venerdì 24 aprile 2009
Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, lo scrittore Alessandro Piperno ha riproposto ai lettori il libro che un giovanissimo Samuel Beckett aveva dedicato a Marcel Proust. «Beckett – scrive Piperno – vede in Proust un uomo che non crede nella comunicazione tra gli esseri. Che si sente immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfortante nonché beffardo succedersi di fraintendimenti». A conferma di ciò, cita due frasi folgoranti del drammaturgo irlandese. La prima: «L’amicizia è la negazione di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano». La seconda: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la distribuzione di bidoni delle immondizie». La conclusione è radicalmente nichilista (e, infatti, l’articolo si intitola: E Beckett smascherò il Proust nichilista): «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti».
Queste frasi, ho detto, sono folgoranti; ma mi sono chiesto se sono anche vere. Vere per quanto posso desumere dalla mia esperienza e chi mi legge trarre dalla propria.
Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, lo scrittore Alessandro Piperno ha riproposto ai lettori il libro che un giovanissimo Samuel Beckett aveva dedicato a Marcel Proust. «Beckett – scrive Piperno – vede in Proust un uomo che non crede nella comunicazione tra gli esseri. Che si sente immerso in un irredimibile mare di egoismo. E che vive i rapporti umani come uno sconfortante nonché beffardo succedersi di fraintendimenti». A conferma di ciò, cita due frasi folgoranti del drammaturgo irlandese. La prima: «L’amicizia è la negazione di quella solitudine senza rimedio alla quale è condannato ogni essere umano». La seconda: «L’amicizia è un espediente sociale, come la tappezzeria o la distribuzione di bidoni delle immondizie». La conclusione è radicalmente nichilista (e, infatti, l’articolo si intitola: E Beckett smascherò il Proust nichilista): «Noi siamo soli. Non possiamo conoscere e non possiamo essere conosciuti».
Queste frasi, ho detto, sono folgoranti; ma mi sono chiesto se sono anche vere. Vere per quanto posso desumere dalla mia esperienza e chi mi legge trarre dalla propria.
Ho concluso che non lo sono.
Partiamo dalla prima frase. È vero che spesso mi sono sentito condannato ad una «solitudine senza rimedio». Ma, appunto, l’amicizia è stata per me la «negazione» di questa condanna; non perché mi ha fatto fingere di non vederla, ma perché ha dimostrato che essa non è «senza rimedio». Il rimedio è proprio la possibilità di condividere con altri il cammino verso il proprio compimento; in ciò consiste l’amicizia.
Ma allora l’altra affermazione di Beckett, quella secondo cui l’amicizia è un puro «espediente sociale» rappresenta una conclusione indebita. Certo che ogni rapporto può essere vissuto con una superficialità che deborda nello sfruttamento. Tutti noi abbiamo avuto esperienza di nessi che chiamavamo amicizia ed invece non erano che una semplice vicinanza casuale o addirittura connivenza. Ma abbiamo anche sperimentato qualcosa di radicalmente diverso: una comunanza di destino così profonda che fa sentire il compagno di cammino realmente come un sostegno indispensabile, un amico.
Per questo mi sembra che la conclusione nichilista sia una opzione a cui mancano delle ragioni, parziale. Sento molto più vicina alla mia storia la posizione vissuta e descritta da tanti uomini del medioevo, impregnati di cristianesimo. Uno di loro, Aelredo di Rievaulx (1110-1167) ha scritto uno splendido trattato intitolato L’amicizia spirituale. Aelredo è un realista, sa che «l’amicizia può essere carnale, mondana, spirituale. Quella carnale nasce dalla sintonia del vizio; quella mondana si accende per la speranza di un guadagno; quella spirituale si cementa tra coloro che sono buoni, in base a una somiglianza di vita, abitudini, gusti, aspirazioni». Ma, proprio perché realista, sa anche che «fin dal principio la natura ha impresso nello spirito umano il desiderio dell’amicizia, un desiderio che il sentimento interiore dell’amore presto intensificò dandogli un certo gusto di dolcezza», per cui «un uomo senza amici è come una bestia». Bestie sono «quanti pensano che l’ideale sia vivere senza dover consolare nessuno, senza essere di peso o causa di dolore per alcuno; senza trarre gioia alcuna dal bene degli altri, né amareggiarli con i propri sbagli; stando bene attenti a non amare nessuno, e non curandosi di essere amati da qualcuno».
L’opzione nichilista nega in definitiva la possibilità dell’amore, che Aelredo definisce «un sentimento dell’anima razionale per cui essa, spinta dal desiderio, cerca qualcosa e brama di goderne, ne gode con una certa dolcezza e soavità interiore, abbraccia poi l’oggetto di questa ricerca, e conserva quello che ha trovato». Per concludere che «l’amico è come un custode dell’amore».
Ma allora l’altra affermazione di Beckett, quella secondo cui l’amicizia è un puro «espediente sociale» rappresenta una conclusione indebita. Certo che ogni rapporto può essere vissuto con una superficialità che deborda nello sfruttamento. Tutti noi abbiamo avuto esperienza di nessi che chiamavamo amicizia ed invece non erano che una semplice vicinanza casuale o addirittura connivenza. Ma abbiamo anche sperimentato qualcosa di radicalmente diverso: una comunanza di destino così profonda che fa sentire il compagno di cammino realmente come un sostegno indispensabile, un amico.
Per questo mi sembra che la conclusione nichilista sia una opzione a cui mancano delle ragioni, parziale. Sento molto più vicina alla mia storia la posizione vissuta e descritta da tanti uomini del medioevo, impregnati di cristianesimo. Uno di loro, Aelredo di Rievaulx (1110-1167) ha scritto uno splendido trattato intitolato L’amicizia spirituale. Aelredo è un realista, sa che «l’amicizia può essere carnale, mondana, spirituale. Quella carnale nasce dalla sintonia del vizio; quella mondana si accende per la speranza di un guadagno; quella spirituale si cementa tra coloro che sono buoni, in base a una somiglianza di vita, abitudini, gusti, aspirazioni». Ma, proprio perché realista, sa anche che «fin dal principio la natura ha impresso nello spirito umano il desiderio dell’amicizia, un desiderio che il sentimento interiore dell’amore presto intensificò dandogli un certo gusto di dolcezza», per cui «un uomo senza amici è come una bestia». Bestie sono «quanti pensano che l’ideale sia vivere senza dover consolare nessuno, senza essere di peso o causa di dolore per alcuno; senza trarre gioia alcuna dal bene degli altri, né amareggiarli con i propri sbagli; stando bene attenti a non amare nessuno, e non curandosi di essere amati da qualcuno».
L’opzione nichilista nega in definitiva la possibilità dell’amore, che Aelredo definisce «un sentimento dell’anima razionale per cui essa, spinta dal desiderio, cerca qualcosa e brama di goderne, ne gode con una certa dolcezza e soavità interiore, abbraccia poi l’oggetto di questa ricerca, e conserva quello che ha trovato». Per concludere che «l’amico è come un custode dell’amore».
Come si può pensare di essere soli?
RispondiEliminaFin dal nostro primo vagito non siamo soli, e non lo siamo mai neanche prima di nascere, custoditi dal grembo materno.
Durante il corso della mia vita ho conosciuto sul treno dell'esistenza, viandanti, passeggeri e compagni di viaggio che..credimi Gianandrea..ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa, pure nell'animo più cupo c'è una fiammella..bisogna solo alimentarla.
Le frasi di Proust sono il frutto di un animo umano, grande per certi versi, ma infinitamente piccolo per altri..interiormente parlando..che poi non lo sto giudicando ma solo valutandolo in parallelo col mio pensiero.
A volte la solitudine è una cosa cercata, condivisa con la nostra anima e neanche lì siamo soli!! ^_^
L'amicizia è un dono e come tale va rispettato e custodito...che di socialmente convenzionale non ha nulla.
Ciao Gianandrea e grazie per avermi dato modo di riflettere.
Un abbraccio.
Ora leggo questa riflessione che condivido in pieno.
RispondiEliminaNon c'è vita senza amici...Gianandrea!