Una bellissima intervista a Padre Aldo Trento da leggere assolutamente:
L’intervista di Marina Corradi a padre Aldo Trento è contenuta nel libro di quest’ultimo I dieci comandamenti, primo titolo della collana Lindau I libri di Tempi. Il volume sarà in vendita, al prezzo lancio di 10 euro anziché 12, presso lo stand di Tempi al Meeting per l’amicizia fra i popoli (22-28 agosto, Fiera di Rimini, padiglione C3).
Aprile 2010. Padre Aldo Trento è di passaggio a Milano. Lo incontro a casa di un suo amico a Concorezzo. Non gli avevo mai parlato a tu per tu. Mi colpiscono la faccia semplice, da contadino del bellunese, e gli occhi chiarissimi, con qualcosa di infantile. Queste sono alcune delle domande che gli ho rivolto e le sue risposte.
Quello che non capisco è come fai a parlare di Cristo come di una Presenza assolutamente concreta. È una cosa che mi meraviglia. Io, Gesù Cristo non lo vedo. Lo cerco, lo inseguo, ma non è una Presenza come lo puoi essere tu ora davanti a me. Capisco bene il Barabba di Lägerkvist, che, dopo avere girato a lungo attorno al Golgota, dice sconfitto: «Ho desiderato di credere». Per me, pure nel desiderio, Gesù Cristo resta spesso un fantasma.
Anche a me accadeva quello che tu dici, una volta. Ciò che ha dato concretezza a Cristo è stato il modo in cui mi ha guardato Giussani, il modo in cui mi ha tenuto con sé e accompagnato. Attraverso lo sguardo di don Giussani, Cristo è diventato una Presenza concreta accanto a me.
D’accordo, tu hai conosciuto Giussani, ma d’altra parte non a tutti quelli che hanno incontrato Giussani ne è venuta una uguale certezza di fede. Mentre tanti uomini non incontrano né Giussani né alcun testimone credibile di Cristo. Di loro, che ne è?
Credo che chi conosce un cristiano autentico e prosegue tranquillamente per il suo cammino sia un borghese, che ha in fondo sulla vita una domanda modesta. Quanto a quelli che non incontrano nessuno, penso che operi una sorta di selezione naturale in base all’intensità della domanda di senso. Se la domanda è davvero forte, un uomo cerca e cerca: finché non trova.
E questi ultimi sono dei prediletti? Esistono, i prediletti?
Che esistano, lo testimonia la Scrittura e sono quelli che Dio castiga di più, perché non smettano di cercarlo.
Hai detto due anni fa al Meeting: la depressione è una grazia. La depressione, come tu sai molto bene, è anche una profonda sofferenza. Grazia, dunque, perché?
Per me è stata ciò che mi ha spinto a cercare oltre i miei limiti, la mia miseria, la mia ideologia giovanile. In maniera anche atroce: per anni non ho dormito, avrei sbattuto la testa contro il muro per la disperazione, desideravo di morire. Ma la depressione è stata la ferita che ha tenuto aperta la mia domanda di Cristo. Oggi chiunque abbia una sofferenza psicologica ritiene di essere malato e va dal medico. Ma io non credo che siamo tutti malati. È che non sopportiamo ciò che tiene quella ferita aperta: che sia depressione, o una malattia, o anche magari l’innamorarci di qualcuno di cui non dovremmo. Vogliamo eliminare in fretta i problemi. Magari moralisticamente vogliamo essere “bravi”. Giussani su questo era radicale: mai invitava a tirarsi indietro, ma sempre ad andare a fondo, ad affrontare ciò che ci si poneva come sfida. A me disse: se dovessi non dormire per un anno, e questo servisse a tenere sveglia la tua domanda di Cristo, ti direi di non dormire. Invece ciò a cui tendiamo è soffocare le ferite, analgesizzarle e addormentare la domanda. [Quest’uomo, pensi, è di una radicalità che affascina e fa paura.]
Tu parli e mostri di vivere di un’unica ragione, Gesù Cristo. Ma prova a guardare alla vita della maggior parte degli uomini oggi, che sembrano fare di Cristo, dunque di un senso ultimo, a meno. Come giudichi tu uno che, non credendo in Dio, nella difficoltà o nella vecchiaia, o anche solo nel vuoto che percepisce, sia più o meno educatamente disperato?
Lo giudico ragionevole. La disperazione, in chi sia convinto di essere solo al mondo e di andare verso il nulla, mi sembra un segno di lucidità, di un non raccontarsi storie.
Dunque è un aut aut: o in Cristo, o non c’è nulla per cui vivere davvero.
Sì, è un aut aut.
Senti: ma se vent’anni fa, quando eri drammaticamente depresso, ti avessero preso e curato con i migliori psicofarmaci, se ti avessero “sistemato” e rasserenato, oggi come saresti?
Non so. Non sarei come ora e credo fermamente che Dio abbia “voluto” questo per fare ciò che ha fatto. Non avrei cercato come ho cercato. Ora posso dire che quella sofferenza, che è stata davvero grande, ha avuto un senso: nei moribondi che assisto, così come in tanti che mi scrivono chiedendo aiuto come a un padre. Ora posso capire le “notti dell’anima” di cui parlano alcuni santi. Capisco quel buio, che è un vuoto teso a provocare una più intensa domanda.
Ma allora dalla depressione non bisogna curarsi? Mi sembra un’idea pericolosa.
Sarei un masochista se rispondessi di no. Dio ci ha creato per essere felici, non per soffrire, e tanto meno per soffrire questa malattia esistenziale che toglie non solo il gusto, ma anche la voglia di vivere. Il problema è accogliere questa malattia, come del resto ogni altra, come una possibilità di redenzione, di purificazione, come occasione per dire con tutta la propria libertà “sì” a Cristo, guardandolo in faccia. Come la ragione e la fede camminano insieme, così anche la fede non può non favorire e sostenere tutte quelle possibilità che la medicina offre per alleviare o vincere il dolore, quando è possibile. Ricordando sempre però che, in questo mondo, il dolore come la morte accompagnano sempre l’uomo. Per cui l’unico senso del dolore lo si coglie guardando il Crocifisso e il Cristo risorto.
Sono tanti, padre Aldo, quelli che ti scrivono?
Tantissimi. Ho ricevuto, dal Meeting del 2008, migliaia di e-mail. È stato come se parlare di depressione in quel contesto, e affermare addirittura che la depressione potesse avere un senso buono, fosse come scoperchiare una pentola. Un’esplosione. Quanti, quelli che si sono sentiti autorizzati a domandare una parola sulla sofferenza e a chiedere consiglio. Tantissimi ragazzi. Mi commuovono i ragazzi: siamo abituati a dire che i giovani sono degli sfortunati. No, gli sfortunati sono i genitori, siamo noi, che gli abbiamo dato ben poco di buono. Loro sono figli uguali a quelli di ogni generazione e forse più assetati: sono, anzi, pura domanda.
Ci sono altre cose che non capisco. Scrivi sempre della tua casa ad Asunción e dei moribondi che vi trovano ricovero. Tu vedi dunque ogni giorno una quantità di dolore per me inimmaginabile. Come fai, di fronte a tanto dolore, a ritenere che la vita sia un bene, un dono di cui essere grati a Dio? (Io, da ragazza, pensavo che nascere fosse una disgrazia).
Anch’io per molto tempo ho pensato che la vita fosse un male e ho passato dei momenti in cui non riuscivo a stare davanti, se non con molta fatica, ai miei genitori, vedendo in loro, per il fatto di avermi messo al mondo, il fattore principale della mia sofferenza. Solo nell’abbraccio di Cristo, nell’abbraccio riconosciuto, ho capito finalmente che nascere è un dono.
Ma questo dono in che cosa consiste? Oggi, magari tacitamente, tanti dubitano che la vita sia un dono.
Che la vita sia un dono io non l’ho capito a priori, perché me l’hanno insegnato al catechismo; quando poi ho conosciuto il “male del vivere”, non ho più sopportato i discorsi sul “dono della vita”, anzi, li rifiutavo. Ho colto il dolore come un dono per me, solo quando ho fatto l’esperienza di quello che Giussani definiva «Io sono Tu che mi fai», cioè quando ho cominciato a guardare me stesso con gli occhi del Tu, del Mistero. Vedevo il mio io fiorire e, intorno a me, crescerne i frutti nelle opere di carità che riempiono questa parrocchia. Solamente quando quel cumulo di macerie, che era il mio Io, è stato messo insieme dalla grazia di un incontro e, dopo lunghi anni di pazienza, ho cominciato a sorridermi, a guardarmi con simpatia; da lì è sbocciato tutto, come un dono imprevisto, come una letizia che mi accompagna.
Padre Aldo, tu non hai paura della morte?
Spero di morire come i miei malati: abbracciato.
Ma intendo il dopo, ciò che c’è dopo, l’Aldilà. Come lo pensi?
Credo che sia un ulteriore ed eterno domandare ed essere dissetati, senza fine. Domandare ed essere dissetati, in una dinamica continua di desiderio e appagamento. Altrimenti, il Paradiso sarebbe noioso. Sarà un domandare ed essere sempre di nuovo abbracciati. Però senza il dolore.
Che cosa pensi dello scandalo della pedofilia nella Chiesa?
Vedi, il fatto è che io non riesco a non provare pietà anche per i pedofili. Perché so, dalla mia esperienza ad Asunción, che spesso essi stessi sono figli di violenze. Perché credo che io stesso, se Dio non mi tenesse la mano sulla testa, potrei essere capace di grandi peccati. Chi ha piena coscienza della propria miseria non sa più accusare, puntare il dito e gridare alla lapidazione. Chi ha coscienza della propria miseria ha pietà.
Il diavolo per te chi è? Come opera sugli uomini?
Il Demonio, quello che insegnano la Scrittura e la Chiesa. Però preferisco non parlarne, non evocarlo. Troppo forte è la memoria degli incubi e delle ossessioni che mi hanno perseguitato per anni. Io prego ogni giorno Dio di morire senza fare male a me stesso, agli altri e alla Chiesa.
Ma tu non ti chiedi perché il dolore, perché il mondo è pieno di dolore?
Non credo che nessun uomo possa essere santo e nemmeno giungere alla sua maturità, senza il dolore, senza affrontare la sua croce. Non c’è scorciatoia: per di lì bisogna passare.
Io ho il terrore del dolore, dopo che ho perso mia sorella bambina. Ho il terrore che mi vengano tolti i miei figli.
Pensa, però, che Dio non ci chiede mai prove troppo grandi per un uomo, prove che quell’uomo non possa sopportare.
Certo, se Cristo fosse quella Presenza concreta di cui tu parli, questo cambierebbe davvero la vita. C’è sempre di mezzo questo fatto di “non vederlo”.
Tu dici che non vedi perché non puoi toccare e misurare, perché sei dentro, come tutti, alla nostra cultura positivista. Ma se tu guardi che cosa succede ai nostri malati che si convertono ad Asunción, sei costretto a dire che c’è in loro un’autentica guarigione. Allora, se opera, “c’è” (è vero); se opera, Cristo è vero.
Che cosa fa bene, che cosa cambia in meglio un uomo?
Secondo me, come mi ha insegnato mia madre, confessarsi spesso. La confessione cambia e guarisce. E l’Eucaristia cambia ontologicamente una persona: il corpo di Cristo in noi ci cambia.
Nella quotidianità, nel fare magari apparentemente banale di tutti i giorni, che cosa fa bene?
L’aderire alla realtà. Mai sfuggirla, mai rifugiarsi nei propri pensieri, chiudersi nella propria stanza, isolarsi. Stare di fronte alla realtà che ci è data, affrontarla. Osservare molto. A me faceva bene guardare gli alberi, le piante e descriverli per iscritto. Per uscire dalle mie ossessioni. Stare tenacemente nella realtà, che è la circostanza in cui Cristo ci si presenta in quel momento. Questo mi ha insegnato Giussani, ed è lo stesso sguardo che ritrovo in don Julián Carrón e in don Massimo Camisasca.
------------
Tra le braccia di Molly Malone
1 mese fa
Grazie per questo articolo poichè attraverso questa testimonianza si capisce che chi soffre è vicino a Cristo e non dobbiamo temere la sofferenza perchè Gesù ci trasforma e ci fa cambiare il modo di vedere le cose e di amare i nostri fratelli anche se sbagliano.Noi non siamo soli,il Signore è sempre accanto a noi e sappiamo che è con noi quando proviamo gioia,amore disinteressato per i nostri fratelli ma soprattutto nella sofferenza poichè assumiamo la stessa condizione di Cristo sulla Croce divenendo simili a Lui.Santa giornata!
RispondiEliminaE' vero Maddalena, non siamo soli, non lo siamo mai, o meglio lo siamo volendolo essere, scordandoci di Dio, l'unico vero compagno. La sofferenza, via della croce, è il cammino verso la resurrezione. Ma Gesù è la via, che con la verità, ci porta alla vita.
RispondiElimina