad Attila la forza delle armi, né l’intelligente furbizia della diplomazia o il disincantato scetticismo di chi si arrende. Ha una sicurezza che poggia su una solidità indipendente dai successi immediati o dalla riuscita delle realizzazioni storiche.
È questo il cuore del suo dialogo con lo scoraggiato imperatore Valentiniano III. Il pavido sovrano pensa che non ci sia nulla da fare contro Attila e ritiene che stia per finire la civiltà romana e, con essa, la Chiesa.
Ma Leone gli obietta: «Le civiltà vanno e vengono. La Chiesa resta. Se anche Roma venisse rasa al suolo, e, del pari, tutte le città e i villaggi d’Italia, e l’impero stesso, nemmeno allora la Chiesa perirebbe. Nulla di più falso che credere che Chiesa e impero siano congiunti per la vita a per la morte. So che tutti gli imperi della storia sono opera dell’uomo, e quindi perituri come l’uomo; tutti periscono, prima o poi, e ogni volta è la fine di una civiltà, la fine di uno stile di vita, di questa o quella egemonia politica. Cristo è morto per tutta l’umanità, e il nostro dovere è quello di istruire tutti i popoli».
In base a questo autentico realismo Leone trova il coraggio di affrontare personalmente Attila. Non sappiamo come si sia storicamente svolto il colloquio; sta di fatto che dopo aver parlato col vecchio vescovo di Roma Attila ha levato le tende ed è tornato nelle sue terre.
Morirà l’anno successivo e il suo gigantesco impero si sfalderà immediatamente. Il realismo di Leone invece durerà e arriverà - carico di insegnamento - a noi oggi.
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Tra le braccia di Molly Malone
1 mese fa
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